Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XVIII

Da Wikisource.
XVIII

../XVII ../XIX IncludiIntestazione 23 novembre 2019 100% Da definire

Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XVIII
Parte prima - XVII Parte prima - XIX

[p. 51 modifica]

CAPITOLO XVIII.

Ritorno a Chiozza. — Partenza per Modena. — Orribile spettacolo. — Mie malinconie. — Mia guarigione a Venezia.

Arrivammo a Chiozza, e fummo ricevuti come una madre riceve un figlio a sè caro, e come una buona moglie accoglie il suo diletto consorte dopo una lunga assenza. Ero contentissimo di rivedere la virtuosa mia madre, per la quale avevo un tenero affetto. Dopo essere stato sedotto ed ingannato, avevo bisogno di riscuotere amore. È vero, che di specie assai diversa era quest’amore; ma nell’aspettativa di poter gustare le delizie di una passione onesta e gradevole, l’amor materno faceva la mia consolazione. Ci amavamo entrambi; ma qual differenza dall’amore di una madre per suo figlio da quello di un figlio per sua madre! I figli amano per gratitudine; le madri per impulso di natura, e l’amor proprio non ha la minima parte nel loro tenero affetto. Amano i frutti del loro coniugale amore, concepiti con soddisfazione, portati con pena nel seno, e messi al mondo con tanto tormento; hanno veduto crescerli di giorno in giorno, hanno goduto i primi tratti della loro innocenza, e si sono assuefatte ad averli sempre avanti agli occhi, ad amarli, a prenderne cura... Io sono perfin di parere, che questa ultima ragione prevalga a tutte le altre, e che una madre non avrebbe meno amore [p. 52 modifica] per un figlio che le fosse stato barattato a bália, se lo avesse ricevuto in buona fede per suo, se si fosse presa il pensiero della di lui prima educazione, e si fosse assuefatta ad accarezzarlo, e tenerselo caro.

Ecco una digressione estranea a queste Memorie; qualche volta ho voglia di ciarlare, e senza tener dietro allo spirito, mi curo soltanto dell’analisi del cuore umano. Riprendiamo il filo del discorso.

Ricevè mio padre una lettera dal suo cugino Zavarisi notaro a Modena, ed eccone il contenuto. Il duca aveva rimesso in vigore un antico editto, col quale era proibito a qualunque possessore di fondi e di beni stabili di assentarsi dai suoi Stati senza permesso, e tal permesso costava caro. Il signor Zavarisi diceva inoltre nella sua lettera, che, essendo andate a vuoto a riguardo mio le nostre mire per Milano, consigliava mio padre ad inviarmi a Modena, ove vi era una università come a Pavia, ove compiere i miei studi di legge, ottener laurea, e finalmente patente di avvocato. Questo buon parente, che ci era veramente affezionato, ricordava a mio padre che i nostri antenati avevano sempre tenuto cospicui posti nel ducato di Modena, che io avrei potuto far rivivere l’antico credito della famiglia, ed evitare nel tempo istesso la spesa di un permesso, che bisognava rinnovare ogni due anni, dicendo in fine che si sarebbe addossato egli stesso la cura della mia persona, e che mi avrebbe cercata una buona ed onesta dozzina. Eravi poi un poscritto, col quale si dichiarava di aver posti gli occhi sopra di me per un ottimo accasamento. Questa lettera diede motivo a molti ragionamenti, e ad un’infinità di pro e contro fra mia madre ed il mio genitore. La vìnse il padrone, e fu deciso che io partissi speditamente col corriere di Modena. Vi sono a Venezia corrieri che corrono, e corrieri che non corrono. I primi si chiamano corrieri di Roma, i quali ordinariamente non vanno che a Roma e a Milano, straordinariamente poi per tutto, e dove la Repubblica li spedisce. Questi impieghi sono stabiliti fino al numero trentadue, e godono qualche considerazione fra la cittadinanza. Rispetto agli altri corrieri però, la cosa è molto diversa, non essendo essi che semplici conduttori di barche da trasporto pagati dai respettivi loro noleggiatori: sono per altro in grado di avanzare la lor sorte col profitto che ricavano dai ripostigli delle loro barche, ove tengono in custodia i diversi involti che ricevono. Son comodissime queste barche, e sono in numero di cinque: quella di Ferrara, quella di Bologna, quella di Modena, quella di Mantova e quella di Firenze. Vi si può avere il vitto, volendo, con tutta la convenienza; ed il prezzo è discretissimo. Il solo inconveniente è di dover mutar barca tre volte in un istesso viaggio. Ogni Stato per dove debbon passare questi corrieri pretende aver diritto di impiegare le proprie barche e i propri marinari, non avendo mai pensato i diversi Stati limitrofi ad un provvedimento, che ridondi in vantaggio comune senza incomodare i passeggieri. Desidero che i padroni del Po leggano le mie Memorie, e profittino dell’avviso.

Eccomi adunque nella barca corriera di Modena, dove eravamo quattordici passeggieri: il nostro condottiero chiamato Bastia era un uomo molto avanzato in età, molto magro, e di burbera fisonomia: onestissimo per altro, e nel tempo stesso devoto.

Fummo trattati tutti insieme nel primo desinare all’albergo, ove il padrone della barca fece la provvisione necessaria per la cena, che si fa per viaggio. [p. 53 modifica]

Al farsi della notte si accendono due lampioni che illuminavano da per tutto; quand’ecco il corriere che comparisce in mezzo a noi colla corona in mano, e ci prega e ci esorta garbatissimamente a recitare in sua compagnia una terza parte del rosario e le litanie della Madonna. Ci prestammo quasi tutti alla religiosa insinuazione del buon uomo Bastia, e ci distribuimmo da due lati per spartirci i Pater ed Ave che si recitavano con molta devozione. In un canto della barca vi erano tre de’ nostri compagni di viaggio, che col cappello in testa sconciamente ridevano, ci contraffacevano, e si burlavano di noi. Accortosene Bastia, pregò questi signori ad avere almeno convenienza non volendo aver devozione. I tre incogniti gli ridono sul muso, e Bastia soffre, nè fa più parole, non sapendo con chi l’avesse da fare: ma un marinaro, che li aveva riconosciuti, dice al corriere che quelli erano tre Ebrei. Bastia monta in furia, e va gridando come un indemoniato: Come! voi siete Ebrei, e a desinare avete mangiato del porco? — A questa uscita inaspettata ciascuno incomincia a ridere, gli Ebrei inclusive. Bastia séguita avanti, dicendo: Compiango quei disgraziati che non conoscono la nostra religione, ma disprezzo poi quelli che non ne osservano alcuna. Voi avete mangiato del porco, siete birbanti. — A tal discorso gli Ebrei in furia si scagliano addosso al conduttore; prendemmo allora il giusto partito di difenderlo, e forzammo gli Israeliti a starsene da loro. Interrotto il nostro rosario, fu rimesso al giorno dopo. Cenammo con molta allegria, ci coricammo sulle nostre materasse, e non ci fu nulla di straordinario nel resto del viaggio. Vicino a Modena mi domandò Bastia ove andavo ad alloggiare; per vero dire, non lo sapeva neppure io, dovendo cercarmi la dozzina il signor Zavarisi. Bastia allora mi pregò di andare a star con lui; sperava, avendo conoscenza col medesimo, che egli l’avrebbe approvato, come effettivamente fece mio cugino, onde andai a stare in casa di questo corriere che non correva. Era questa una casa di devoti. Il padre, il figlio, le ragazze, la nuora, i bambini avevan tutti la più gran devozione. Veramente non mi divertivo, ma siccome erano gente buona, che viveva con saviezza ed in pace, ero pienamente soddisfatto delle loro attenzioni: si rende infatti sempre stimabile chi adempie i doveri della umana società. Mio cugino Zavarisi, contentissimo di avermi vicino, mi presentò subito al rettore della università, e dopo mi condusse in casa di un celebre avvocato del paese, dal quale dovevo instruirmi nella pratica, e dove presi il mio posto nell’atto. Eravi in questo studio un nipote del celebre Muratori, il quale mi procurò la conoscenza di suo zio, uomo fondato in ogni genere di letteratura, che faceva tant’onore alla sua nazione ed al suo secolo, e che sarebbe stato cardinale, se avesse sostenuti meno ne’ suoi scritti gl’interessi della casa d’Este. Questo nuovo compagno mi fece vedere tutto ciò che vi era di più bello nella città. Il palazzo ducale, fra l’altre cose, che è della più gran bellezza e della più gran magnificenza, e quella collezione di pitture sì preziosa, ch’esisteva in Modena anche in quel tempo, e che il re di Polonia comprò al prezzo considerevole di cento mila zecchini. Ero curioso di vedere quella famosa secchia che fu il soggetto della Secchia Rapita del Tassoni. La vidi nel campanile della cattedrale, ove sta sospesa perpendicolarmente ad una catena di ferro. Mi divertii molto, e credei che il soggiorno di Modena fosse per convenirmi, a motivo della conversazione delle persone di lettere di cui abbonda, e della frequenza dei divertimenti teatrali che [p. 54 modifica] vi si danno, non meno che per la speranza che avevo di risarcirvi le mie perdite.

Ma uno spettacolo orribile da me veduto pochi giorni dopo il mio arrivo, una tremenda ceremonia, una pompa di religiosa giurisdizione mi ferì l’animo sì fortemente, che rimase turbato il mio spirito, restarono agitati i miei sensi. Vidi nel mezzo di una folla di popolo un palco eretto all’altezza di cinque piedi, sopra il quale compariva un uomo a testa nuda con le mani legate. Era questi un abate di mia conoscenza, uomo di lettere coltissimo, celebre poeta, conosciutissimo, e che godeva somma stima in Italia: era l’abate J*** B*** V***. Un religioso teneva un libro in mano, un altro interrogava il paziente, e questi rispondeva con risentimento. Li spettatori picchiavano le mani, e lo incoraggiavano; crescevano intanto gl’ingiuriosi modi e i rimproveri, e l’uomo infamato fremeva. Non potei più reggere; partii pensoso, stordito, agitato, e la mia malinconia tornò subito ad assalirmi: rientro in casa, mi serro nella stanza immerso nelle riflessioni più cupe e umilianti per l’umanità. Grande Iddio! dicevo allora a me stesso: a quali cose noi siamo sottoposti in questa vita fugace che noi siamo astretti a trascinare! Ecco un uomo accusato di aver tenuti discorsi scandalosi con una donna, che formava la sua delizia. Chi lo ha denunziato? La donna medesima. Oh cielo! non basta l’esser disgraziato per esser punito? Riandai la serie di tutti gli avvenimenti accadutimi, e che avrebber potuto essermi dannosi: la malata di Chiozza, la cameriera, la friulese acqua cedrataia, la satira di Pavia, ed altre mancanze, delle quali avevo da rimproverarmi. Mentre ero nelle mie triste meditazioni, ecco il vecchio Bastia, che, avendo saputo il mio ritorno, viene a propormi di andare a recitare il rosario con la sua famiglia. Avendo bisogno di distrazione, accettai con piacere; dissi il rosario con molta devozione, e vi trovai il mio contento.

Fu portato da cena, e si parlò dell’abate V***. Io dimostrai l’orrore che mi aveva fatto quell’apparecchio: il mio ospite, ch’era del partito della società secolare di questa giurisdizione, trovò la cerimonia magnifica ed esemplare. Gli domandai come lo spettacolo era andato a terminare; mi rispose, che l’orgoglioso era stato umiliato; che finalmente il pertinace aveva ceduto, ch’era stato obbligato a confessare ad alta voce tutti i delitti, a recitare una formula di ritrattazione che gli fu presentata, e che aveva avuta la condanna di sei anni di prigione. La vista terribile dell’uomo oppresso non mi lasciava mai; non vedevo più alcuno, andavo ogni giorno alla messa con Bastia, alla predica, alle orazioni della sera, agli uffizi con lui: era contentissimo di me, e cercava di fomentare in me quello spirito di religione, che compariva in tutte le mie azioni, e nei miei discorsi con racconti di visioni, miracoli e conversioni.

Il partito era preso; avevo con fermezza risoluto di entrar nell’ordine dei cappuccini. Scrissi a mio padre una lettera molto studiata, che non aveva però senso comune, e lo pregai ad accordarmi il permesso di rinunziare al mondo, e d’imbacuccarmi in un cappuccio. Mio padre, che non era balordo, si guardò dal contrariarmi, mi lusingò anzi molto, e parve contento dell’inspirazione che gli accennavo: mi pregò soltanto di andare da lui, ricevuta appena la sua lettera, promettendomi, che tanto egli come mia madre nulla più gradivano, che di soddisfarmi. In vista di questa risposta, io mi disposi alla partenza. Bastia che non doveva in quel giorno condur la barca a Venezia, mi raccomandò al suo compagno ch’era per partire. Presi congedo dalla devota famiglia, mi raccomandai molto [p. 55 modifica] alle loro preghiere, e partii negl’impeti più fervorosi della contrizione. Arrivato a Chiozza, i miei cari genitori mi riceverono con carezze senza fine. Domandai loro la benedizione, me la diedero piangendo; parlai della mia nuova idea, non la disapprovarono. Mio padre mi propose di condurmi a Venezia, ed io ricusai con devota franchezza; ma dicendomi, che l’oggetto era di presentarmi al guardiano dei cappuccini, vi acconsentii ancora con tutto il piacere. Andiamo a Venezia, vediamo i nostri parenti, i nostri amici, desiniamo in casa degli uni, ceniamo in casa degli altri. Mi procurano un sollazzo ch’io non m’aspettava; mi conducono alla commedia, e in capo a quindici giorni non si parla più di clausura. Si dissipano le mie malinconie, e si rischiara la mia mente. Compiangevo sempre la persona che avevo veduta sul palco, ma riconobbi che non era necessario di rinunziare al mondo per evitare simil sorte.