Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XXII.

Mio dottorato. — Singolarità che lo precederono.

Vedendomi sul punto di comparire in toga lunga nelle grandi sale del palazzo, ove pochi anni avanti ero comparso sempre in abito corto, andai a trovare mio zio Indric, in casa del quale avevo fatto la mia pratica. Ebbe caro di rivedermi, e mi assicurò che potevo far capitale di lui. Mi convenne per altro superar molte difficoltà.

Per essere riconosciuto avvocato in Venezia, è necessario rifarsi dall’essere addottorato nell’università di Padova, e per ottener le patenti di dottore, bisogna aver fatti gli studi di legge nella medesima città e avervi passati cinque anni consecutivi, con gli attestati di aver percorse tutte quante le diverse classi di quelle scuole pubbliche. I soli forestieri possono presentarsi al collegio, sostener le loro tesi, ed essere subito addottorati. È vero, che io era originario di Modena: ma nato a Venezia come mio padre, poteva io godere il vantaggio dei forestieri? non lo so. Una lettera per altro scritta d’ordine del duca di Modena al suo ministro a Venezia mi fece ascrivere nella classe dei privilegiati.

Eccomi dunque nella possibilità di ritornar ben presto a Padova e di ricevervi la laurea dottorale; ma ecco un nuovo ostacolo assai più forte. Nella curia di Venezia non si séguita che il codice Veneto, nè si citano mai Bartolo, Baldo, o Giustiniano; questi autori son quasi ignoti; a Padova però bisogna conoscerli. Succede adunque a Venezia come a Parigi: i giovani perdono il tempo in uno studio inutile. Io pure avevo perduto il mio in egual modo che gli altri, e benchè avessi studiato il gius romano a Pavia, a Udine, a Modena, dopo quattr’anni ero fuori di esercizio, avevo perduta la traccia delle leggi imperiali, e mi vedevo nella necessità di tornar di nuovo scolare. M’indirizzai a uno dei miei antichi amici. Il signor Radi da me conosciuto fino da’ miei primi anni, avendo impiegato molto meglio di me il suo tempo, era divenuto buon avvocato, ed eccellente maestro di legge per istruire i candidati, che per lo più non andavano a Padova, fuorchè quattro volte all’anno per farsi soltanto vedere, e riportare in seguito le loro rassegne. Radi era un bravo uomo, ma era appassionato per il giuoco, ed appunto per tal ragione non si ritrovava in troppa comodità; i suoi scolari profittavano delle di lui lezioni, e spesso spesso del di lui danaro. Quando egli mi credè in istato di potermi esporre, andammo insieme a Padova. Confesso, che quantunque istruito, come già ero, e pieno di quell’ardire che l’uso del mondo mi aveva fatto acquistare, non lasciavano ciò nonostante di farmi una certa apprensione quelle gravi ed imponenti fisonomie, dalle quali dovevo esser giudicato; il mio amico si burlava di me, assicurandomi che non vi era nulla da temere; che queste erano cerimonie che non si potevano evitare, e che bisognava veramente esser del tutto ignorante per non esser coronato colla laurea dell’università.

Giunti nella gran città dei dottori, andammo subito a casa del signor Pighi, professore di gius civile, per pregarlo di compiacersi di essere il mio promotore, ciò è quello, che in qualità di assistente mi doveva presentare e sostenere. Egli mi concesse questa grazia, e accettò con garbata maniera un vassoietto di argento da me offertogli in dono. Andammo dipoi all’uffizio dell’università per depo[p. 64 modifica]sitare in mano del cassiere la somma che i professori soglion dividersi fra loro, e questa anticipazione si fa a titolo di deposito: ma in questo luogo si dice appunto come al teatro: quando è alzato il sipario non si rendon quattrini. Conveniva far le solite visite a tutti i dottori del collegio, e con biglietti ne sbrigammo molte. Giunti però alla casa del signor abate Arrighi, uno dei primi professori dell’università, l’usciere aveva l’ordine di farci entrare. Lo trovammo nel suo gabinetto di studio, e gli si fece il complimento di volere onorarmi della sua persona, e nel tempo stesso accordarmi la sua indulgenza. Parve sommamente maravigliato nel sentirci limitare il discorso a questa secca ed inutile officiosità, ma noi non sapevamo che cosa volesse dire, ecco però di che si trattava. Era comparso un nuovo ordine pubblicato per comando dei Riformatori degli Studi di Padova, in vigor del quale chi aspirava alla laurea, prima di presentarsi al collegio adunato, doveva sostenere un esame particolare, per distinguere così se realmente fosse stato abbastanza istruito, e perciò degno di esporsi. Il signor Arrighi istesso, mosso da un eccessivo zelo, vedendo che l’atto pubblico dei candidati non era che un giuoco, che troppo si favoriva la giovanile infingardaggine, che si sceglievano le questioni a piacere, che si comunicavano anche gli argomenti, che si somministravano tacitamente le risposte, e che in sostanza si facevan dottori senza dottrina; aveva affrettato, ed ottenuto questo famoso ordine, il quale andava a distruggere l’università di Padova, se avesse lungamente durato. Dovevo dunque sostenere quest’esame, ed il mio esaminatore doveva essere l’abate Arrighi. Pregò pertanto il signor Radi di passare nella sua libreria, e si accinse subito all’opera. Non mi risparmiò in nulla; dal Codice di Giustiniano saltava ai Canoni della Chiesa, e dai Digesti alle Pandette. Rispondevo ora bene, ora male, e forse più male che bene, dimostrando per altro molta cognizione, e non minor franchezza. Il mio esaminatore però rigorosissimo, e di somma delicatezza, non era intieramente di me contento, e avrebbe voluto che avessi studiato un altro poco. Gli dissi però apertamente ch’ero venuto a Padova per essere addottorato, che la mia reputazione restava troppo compromessa se fossi tornato senza la laurea, e che il mio deposito era già fatto. — Come! egli riprese, voi avete già depositato il vostro danaro? — Sì, signore. — Ed è stato accettato senza mio ordine? — Il cassiere lo ha ricevuto senza la minima difficoltà, ed eccone qui il riscontro. — Tanto peggio: voi correte il rischio di perderlo. Avete voi coraggio di esporvi? — Sì, signore, sono determinato di uscirne a qualunque costo: amo piuttosto di renunziar per sempre ad essere avvocato, che di ritornare una seconda volta. — Siete molto ardito. — Signore, curo il mio decoro! — Basta dunque così; stabilite il giorno, io mi ci troverò: ma badate bene: la più piccola mancanza vi farà andare a vuoto il colpo. — Io fo la mia reverenza, e me ne vado.

Radi aveva inteso tutto, ed era più in timore di me. Conoscevo pur troppo ancor io, che le mie risposte non erano state molto esatte, ma nel collegio de’ dottori le quistioni son limitate, nè si fa percorrere il caos immenso della giurisprudenza da un termine all’altro. Il giorno seguente andiamo all’università per esser presenti all’estrazione dei punti, che la sorte mi aveva destinati. Quello di gius civile riguardava la successione degl’intestati, e quello di gius canonico verteva sulla Bigamia. Conoscevo bene i titoli dell’uno e i capitoli dell’altro; ma li ripassai quel medesimo giorno [p. 65 modifica] nella libreria del dottor Pighi mio promotore, e applicai seriamente fino all’ora di cena. Ci ponevamo appunto a tavola l’amico ed io, quando entrano nella stanza cinque giovani, e vogliono cenar con noi. Volentierissimo: fummo serviti; si cena, si ride, ci divertiamo. Uno di questi cinque scolari era un candidato non passato all’esame del professore Arrighi. Strepitava dunque contro quest’abate, Còrso di nazione, e motteggiava sulla barbarie del paese, e di questo regnicolo. Do la buona notte a’ miei signori. Domani è il giorno del mio dottorato, è necessario che io vada a riposarmi. Si burlano essi di me, si levano di tasca dei mazzi di carte, ed uno di loro mette zecchini sulla tavola. Radi il primo fa subito il suo libriccino per puntare; giuochiamo, passiamo la notte giuocando, e Radi ed io perdiamo tutto il danaro. Giunge il bidello del collegio, e mi porta la toga che dovevo mettermi. Si sente la campana dell’università; bisogna partire, bisogna esporsi senza aver chius’occhio, e col rammarico di aver perso tempo e danaro. Che importa? Su via, coraggio: io giungo, ed il mio promotore viene al mio incontro; mi prende per mano, e mi colloca accanto a sè sopra ad un balaustrato in faccia al semicerchio della numerosa adunanza. Io m’alzo, quando tutti hanno preso posto; comincio dal recitar il cerimoniale d’uso, e propongo le due tesi che dovevo sostenere. Uno dei deputati all’argomentazione mi avventa un sillogismo in barbara, con citazioni di testi alla maggiore ed alla minore: riprendo l’argomento, e nella citazione di un paragrafo, sbaglio dal numero 5 al numero 7. Il mio promotore mi avverte sotto voce di questa lieve mancanza, ed io cerco di correggermi. Si alza allora dalla sedia il signor Arrighi, e dice ad alta voce indirizzando le parole al signor Pighi: Signore, io protesto che non soffrirò la minima contravvenzione alle leggi del nuovo ordine. I suggerimenti ai candidati sono in questo momento proibiti. Si passi pur sopra per questa volta, vi avverto bensì per l’avvenire. Ben mi accorsi, che restaron tutti irritati da questa uscita fuor di proposito; afferrai dunque l’istante favorevole, e ripresi il fondo della mia tesi, unitamente alle proposizioni dell’argomento. Sostituii al metodo scolastico la dottrina, i ragionamenti, le discussioni dei compilatori e degl’interpreti. Feci un’intiera dissertazione sopra quanto può estendersi la materia delle successioni ab intestato: tutti mi applaudirono; onde, vedendo che il mio ardire era perdonato, mi rivolsi di botto dal gius civile al canonico. Intrapresi a discutere l’articolo della Bigamia, e lo trattai come il primo; percorsi le leggi dei Greci e dei Romani, nè mancai di citare i concilii: ero veramente stato favorito dalla sorte nell’estrazione dei punti; li sapevo a mente, e mi feci un onore immortale. Si raccolgono i voti. Il cancelliere ne pubblica il resultato: Io passo nemine penitus, penitusque discrepante. Cioè, neppure un voto contro: inclusive quello del signor Arrighi, che n’era anzi contentissimo. Il mio promotore allora, dopo avermi messo in capo la laurea, fece l’elogio del candidato; ma siccome io non aveva tenuto lo stile solito, creò nell’atto, prosa e versi latini, che fecero ad ambidue molto onore.

Subito che il candidato è approvato, ognuno entra. Tutti dunque entrano, ed io rimasi stordito dai complimenti e dagli abbracci. Radi ed io ritornammo al nostro albergo, contentissimi che la cosa avesse avuto termine, e imbrogliatissimi vedendoci senza danaro. Bisognava cercarne; ne trovammo senza molto incomodo, e partimmo gloriosi e trionfanti per Venezia.