Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XXXVIII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XXXVIII.

Prima prova della Vedova di spirito. — Cattivo preludio. — Caduta di questa commedia. — Buranello, musico famoso, non ha verun incontro nell’istesso tempo al teatro Aliberti. — Singolarità delle platee di Roma. — Mio nuovo accordo col conte ***. — Felice successo delle mie commedie al teatro Capranica. Pamela maritata, commedia in tre atti ed in prosa, composta per gli attori di questo teatro.

Vado dal signor conte *** per assistere alla prova della mia composizione, ed i comici pure vi eran concorsi. Avevano già studiato le loro parti, e le sapevano a mente a maraviglia; onde edificato della loro attenzione mi ero proposto di secondare il loro zelo, e di aiutarli quanto valevano le mie forze. Si dà principio: donna Placida e donna Luisa erano due giovani romani, un ragazzo parrucchiere, ed un garzone legnaiuolo. Oh cielo! che declamazione caricata! che goffaggine nei movimenti! nessuna verità, nessuna intelligenza. Dico in generale qualche cosa sopra il cattivo gusto della loro declamazione, ed il Pulcinella, ch’era sempre l’oratore della compagnia, mi risponde prontamente: — Signore, ciascuno ha la sua maniera; questa è la nostra. — Prendo il mio partito, nè dico altro: solamente fo loro osservare che la commedia mi pareva un po’ troppo lunga. Questo era il solo articolo sul quale andavamo d’accordo; onde l’abbreviai di un buon terzo per diminuirmi la pena d’ascoltarli; e comunque io ne fossi nauseato, intervenni nulladimeno al restante delle prove fino all’ultima. In Roma gli spettacoli si aprono tutti in una volta il 26 di dicembre. Ero tentato di non lasciarmi vedere; ma siccome il signor conte mi aveva destinato un posto nel suo palchetto, non potevo per convenienza ricusare di andarvi. Vado: il teatro era già illuminato; si stava per alzare il sipario, nè si vedevano più di cento persone nei palchetti, e più di trenta nella platea. È vero, che ero avvertito essere il teatro Tordinona quello dei carbonai e dei barcaioli, e che senza il Pulcinella i dilettanti delle farse non ci sarebbero concorsi; ma credevo sempre che un autore fatto venire espressamente [p. 246 modifica]da Venezia dovesse destare la curiosità e far correre la gente fin dal centro della città; ma troppo eran noti a Roma i miei attori. Si alza finalmente il sipario: compariscono i personaggi, e recitano in quel modo stesso che avevano tenuto alle prove. Il pubblico perde la pazienza, vuole Pulcinella; e la rappresentazione va di male in peggio. Non posso più reggere, mi sentivo venir male. Dimando in grazia al signor conte di uscire; ed egli me lo concesse con molta gentilezza, offerendomi anche la sua carrozza. Lascio adunque il teatro Tordinona, e vado a trovar mia moglie che era a quello d’Aliberti. Prevedendo essa al par di me la caduta della mia commedia, era andata all’Opera in compagnia della figlia del mio ospite. Entro nel loro palchetto, e prima che apra bocca, entrambe s’accorgono alla mia fisonomia del mio dispiacere. — Consolatevi (mi disse ridendo la signorina), la cosa non va molto bene neppur qui: la musica non piace punto: non vi è un’aria, un recitativo, un rondò piacevole; il Buranello si è questa volta dimenticato di sè stesso stranamente. — Siccome essa pure cantava, era perciò in grado di giudicarne; in fatti si vedeva che tutti erano del suo parere. Le platee di Roma sono terribili, e gli abati sentenziano in una maniera decisiva e tumultuante; non vi sono guardie, non vi è buon ordine: i fischi, gli urli, le risate e le invettive suonano per ogni parte. Ma dall’altro canto, felice chi piace ai collarini! Mi trovai nel medesimo teatro, alla prima rappresentazione dell’opera di Ciccio De Maio. Gli applausi erano in egual modo clamorosi. Una parte degli spettatori escì alla fine della rappresentazione per ricondurre a casa il maestro in trionfo, e l’altra restò nel teatro, gridando sempre Viva Maio! Viva Maio! fino all’estinzione dell’ultimo lume. Che sarebbe avvenuto di me, se fossi restato a Tordinona fino al termine della mia commedia? Questa riflessione mi faceva tremare. Il giorno dopo vado dal conte ***, determinatissimo di non più espormi a tal pericolo. Per mia buona sorte avevo da fare con un uomo giusto e ragionevole; infatti conosceva bene egli medesimo l’impossibilità di trar partito da’ suoi comici, salvo che lasciandoli in libertà si facesse a modo loro: ed ecco in poche parole il partito al quale fummo obbligati di ricorrere. Fu fissato che i Napoletani esponessero pure i soliti loro abbozzi, con intermezzi in musica, dei quali io avessi messo insieme i soggetti sopra arie in parodia. In pochi giorni il nostro disegno ebbe esecuzione, poichè trovammo nelle botteghe de’ venditori di musica i migliori spartiti delle mie Opere Buffe. Roma è un seminario di cantanti; ne trovammo due buoni, e sei passabili, ed esponemmo per primo intermezzo Arcifanfano re dei pazzi, musica del Buranello. Questo piccolo spettacolo piacque molto, ed il teatro Tordinona si sostenne in modo, che il signor conte non vi fece gran perdita. Andai a terra a Tordinona, e fu per me un dispiacere profondissimo; ma venni indennizzato dagli attori del Capranica. Questo teatro che da alcuni anni si era del tutto dedicato alle mie opere, rappresentava in quel tempo la mia commedia Pamela. Una tale commedia, e per esser così ben recitata, e per il suo bell’incontro, sostenne da sè sola lo spettacolo dal principio dell’apertura del teatro fino al chiudersi di esso, cioè a dire, dal 26 dicembre fino al martedì grasso. Ogni volta che v’intervenivo, era per me un giorno di trionfo. Gli attori del Capranica che avevo ricolmati di elogi, perchè veramente n’erano degni, mi fecero pregare di volermi compiacere di scrivere una commedia per il loro teatro. Non avevano bisogno di una commedia fatta a posta per loro, essendo essi già [p. 247 modifica] padroni di quelle che facevo stampare ogni anno; onde tal richiesta non era se non se una buona grazia che volevano usarmi in riconoscenza dei profitti che aveano ricavati dalle mie composizioni. Condiscesi ai loro desiderii senza far sembiante di accorgermi di una simile intenzione, e dimandai se avevano qualche tema da darmi che fosse stato di loro piacere; mi proposero adunque il sèguito di Pamela, ed io promisi che l’avrebbero avuto avanti la mia partenza. Mantenni la parola, e ne furono contenti; ed io non meno di loro per la maniera nobile e generosa con la quale vennero ricompensate le mie cure.

Questa commedia si trova nelle raccolte delle mie Opere sotto il titolo di Pamela maritata. Una figlia savia, dotata d’ingegno e d’ottimi costumi, divenir non poteva se non se una moglie virtuosa e prudente; onde Pamela, amata dal suo marito, rispettata da tutti, e in uno stato di opulenza, nulla aver potea da desiderare, nulla da temere. Tutto ciò era da ammirarsi; ma non vedevo nella condizione di lei la minima traccia che fornir potesse un soggetto da commedia, ed essendo nell’impegno di trovarne uno, non voleva cadere al solito nel romanzesco; onde ricorsi alla gelosia, la quale, senza escire dall’ordine delle passioni ordinarie, agir poteva sul cuore di milord Bonfil, conosciuto già fin dalla prima commedia per sensibilissimo e sottoposto ad ipocondriaci assalti, propri della sua nazione. Pamela però era sempre nel suo operare precisa, e milord sempre ragionevole. Come mai adunque il germe della discordia poteva penetrar in seno di codesti due esseri per renderli infelici? Confesso schiettamente che durai fatica a mettere insieme un nodo che non aveva per base se non se fallaci apparenze, e molto più poi per condurlo sino allo svolgimento senza variare il carattere degli eroi che le rappresentavano, nè mancare alle leggi della verisimiglianza. Forse sarò stato in errore, ma credetti di aver fatto un’opera, la quale, senza escire dalle comuni vie della natura, offrisse un piacevolissimo e delicatissimo argomento. Non l’ho veduta recitare; ma seppi ch’essa riportò in Roma un successo meno splendido di quello della precedente Pamela, nè me ne maravigliai, perchè nella seconda vi era più studio e maggior finezza, laddove nella prima si trovava maggior affetto e maggior intreccio. In somma una era fatta per il teatro, l’altra per il tavolino.

Domando scusa a chi me la ordinò, se mancai di soddisfare al suo intento. Aveva loro dimandata la scelta del soggetto, e non ho niente a rimproverarmi d’averlo negletto.