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Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXIX

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte prima - XXVIII Parte prima - XXX

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CAPITOLO XXIX.

Sacrifizio della mia Amalasunta. — Visita impensata al signor residente. — Conforto anche più impensato per me. — Arrivo di un anonimo a Milano. — Apertura dello spettacolo per mezzo mio. — Piccola operetta da me composta. — Partenza del residente per Venezia.

Entrato in casa, avevo freddo, caldo, ed ero nella maggiore umiliazione. Levo di tasca il mio scritto, e mi vien voglia di lacerarlo. Il giovine dell’albergo domanda gli ordini per la cena. — Non cenerò, fatemi bensì un buon fuoco. — Avevo sempre in mano la mia Amalasunta. Ne rileggevo alcuni versi, e li trovavo pieni di grazia. Maledette regole! la mia composizione è buona, ne son sicuro; sì, ella è buona; è bensì cattivo il teatro, gli attori, le attrici, i maestri di musica, i decoratori... che il diavolo se li porti; e te pure disgraziata mia composizione, che mi sei costata tanta pena, e che hai deluse le mie speranze, te divorino adesso le fiamme! — La getto nel fuoco, e sto a vederla bruciare a sangue freddo con una specie di compiacenza. Il mio dispiacere e la mia collera avevano bisogno di sfogo; rivolsi la vendetta contro me stesso, e così ebbi le mie soddisfazioni. Tutto era finito. Non pensavo più alla mia composizione: ma rivoltando la cenere con le molle, e radunando i frammenti del mio manoscritto per compierne la combustione, mi venne in pensiero, che in nessun caso non aveva mai fatto per i [p. 81 modifica]miei disgusti il sacrifizio della mia cena: chiamo il giovine, ordino che apparecchi, e che mi porti subito da mangiare. Non aspettai molto, mangiai bene, bevvi meglio, andai a letto, e riposai con la maggior tranquillità. Quello bensì che mi accadde di straordinario fu che la mattina mi risvegliai due ore più presto del solito. Nello svegliarmi il mio spirito sarebbe inclinato dalla cattiva parte, ma dissi allora a me stesso: su via, su via, in bando il cattivo umore, ci vuol coraggio; si vada dal signor residente di Venezia; egli mi aveva invitato a pranzo; ma è necessario parlargli da solo a solo, conviene dunque andarvi subito. Mi vesto, e ci vado.

Vedendomi il ministro a nove ore di mattina, dubitò che mi avesse là condotto qualche urgente motivo. Mi ricevè alla toeletta; gli feci intendere, che mi davan fastidio i testimoni, ed egli ordinò che tutti escissero: gli raccontai allora l’istoria della veglia, gli delineai al vivo il quadro della conversazione disgustosa, che mi aveva stomacato, gli parlai del giudizio del conte Prata, e terminai con dire, che io era l’uomo più impacciato del mondo.

Si divertì molto il signor Bartolini al racconto della scena comica dei tre attori eroici, e chiese di leggere la mia opera. — La mia opera, o signore? ella più non esiste. — Che cosa ne avete fatto? — L’ho bruciata. — L’avete bruciata? — Sì, signore. Ho bruciato ogni mio capitale, ogni mio bene, la mia fortuna, le mie speranze. — Allora sì, che diè nel ridere il ministro; ma dal riso e dalle ciarle ne risultò, che io restai nella casa di lui, che mi ricevè in qualità di gentiluomo di camera, che mi assegnò un bellissimo appartamento, e che al fin dei conti, nello scacco che avevo toccato, era maggiore il guadagno della perdita. Il mio impiego non mi occupava, che per commissioni piacevoli: andare, per esempio, a complimentare i signori veneti che erano di viaggio, o in casa del governatore, o dai magistrati di Milano per affari della Repubblica. Queste occasioni non erano frequenti, ed avevo perciò tutto il comodo di divertirmi, e scegliere occupazioni di mio piacere. Capitò in questa città al principio della quaresima un ciarlatano di una specie molto rara, la cui memoria merita forse di esser registrata negli annali del secolo. Buonafede Vitali della città di Parma era il suo nome, e si faceva chiamar l’Anonimo. Discendeva da buona famiglia, aveva avuto una eccellente educazione, ed era stato gesuita: sentendo disgusto per il chiostro, si diede alla medicina, ed ottenne la cattedra di professore nell’università di Palermo. Quest’uomo singolare, a cui veruna scienza era straniera, aveva una smoderata vanità di far valere l’estensione del suo sapere; e siccome era miglior parlatore che scrittore, abbandonò il posto onorevole che teneva, e prese il partito di fare il saltimbanco per arringare il pubblico; ma, non essendo abbastanza ricco per contentarsi della pura gloria, traeva profitto dal suo ingegno, e vendeva i suoi medicamenti. Era per lui un bel fare il mestiero del ciarlatano; i suoi specifici erano buoni, e la sua scienza e facondia gli avevano acquistato un credito e una considerazione non così comuni. Risolveva pubblicamente tutte le questioni più difficili che gli venivan proposte in tutte le scienze e materie più astratte. Si proponevano sul suo teatro empirico, problemi, punti di critica, d’istoria, di letteratura, ecc., rispondeva nell’atto, e faceva dissertazioni soddisfacentissime. Pochi anni dopo passò a Venezia, e fu chiamato a Verona, a motivo di una malattia epidemica, che faceva perire chi n’era attaccato. Il suo arrivo in questa città fu come l’apparizione di Esculapio in Grecia, guarì tutti con méle appiole e vino di Cipro. Fu chia[p. 82 modifica]mato per riconoscenza il primo medico di Verona, ma non ne potè godere lungamente, essendo morto l’anno istesso, compianto da tutti, fuorchè dai medici.

In Milano aveva l’Anonimo la soddisfazione di veder la piazza, ov’egli si mostrava al pubblico, sempre piena di gente a piedi e in carrozza; ma siccome i dotti eran quelli che compravano meno degli altri, bisognava però fornire il palco di oggetti attraenti per trattenere il pubblico ignorante; e il novello Ippocrate spacciava i suoi rimedi, profondeva la sua rettorica, attorniato dalle quattro maschere della commedia italiana. Buonafede Vitali aveva pure passione per la commedia, e teneva a sue spese una compagnia completa di commedianti, i quali dopo avere aiutato il loro principale a ricevere il danaro che gli si gettava nei fazzoletti, e a rimandar i medesimi pieni di piccoli vasetti o scatolette, davano in sèguito rappresentazioni in tre atti, al lume di torcie di cera bianca, e con una certa tal quale magnificenza.

Volevo fare amicizia con l’Anonimo, non solo per il piacer di conoscere quest’uomo straordinario, quanto ancora i suoi seguaci. Andai un giorno a trovarlo sotto pretesto di comprare un poco del suo alexifarmaco; in questa occorrenza, promossi varie questioni sopra la malattia che avevo o che credevo di avere, e si accorse che la sola curiosità mi aveva tratto alla di lui casa: mi fece portare una buona tazza di cioccolata, e mi disse esser quello il miglior medicamento per il mio stato. Trovai molta urbanità e grazia nelle sue maniere, e ci trattenemmo a crocchio insieme per qualche tempo. Era tanto amabile in privato, quanto era dotto in pubblico. Nel corso della nostra conversazione essendomi palesato per persona che aveva aderenza col residente di Venezia, credè che io potessi essergli utile riguardo a un disegno che aveva immaginato. Me lo partecipò: m’impegnai a servirlo, e vi riuscii con la maggiore facilità. Ecco di che cosa si trattava.

Non vi annoiate, mio caro lettore, di questa digressione; vedrete quanto ella è per esser necessaria alla connessione della mia istoria. Nella quaresima erano sospesi in Milano gli spettacoli, come è uso per tutta l’Italia. Il teatro comico doveva riaprirsi a Pasqua, ed era stata già fissata una delle migliori compagnie di commedianti, ma il direttor di essa, essendo stato chiamato in Germania, partì senza dir nulla, e mancò ai Milanesi. Trovandosi pertanto la città senza spettacoli, era sul punto di rivolgersi a Venezia e Bologna per mettere insieme una compagnia. L’Anonimo dunque avrebbe desiderato che si fosse data la preferenza alla sua, non eccellente, ma che peraltro poteva far conto di tre o quattro soggetti di merito, il cui insieme si combinava a maraviglia. In fatti il signor Casali che recitava le parti di primo amoroso, ed il signor Rubini che sosteneva stupendamente quelle di Pantalone, furono l’anno dopo chiamati a Venezia, il primo per il teatro di San Samuele, l’altro per quello di San Luca. M’incaricai con piacere di tal commissione, perchè in qualunque modo doveva essermi dilettevole. La partecipai al mio ministro, che si diede la cura di parlarne egli stesso alle principali dame della città, ne tenni discorso al conte Prata, che avevo sempre coltivato, misi in opera il mio credito e quello del residente di Venezia sul governatore, in somma in tre giorni fu firmato il contratto. L’Anonimo restò contento, ed io ebbi per mancia un secondo palchetto di faccia, che poteva contenere dieci persone. Profittando della occasione di questa compagnia con la quale trattavo familiarmente, mi rimisi a comporre [p. 83 modifica] alcune bagattelle teatrali. Non avrei avuto tempo bastante per fare una commedia, non essendo l’accordo fatto con l’Anonimo, che per la primavera e l’estate fino al mese di settembre; e siccome tra i suoi stipendiati vi era un compositore di musica, ed un uomo con una donna che cantavano assai bene, feci un intermezzo a due voci, intitolato il Gondolier Veneziano, che fu eseguito, ed ebbe tutto il buon successo che una simile composizione poteva meritare. Ecco la prima opera comica di mia composizione che comparve al pubblico, e successivamente al torchio, essendo stata stampata nel quarto volume delle mie opere comiche, edizione di Venezia del Pasquali.

Nel tempo, che si eseguiva a Milano il mio Gondolier Veneziano, con commedie a braccia, si annunciò la prima rappresentazione del Belisario, e si continuò ad annunziarla per sei giorni prima di esporla, ad oggetto di eccitare la curiosità del pubblico, ed assicurarsi di avere un buono introito. I comici non s’ingannarono: il teatro di Milano di quel tempo (che anch’esso ebbe nelle fiamme il destino quasi ordinario di tutti i teatri) era in quel tempo il più grande di Italia dopo quello di Napoli. Nella prima rappresentazione del Belisario fu così considerabile il concorso, che si stava pigiati dalla folla, inclusive per le corsie. Ma che detestabile rappresentazione! Giustiniano era un imbecille, Teodora una cortigiana, e Belisario un predicatore. Compariva in scena privo di occhi. Arlecchino era il conduttore del cieco, e gli dava dei colpi di stecca per farlo andare; tutti erano nauseati, io poi più degli altri, avendo distribuite parecchie nomine a persone di primo merito. Il giorno dopo vado da Casali, che mi riceve ridendo, e mi dice in tono di beffa: — Ebbene, signore, che pensate voi del nostro famoso Belisario? — Penso, risposi, che questa è un’indegnità, che non mi aspettavo. — Eh via! egli riprese, voi non conoscete i comici. Non vi è compagnia, che non si serva di tempo in tempo di queste astuzie per far danaro, e questo si chiama in gergo comico un’arrostita. — Che cosa significa, io gli dissi, un’arrostita? — Ed egli: — Significa in buon toscano, una corbellatura; in lingua lombarda, una minchionada; ed in francese une attrape. I comici hanno l’uso di servirsene, ed il pubblico è assuefatto a soffrirle. Tutti non sono delicati, e l’arrostite andranno sempre avanti, fino a tanto che non siano soppresse da una riforma. — Vi prego, soggiunsi allora, mio signor Casali, di non arrostirmi per la seconda volta, consigliandovi a bruciar piuttosto il vostro Belisario, giacchè credo, che non vi sia cosa più detestabile. — Avete ragione, rispose; sono però persuaso, che di questa cattiva rappresentazione se ne possa fare una buona. — Senza dubbio, io gli risposi, l’istoria di Belisario può somministrare un’eccellente composizione. — Su via, replicò Casali, voi avete genio a lavorare per il teatro, fate che questo sia il primo vostro passo. — No, risposi, non comincerò mai con una tragedia. — Fatene una tragi-commedia. — Ma non sul gusto della vostra. Non vi saranno maschere, non vi saranno buffonerie. Vedrò... mi proverò. — Aspettate un momento: ecco qui Belisario. — Io non so che farmene. Il mio lavoro sarà ricavato dall’istoria. — Tanto meglio. Vi raccomando il mio amico Giustiniano. — Farò quello che posso. — Io non son ricco, procurerò per altro... — Discorsi inutili. Io lavoro per divertimento. — Amico, vi confido il segreto: l’anno venturo debbo andare a Venezia: se potessi portarvi meco un Belisario... Oh! là un Belisario in fiocchi... — Voi forse lo avrete. — [p. 84 modifica] Bisogna promettermelo. — Ebbene, ve lo prometto. — In parola d’onore? — In parola d’onore.

Ecco il Casali contento: lo lascio, e vado in casa nella ferma risoluzione di mantenergli la promessa con tutta l’esattezza, e tutto l’impegno. Sentendo il signor residente che ero tornato, mi fece chiamare per dirmi, ch’era per partire per Venezia a motivo di alcuni suoi particolari affari, avendo avuto il permesso del Senato di assentarsi per qualche giorno da Milano. Il suo segretario era milanese, ma non stavano bene insieme; questo era un poco troppo delicato, ed il ministro, vivace, e sottoposto ad impeti violentissimi. Mi fece l’onore d’incaricarmi di parecchie commissioni, e fra le altre, siccome una sorda voce faceva temere una guerra che poteva stare a cuore della Lombardia, mi incaricò di scrivergli giornalmente, e di stare attento sopra tutto ciò che poteva succedere. Era questo in vero un usurpare i diritti del segretario, ma io non poteva oppormi, ed oltre a ciò il ministro non avrebbe intesa ragione su questo punto. Non mancai di eseguire le commissioni affidatemi, nè tardai molto nel tempo istesso ad intraprendere l’opera che avevo promessa sulla mia parola d’onore. Ero arrivato in pochi giorni alla fine del primo atto: lo avevo comunicato al Casali, che n’era rimasto incantato, e che avrebbe voluto copiarlo in quel momento. Successero però due casi in una volta: il primo di essi mi fece rallentare il lavoro, ed il secondo interromperlo per lungo tempo.