Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XII
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CAPITOLO XII.
- Viaggio dilettevolissimo. — Discorso da me composto. — Ritorno a Pavia per la Lombardia. — Incontro piacevole. — Pericolo di assassinio. — Fermata a Milano in casa del marchese Goldoni.
Tosto che la compagnia fu in ordine per la partenza, fui mandato a cercare. Andai alla riva del Tesino, ed entrai nel battello coperto, ove tutti si ritrovarono. Nulla di più comodo ed elegante di questo piccolo naviglietto chiamato burchiello, fatto venire da Venezia espressamente. Consisteva in una sala e stanza contigua, coperte di legname con balaustrato soprapposto, ed ornate da specchi, pitture, sculture, scaffali, panche e sedie della maggior comodità. Era ben diverso dalla barca dei commedianti di Rimini.
Eravamo dieci padroni e parecchie persone di servizio: vi erano dei letti sotto la prua e sotto la poppa, ma non si dovea viaggiar che di giorno, e di più si era stabilito, che ci saremmo coricati in buoni alberghi, e dove non ne fossero, avremmo domandato ospitalità ai ricchi Benedettini che possedevano beni immensi, lungo le due rive del Po. Tutti codesti signori suonavano qualche stromento. Vi erano tre violini, un violoncello, due oboè, un corno da caccia ed una chitarra. Io solo non era buono a nulla, e me ne vergognavo, ma procurando di supplire al difetto di utilità, mi occupavo per due ore del giorno a mettere in buoni o cattivi versi gli aneddoti e divertimenti del dì precedente. Questa bizzarria dava sommo piacere ai miei compagni di viaggio, ed era dopo il caffè il comun nostro divertimento.
La loro occupazione favorita era la musica. Infatti sul far della sera prendevano posto sopra una specie di coverta, che forma il tetto dell’abitazione ondeggiante, e di là facevano risuonar l’aria dei loro armoniosi concerti, traendo a sè, da tutte le parti, le ninfe ed i pastori di quel fiume già tomba di Fetonte. Direte voi forse, mio caro lettore, essere alquanto enfatico il mio racconto? Potrebbe anch’essere; ma tale appunto dipingevo nei miei versi la nostra serenata. Il fatto sta, che le rive del Po, chiamato dai poeti italiani il re dei fiumi, erano attorniate da tutti gli abitanti di quelle vicinanze, che vi correvano in folla per sentire, e coi cappelli in aria, e fazzoletti spiegati ci significavano il loro piacere, non meno che i loro applausi. Arrivammo a Cremona circa le sei ore della sera. Era già corso il grido, che vi dovevamo passare, e le rive del fiume erano piene di gente che ci aspettava. Smontammo di barca. Fummo ricevuti con impeto di gioia, e fatti subito passare in una bellissima casa, situata tra la campagna e la città, ove si dette un concerto, e vari musici del paese ne accrebbero il divertimento. Vi fu gran cena, si ballò tutta la notte, e finalmente rientrammo col sole nella nostra nicchia, ove trovammo le deliziose nostre materasse. Fu ripetuta a un bel circa l’istessa scena a Piacenza, alla Stellada, ed alle Bottrighe in casa del marchese Tassoni. In tal guisa fra il riso, i giuochi ed i passatempi, arrivammo a Chiozza, ove io doveva separarmi dalla società più amabile e più piacevole del mondo. I miei compagni di viaggio vollero usarmi la garbatezza dì smontar meco. Li presentai a mio padre, che li ringraziò di cuore, pregandoli inoltre di rimanere a cena in casa sua; ma erano in necessità di restituirsi a Venezia l’istessa sera. Mi pregarono di dar loro i versi da me fatti sul viaggio; chiesi tempo per metterti a pulito, promettendo di spedirglieli, nè mancai. — Eccomi a Chiozza, ove mi annoiavo sempre, secondo il solito. Narrerò in breve il poco che vi feci, e come avrei desiderato affrettarmi a partire. Mia madre aveva fatta conoscenza con una religiosa del convento di San Francesco. Questa era Donna Maria Elisabetta Bonaldi, sorella del signor Bonaldi, notaro ed avvocato veneziano. Le religiose avevano ricevuto da Roma una reliquia del loro serafico fondatore, che si doveva esporre con pompa ed edificazione, e vi bisognava il discorso panegirico. La signora Bonaldi ponendo fiducia nel mio collare, mi credeva già moralista, teologo ed oratore. Proteggeva un giovine abate, che aveva grazia e memoria; mi pregò adunque di comporre il discorso, e di affidarlo al suo protetto, essendo sicura che lo avrebbe portato a maraviglia. Le mie prime parole furono di scusa e di rifiuto, ma riflettendo poi che nel mio collegio si faceva ogni anno il panegirico di Pio V, e che un collegiale per lo più ne assumeva l’incarico, accettai l’occasione di esercitarmi in un’arte, che non mi pareva poi in fondo difficilissima. Feci il mio discorso nello spazio di quindici giorni. L’abatino l’imparò a mente, e lo portò come avrebbe potuto fare un espertissimo predicatore. Il discorso produsse il più grand’effetto: si piangeva, si sputava da tutte le parti, nè si trovava fermezza sopra le sedie. L’oratore si impazientiva, picchiava le mani ed i piedi; crescevano intanto gli applausi, e questo povero diavoletto, non ne potendo più, gridò dal pulpito: Silenzio, e tutti tacquero. Si sapeva benissimo, che era mia composizione: quanti complimenti! quanti presagi felici! Avevo avuto l’arte di dar molto nel genio alle religiose, avendo diretta alle medesime un’apostrofe in una maniera delicata con attribuir loro tutte le virtù senza il difetto della bigotteria. (Avevo piena cognizione di esse, e sapevo benissimo che non erano bigotte). Tutto questo mi guadagnò un magnifico regalo di trine, dolci e ricami.
Il lavoro della mia orazione, ed il pro ed il contro, che ne vennero dietro, mi occuparono tanto tempo, che mi condusse al termine delle vacanze. Scrisse mio padre a Venezia, perchè mi si procurasse una vettura che mi conducesse a Milano: si presentò per l’appunto l’occasione, e andammo a Padova mio padre ed io. Vi era un vetturino milanese sul punto di far la sua gita di ritorno, soggetto conosciutissimo e da fidarsene: partii dunque in un calesse solo con lui. Quando fummo fuori di città, il mio condottiero incontrò uno dei suoi compagni che doveva fare appunto il viaggio istesso di noi, e che non aveva in calesse che una sola persona. Era questa una donna, che mi parve giovine e bella: fui curioso di vederla da vicino, e nel primo desinare restò appagata la mia curiosità. Vidi una veneziana, che giudicai dall’età di trent’anni, oltremodo garbata ed amabile; si fece tra noi conoscenza, e si fissò con i vetturini, che, per essere meno sbalzati dal calesse per motivo della cattiva strada, si sarebbe occupata la sedia medesima, e due cavalli sarebbero andati a vuoto alternativamente.
I nostri colloqui furono piacevolissimi, ma decentissimi. Vedevo per altro bene, che la mia compagna di viaggio non era una vestale, e che aveva il tono della buona compagnia; ma passammo le notti in camere separate con la maggior regolarità. Arrivando a Desenzano in riva al lago di Garda fra la città di Brescia e quella di Verona, ci fecero smontare in un albergo che corrispondeva sopra il lago.
Vi si trovavano in quel giorno molti viandanti, e non vi era che una camera con due letti per madama e per me. Cosa fare? Bisognava pure adattarsi: la camera era molto grande, ed i letti non si toccavano. Ceniamo, ci diamo a vicenda la buona notte, e ciascuno si chiude nei suoi lenzuoli. Prendo subito sonno secondo il mio solito, ma lo interrompe un violento fracasso, e mi sveglio repentinamente. Non vi era lume; ma al chiaror della luna, che passava per le finestre senza imposte e senza tende, vidi una donna in camicia, ed un uomo a’ suoi piedi: domando cos’è? la mia bella eroina con una pistola in mano mi dice in tono di fierezza e di scherno: — Aprite la porta, signor abate, gridate al ladro, e poi tornate a letto. — Non tardo un istante, apro, grido, vien gente, e il ladro è preso: fo poi delle ricerche alla mia compagna, che non si degna darmi conto della sua bravura. Pazienza! me ne ritorno a letto, e dormo fino al giorno dopo.
La mattina partendo fo ringraziamenti alla mia compagna: ella sempre scherza; così continuiamo il nostro viaggio per Brescia, ed arriviamo a Milano. Là ci lasciamo officiosamente: io contentissimo della sua ritenutezza, ella forse scontenta della mia continenza.
Andai a smontare all’abitazione del signor marchese Goldoni, e restai in sua casa sei giorni per aspettare il termine delle vacanze. Mi furon tenuti dal mio protettore discorsi molto aggradevoli e tali da ispirarmi molta speranza e molto ardore: mi credevo al colmo della felicità, ed ero sull’orlo della mia rovina.