Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XXII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XXII.

Lettera di mio fratello. — Suo arrivo a Venezia con i suoi figli. — Mia malattia a Modena. — Mie malinconie a Milano.

All’incominciare dell’anno 1754 ricevetti una lettera di mio fratello, dopo essere scorsi dodici anni che non avevo avuto nuove di lui; me le dava dunque tutte in una volta, e cominciava dalla battaglia di Velletri, alla quale si era trovato nel seguito del duca di Modena, proseguendo fino al giorno in cui gli era piaciuto di [p. 205 modifica]scrivermi. La lettera di lui proveniva da Roma, nella qual città si era accasato con la vedova di un curiale. Aveva due figli: uno maschio di otto anni, ed una femmina di cinque. La moglie era morta.

Annoiatosi di un paese ove i militari non si consideravano nè eran riguardati per utili, desiderava vivamente di ravvicinarsi al fratello, e presentare al medesimo i due rampolli della famiglia Goldoni. Ben lontano io dall’esser offeso di una dimenticanza e di un silenzio di dodici anni, m’adoprai anzi subito per codesti due fanciulli che potevano aver bisogno della mia assistenza; invitai mio fratello a ritornar pure liberamente in mia casa; e scrissi senza interpor dilazione a Roma, che gli venisse fornito il danaro che poteva occorrergli; onde nel mese di marzo dell’istesso anno strinsi al seno con la più schietta soddisfazione questo fratello, stato sempre a me caro, unitamente ai due nipoti che adottai per miei propri figli. Mia madre, che era ancora in vita, ebbe un piacere stragrande di rivedere questo figlio che già più non considerava nel numero dei viventi; e mia moglie, di cui la bontà e dolcezza non si smentirono giammai, accolse quei due fanciulli come se fossero stati propri, dandosi cura della miglior loro educazione.

Circondato pertanto da tutto ciò che nel mondo avevo di più caro, e contentissimo del buon successo delle mie composizioni, ero l’uomo più felice della terra, ma estremamente stanco. Mi risentivo sempre del lavoro immenso, cui dovetti attendere per il teatro Sant’Angelo, non meno che dei versi ai quali incautamente avevo assuefatto il pubblico, costandomi i medesimi infinitamente più della prosa. Laonde le mie malinconie tornarono ad occuparmi l’animo con maggior violenza del solito. La nuova famiglia, che mi trovavo in casa, rendeva la mia salute più che mai necessaria, e la paura appunto di perderla faceva crescere il mio male, il quale procedeva da turbamenti fisici e morali. Infatti ora era un umore esaltato che riscaldava l’immaginazione, ed altre volte una sorverchia apprensione che alterava l’economia animale. Il nostro spirito ha un sì stretto vincolo col corpo, che tolta la ragione (qualità distintiva dell’anima immortale) altro non saremmo che mere macchine. Nello stato adunque in cui ero, avevo bisogno di esercizio e di distrazione; onde presi il partito di fare un piccolo viaggio, conducendo meco anche tutta la famiglia. Appena giunto a Modena, fui assalito da un male di petto: tutti erano in timore per me, ed io nulla temeva. Questo appunto è sempre stato il mio modo di vivere; molto coraggio nel pericolo, e timori ridicoli nella prosperità. Mi ero già ristabilito a maraviglia dalla malattia e convalescenza, ma non avevo tempo di divertirmi. I miei comici essendo dunque a Milano, andai ad unirmi con loro in compagnia sempre di mia moglie, di mio fratello e dei due figli. La spesa non mi sgomentava mai, poichè la mia edizione andava di bene in meglio, e il danaro mi fioccava da tutte le parti; bene è vero però che in mia casa poco si fermava. Anche a Milano era andata in scena La Sposa persiana, ed aveva avuto l’esito medesimo di Venezia; mi si ricolmava perciò di elogi, di regali e d’attenzioni: mi rimettevo sempre più in salute, e a poco a poco si dissipavano le mie malinconie; in somma conducevo una vita piena di delizie. Questa felicità per altro, questo benessere, questa pace non ebbero una lunga durata. I comici del teatro San Luca avevano acquistato un eccellente attore chiamato l’Angeleri, milanese, che aveva un fratello nella curia di Milano, e parenti stimabilissimi nella classe della borghesia. [p. 206 modifica]

Quest’uomo pure era ipocondriaco, ed avevo seco avuti in Venezia parecchi colloqui relativamente agli stravaganti effetti delle nostre malinconie. Al mio arrivo in Milano lo incontro in peggiore condizione di prima; da una parte era combattuto dal desiderio di far conoscere la singolarità del suo ingegno, ritenendolo nel tempo medesimo dall’altra il rossore di comparir sul teatro nel proprio paese. In tale stato soffriva infinitamente, vedendo sotto i suoi occhi applauditi i compagni senza che riportasse dal pubblico ancor egli la sua parte di applauso. Aumentavano perciò le sue malinconie un giorno più dell’altro, di modo che i colloqui che frequentemente seco avevo su tal proposito le avevano risvegliate anche in me.

L’Angeleri cedè finalmente al violento impulso del suo genio: va sul palco scenico, è applaudito, rientra fra le quinte, e cade morto all’istante. Resta vuota per tale accidente la scena, gli attori non vengono più fuori; a poco a poco spargesi la nuova, e giunge fino al palchetto dove era io. Oh cielo! è morto l’Angeleri! il mio compagno di malinconie! Nell’istante medesimo esco qual forsennato, vado non sapendo dove, e mi trovo in casa senza neppure aver veduto la strada da me fatta. Tutti si accorgono della mia agitazione: me ne chiedono il motivo, ed io grido a varie riprese: l’Angeleri è morto! e mi getto sul letto. Mia moglie che ben conosceva la mia natura, procurò di calmarmi, e mi consigliò un salasso. Sono anche io di parere che avrei fatto molto bene secondando il consiglio di lei, ma in mezzo ai fantasmi che mi soffogavano, riconoscevo la mia balordaggine e mi vergognava di esservi rimasto soccombente. Malgrado la ragione che in tal caso richiamavo in mio aiuto, lo sconcerto provato in me stesso era stato sì forte, che mi causò una malattia, e durai più fatica a risanar lo spirito che il corpo. Il dottor Baronio, mio medico, dopo di avere adoprati per ristabilirmi tutti i soccorsi della sua arte, mi tenne un giorno un discorso che mi risanò perfettamente. Voi dovete, ei mi disse, riguardare il vostro male come un fanciullo che viene ad assalirvi con una spada alla mano: se voi starete in guardia, egli non vi ferirà, ma se poi gli presentate il petto voi stesso, anche questo fanciullo basterà ad uccidervi.

Sono assolutamente debitore a quest’apologo della mia salute; me ne son sempre ricordato, e ne ho avuto bisogno in ogni età. Infatti questo maledetto fanciullo tuttora mi minaccia di tempo in tempo, e mi conviene ogni volta fare alcuni sforzi per disarmarlo.