Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XXIII

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CAPITOLO XXIII.

La Villeggiatura, commedia di tre atti ed in prosa. — Suo compendio. — Suo buon successo. — La Donna forte, commedia di cinque atti ed in versi. — Suo felice incontro. — Il Vecchio bizzarro, commedia di tre atti ed in prosa. — Sua caduta. — Malignità de’ miei nemici. — Il Festino, commedia in versi, di cinque atti. — Effetto ammirabile di questa commedia.

Durante la mia convalescenza in Modena e negli intervalli delle mie malinconie a Milano, non perdetti mai di vista il teatro, onde ritornato a Venezia con sufficienti materiali per l’anno comico 1754, ne feci l’apertura con una nuova commedia intitolata La Villeggiatura. [p. 207 modifica]

Nel mio viaggio avevo percorse parecchie di quelle abitazioni di campagna che circondano la Brenta, ove il lusso spiega con pompa tutto il suo fasto. I nostri maggiori si recavano una volta in codesti luoghi per solo fine di raccogliere le loro sostanze, ed in oggi vi si va per dissiparle. Nel tempo della villeggiatura infatti si tien grosso giuoco, tavola aperta, si fan feste da ballo, si danno spettacoli, ed è appunto qui, che i cicisbei italiani senza vincoli e senza noia fanno più progressi che in qualunque altro luogo. Siffatte differenti pitture furono da me disegnate di lì a poco tempo in tre commedie consecutive, delle quali sarà da me dato l’estratto nei capitoli seguenti. Nel presente, altro non fo che toccar di volo la galanteria delle conversazioni di campagna.

Don Gasparo e donna Lavinia sua moglie sono i padroni della casa in cui succede la scena. Il marito non si mescola punto negli intrighi della conversazione: se ne sta da sè con le contadine del suo villaggio; e si diverte a far burle e girar le campagne. Donna Florida, della conversazione anch’essa di donna Lavinia, ha il suo cicisbeo come la padrona di casa. Vi entra subito la gelosia: il passeggio dà luogo ad incontri casuali che si credono combinati d’accordo. Ecco perciò le amiche in bisticcio, e un immaginario dolor di capo scioglie la conversazione nel colmo appunto della migliore stagione. Le dame partono dunque per la città, e i lor galanti le seguono, e così termina la commedia. Non può dirsi veramente che in questo lavoro vi sia alcun che di singolare, ma le particolarità della galanteria riescono piacevolissime, e i differenti caratteri dei personaggi producono un dialogo vivissimo e una critica vera e pungentissima. Fu indovinato lo scopo di tal mia composizione e nel tempo stesso applaudito, e benchè questa commedia fosse in prosa, ebbe ciò nonostante più incontro di quello che mi ero immaginato. Vedevo bene per altro che non conveniva abusare del compatimento del pubblico, onde ne misi in scena una di cinque atti ed in versi, intitolata La Donna forte, la quale, benchè non sia la donna forte della Scrittura, è pure una di quelle che potrebbe servir di esempio a molte altre. La marchesa di Montroux si era maritata per obbedienza, soffocando in cuore un’innocente passione. Don Fernando, uomo altrettanto furbo che malvagio, s’innamora di codesta dama poco tempo dopo il matrimonio di lei, e siccome ben ne conosceva la saviezza, disperava perciò di poterla vincere. In tale occasione non dimentica, che la marchesa aveva nutrito da ragazza un’innocente passione per il conte Rinaldo; onde procura di riunire nuovamente questi due amanti, col perverso disegno di profittare della più piccola debolezza della dama per obbligarla a ricompensare la mediazione di lui. La signora Montroux ricusa assolutamente di vedere il conte. Don Fernando vince la cameriera; questa introduce il conte nell’appartamento della padrona, e il furbo pertanto profitta di questo abboccamento involontario affine di inspirar timore nell’animo della marchesa. Essa disprezza le minacce del seduttore, ma da questo scellerato viene accusata al marito d’infedeltà. Questa innocente donna è perfino minacciata di morte, ed è l’istesso Don Fernando, che annunzia alla medesima lo sdegno e l’idee di vendetta del marchese, dandole a scegliere il ferro o il veleno; le propone bensì di salvarla quando però ella sia con lui meno fiera. La marchesa è pronta a morire, ma Don Fernando vuol darle tempo a riflettere, e così la lascia chiudendo a chiave la porta. La marchesa non teme la morte, ma vedendo che un tragico fine la strascinerebbe alla [p. 208 modifica] perdita del proprio onore, prende perciò il più violento partito, ma il solo che le resta, precipitandosi dal balcone della sua camera. La caduta è fortunata, poichè incontrato da lei Fabbrizio cameriere di suo consorte, vien salvata da questo buon servo, da cui è condotta in sua propria casa, facendo in modo che ci vada anco don Fernando e cada nelle reti, senza che possa preventivamente averne il minimo sospetto. Fabbrizio non manca di passarne subito l’avviso al suo padrone, onde il marchese, reso testimone delle proposizioni indegne di Don Fernando, riconosce l’innocenza della moglie, e l’enormità del delitto dello scellerato. Fabbrizio inoltre, che aveva preveduto da tutto ciò la conseguenza di una contesa tra i due gentiluomini, non mancò di informare il tribunale, dimodochè Don Fernando viene nel momento medesimo arrestato per ordine del governo. Questa commedia ebbe molto incontro, e gl’intendenti mi assicurarono, che sarebbe riuscita bene tanto in prosa come in versi, poichè il fondo, la condotta, l’intreccio e la morale di essa, tutto insomma a parer loro era buono, lo scioglimento poi sopratutto.

Con la Donna forte adunque fu da noi dato compimento agli autunnali spettacoli; onde preparai per il carnevale una commedia in prosa, il cui argomento non mi sembrava capace di versi. Questa fu Il Vecchio bizzarro. In italiano la parola bizzarro si prende talvolta per capriccioso, fantastico ed anche stravagante, nel modo stesso che in francese; adoprandosi poi, ed anche più spesso, come sinonimo di gaio, vivace, piacevole, onde la traduzione più conveniente del mio vecchio bizzarro sarebbe L’Aimable Vieillard. Venutomi alla memoria Il Cortesan veneziano da me quindici anni avanti esposto sul teatro San Samuele, e con tanto incontro recitato dal Pantalone Golinetti, avevo voglia di comporre una commedia dell’istesso genere pel Rubini, Pantalone del teatro San Luca. Il Golinetti però era giovane, e il Rubini aveva almeno cinquantanni: onde, siccome era mia intenzione di valermene in questa commedia a viso scoperto, bisognava per conseguenza adattar la parte all’età. Gli uomini bizzarri in gioventù sono tali anche proporzionatamente da vecchi. Infatti il Rubini medesimo n’era la prova, essendo quanto piacevole in scena, altrettanto grazioso in compagnia.

Credetti che questa composizione di gusto veneziano avesse almeno dovuto aver rincontro medesimo del Cortesan, ma m’ingannai grandemente. Il Rubini, che non aveva mai recitato senza maschera, si trovò in tale occasione così confuso e impacciato, che non aveva più nè grazia, nè brio, nè senso comune. La commedia pertanto andò a terra nella maniera più crudele ed umiliante per lui e per me. Si potè appena terminare, e terminata che fu, nel calare il sipario venivan fischi da ogni parte. In tale stato di cose me n’escii subito dalla platea per evitar così i mali uffizi che mi potevano essere resi; andai al Ridotto, e mascherato mi lanciai nella folla che vi si raduna dopo lo spettacolo, ed ivi ebbi tempo e comodo di sentire gli elogi che si facevano di me e della mia commedia. Percorsi le stanze del giuoco; per tutto vi eran circoli, per tutto si parlava di me. Il Goldoni, dicevano alcuni, ha finito; ed altri: Il Goldoni ha vuotato il suo sacco. Fu tra l’altre da me riconosciuta la voce di una maschera che parlava col naso e che diceva forte: Il portafogli è esaurito. Gli venne demandato di qual portafogli intendesse parlare: Eh! intendo dire, ei rispose, di quei manoscritti che hanno somministrato al Goldoni tutto ciò che ha [p. 209 modifica] fatto fin qui. Contuttochè si avesse voglia di ridere alle mie spalle tutti nulladimeno risero sopra questo parlatore nasale. Il mio oggetto era di andare in traccia di critica, ed altro non incontravo se non se ignoranza ed animosità.

Ritorno dunque in casa, passo la notte senza prender sonno, e studio il modo di vendicarmi dei derisori: finalmente lo trovo, e allo spuntar del giorno metto mano a una commedia di cinque atti ed in versi, intitolata Il Festino. Mandavo un atto dietro l’altro al copista, ed i comici imparavano via via la respettiva loro parte; onde in quattordici giorni di tempo fu annunziata al pubblico nell’affisso, ed il decimoquinto andò in scena. Qui appunto poteva ben dirsi verificato l’assioma: facit indignatio versus. La sostanza del componimento è parimente desunta dalla classe de’ cicisbei. Un marito infatti obbliga la sua moglie a dare una festa da ballo alla sua cicisbea. In una sala contigua a quella del ballo, procurai di combinare a crocchio una conversazione di persone stanche dal ballo, e feci cadere il lor discorso sul Vecchio bizzarro. In detto discorso ripetei tutte le proposizioni ridicole da me intese al Ridotto, facendo parlare i personaggi pro e contro. Questa mia difesa venne pienamente approvata dal pubblico con grandi applausi. Si vedeva dunque chiaramente che il Goldoni non aveva finito, che il suo sacco non era ancora vuotato, nè per anche esaurito il suo portafogli. Sentite cari miei confratelli, non vi è altro modo di far le proprie vendette col pubblico se non che sforzarlo ad applaudirci.