Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/XXI

Da Wikisource.
XXI

../XX ../XXII IncludiIntestazione 4 dicembre 2019 100% Da definire

Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XXI
Parte terza - XX Parte terza - XXII

[p. 320 modifica]

CAPITOLO XXI.

Séguito del capitolo precedente.

Atto III. Frontino annunzia al suo padrone un autore di poco credito, chiamato Giacinto. Questi entra; e dopo aver parlato di una commedia scritta da lui, ma che dai comici fu rigettata, si dà vanto di aver fatto la genealogia del signor di Casteldoro, della famiglia di Colombier, che egli fa discendere da Cristoforo Colombo. L’idea non dispiace all’uomo fastoso, onde anche l’autore è pregato di rimanere a cena; ma siccome si tratta di sborsare qualche somma, l’autore è rimandato bruscamente.

Uscito Giacinto, la Fleur, servitore del marchese di Courbois, annunzia l’arrivo dei suoi padroni. Il padre e il figlio fan conto di stare in casa del signor di Casteldoro, e mandano dalla zia la signorina Courbois, che è pure con esso loro. Ma non è troppo contento Casteldoro, che gli si domandi ospitalità con tanta franchezza; non lo dimostra però, ed esce per aver nuove della salute della futura sua sposa. Rimangono in scena Frontino e la Fleur, ed ognuno fa il quadro del carattere riguardante il proprio padrone. Quello di la Fleur è veramente ridicolo; egli parla in un modo particolare, non termina mai le sue frasi, chè ne dice solo la metà, ed il resto bisogna indovinarlo; ha poi degli intercalari singolarissimi e frequenti, e fra gli altri — bene, bene, benissimo, — ch’egli caccia per tutto a diritto e a rovescio. La casa non è ricca, ma il servizio non è grave, anzi vi si sta benissimo. Frontino poi si lagna sommamente del suo stato: il suo padrone è avaro; la Fleur adunque avrebbe delle occasioni molto buone per meglio allogarlo, ma considerato il tempo che serve Casteldoro, lo crede affezionato al suo padrone. — È vero, ho per lui molta affezione (risponde Frontino), ma non per questo voglio essere uno schiavo in catene.

Il loro colloquio è interrotto dal marchese e dal visconte, che ambedue dimandano del padrone di casa; si va pertanto in traccia del medesimo, ed in questo frattempo, restano soli i due ospiti, rendono palese il motivo del loro viaggio. Il visconte ama Eleonora, ed il marchese avrebbe una grande consolazione se potesse effettuarsi questo matrimonio. Casteldoro è loro amico, onde sperano entrambi di poter giungere all’intento col mezzo di lui. Entra frattanto Casteldoro, e dopo le solite ceremonie prega il visconte di recarsi a far visita a Dorimene sua sorella, e parla delle due forestiere senza nominarle, e senza sapere come stiano le cose fra il giovine visconte e la signorina. Il marchese resta solo con Casteldoro. Io scrivo la scena che segue fra loro due, per far meglio conoscere il carattere del marchese.

Il Conte ed il Marchese.

Mar. Orsù, giacchè siamo... (guardando intorno.) Avete voi il tempo?

Con. Sono agli ordini vostri, signor marchese.

Mar. Voi siete mio amico.

Con. Quest’è un titolo, di cui mi onoro.

Mar. Bene, bene, benissimo.

Con. (È ridicolo qualche volta.) (da sè).

Mar. Vorrei dunque pregarvi... ma... amico, liberamente, francamente... [p. 321 modifica] Con. (Scommetto ch’egli è venuto per domandarmi danaro in prestito.) (da sè).

Mar. Voi conoscete la mia casa.

Con. Sicuramente.

Mar. Ho due figliuoli, e conviene ch’io pensi... la figlia è ancora... bene, bene, benissimo... ma il cavaliere... è in un’età... mi capite?

Con. Comprendo presso a poco, signore, che voi pensate seriamente al collocamento della vostra famiglia, ed in ciò vi lodo moltissimo. Ma a proposito di collocamento, mi credo anch’io in dovere di farvi parte del mio prossimo matrimonio.

Mar. Ah, ah! siete disposto... voi ancora... bene, bene, benissimo.

Con. Oggi si dee sottoscrivere il mio contratto, e mi reputo fortunato che il signor marchese mi faccia l’onore...

Mar. A maraviglia. Ma... nel medesimo tempo... se voi voleste farmi il piacere...

Con. Se sapeste, signor marchese, quanto ho dovuto spendere in questa occasione!... non si finisce mai. Sono... in verità... sono esausto affatto.

Mar. Bene, bene, benissimo.

Con. Male, male, malissimo.

Mar. Ascoltate. Voi siete amico della signora Araminta.

Con. Sì, signore. Oh! ella, per esempio, è una donna ricca. Ella potrebbe esser al caso vostro.

Mar. Sì, così è... precisamente per questo... Se voi voleste parlare alla signora Araminta... ma senza... Come si chiama sua figlia?

Con. Signorina Eleonora.

Mar. Ah, sì, signorina Eleonora.

Con. (Eh che uomo singolare! Convien capirlo per discrezione.) (da sè). Parlerò segretamente alla signora Araminta. (al marchese).

Mar. Ma bisognerebbe che ciò fosse fatto in maniera... Voi mi capite.

Con. Vi metterò tutta la premura possibile, e mi lusingo che ella acconsentirà al vostro desiderio, purch’ella abbia le sue sicurezze.

Mar. Cospetto!... s’ella mi dà... io non ho... io non sono... ma... i miei beni.

Con. Quanto vorreste, signor marchese?

Mar. Mi hanno detto che... cento mila scudi, mi pare. Io non domando d’avvantaggio.

Con. (Cento mila scudi!) Il prestito è troppo forte. Non so se la signora Araminta vorrà acconsentirvi.

Mar. Quando le parlerete? Perchè quando ho una cosa in testa... detto fatto... Io sono così di natura.

Con. Oggi le parlerò assolutamente.

Mar. E vi lusingate voi, che ella voglia... bene, bene, benissimo.

Con. Io credo che se la signora Araminta si trova in istato di soddisfare il desiderio vostro, ella lo farà volentieri, prima per me che sono vicino a diventare suo genero.

Mar. (consorpresa.) Come... che... voi?...

Con. Sì, signore quella ch’io deggio sposare, è sua figlia.

Mar. Ah! questa sì... da quando?... È ben vero... È possibile?

Con. Ma donde viene, signor marchese, questo eccesso di maraviglia? Trovate voi da dir qualche cosa di questo accasamento?

Mar. Non dico.... ma mio figlio... con qual fondamento?... (Oh, che sciocchezza!) (da sè).

Con. La signora Araminta destina, è vero, centomila scudi di [p. 322 modifica] dote a sua figlia; ma credete voi che per questo non avrà ella del danaro da prestarvi?

Mar. (ancora più maravigliato). A prestarmi? a me? A prestarmi?

Il Cavaliere, e detti.

Cav. (Ritorna per quella porta per dove era uscito. Accenna coll’azione la sua sorpresa ed il suo rammarico. Passa dietro al conte, senza esser da lui veduto, e fa cenno al marchese di non parlare.)

Con. (al marchese). Se voi volete, le parlerò.

Mar. (al cavaliere in maniera che il Conte crede che parli ad esso lui.) Sì, sì, ho capito.

Cav. (Entra nell’appartamento).

Con. Dirò dunque alla signora Araminta...

Mar. No, no. Non crediate che... no, vi dico, no.

Con. Sì, e no! signore, io non vi capisco.

Mar. Prestarmi!... a me?... Come?... Io sono, è vero... ma non sono poi... bene, bene, benissimo. Non sono poi...

Con. Signore, vi chiedo scusa. Ho degli affari. Convien ch’io esca di casa. Ecco là il vostro appartamento. — (da sè). Non vi è in tutto il mondo un uomo ridicolo come questo, (parte).

Mar. Venga il canchero... non sa quel che si dica (entra nell’appartamento).

Fine dell’atto terzo.

Alla prima scena dell’atto quarto il visconte si lagna dell’impegno contratto da Eleonora, e nella terza Casteldoro pure si lagna delle cattive maniere usategli dalla futura sua sposa e dalla madre di lei, onde gli vien desiderio di sciogliersi, giacchè ha veduto la signorina di Courbois, e ne è rimasto incantato; prova soltanto dispiacere dei centomila scudi della signora Araminta. Qui ha luogo una scena tra il marchese e Casteldoro, nella quale l’avaro fastoso fa pompa delle sue ricchezze, e si vanta di aver fatto un regalo alla sua sposa di centomila franchi di diamanti, il marchese ne resta sbalordito, e parte ripetendo più volte: centomila franchi in diamanti! bene, bene, benissimo.

Casteldoro per altro nutre la speranza di poter sposare la signorina di Courbois senza perdere i centomila scudi della signora Araminta; rende intesa di tutto la sorella, ed ecco le sue idee. Io farò in modo, egli dice, che la signora Araminta conceda al visconte la figlia unitamente ai centomila scudi, e che il marchese conceda a me nel tempo medesimo sua figlia con darmi in dote l’istessa somma; in questa maniera il padre appaga le brame del figlio, la signora la figliuola senza levarsi nulla di tasca, e tutti restano contenti. (Parte).

Dorimene, che aveva a petto suo fratello, non meno che il bene della sua amica, desidera vivamente che questo disegno, quantunque strano, riesca. Ma ecco Eleonora ed il visconte; la scena tra loro è piacevolissima, ma viene interrotta dalla signora Araminta, col pretesto ch’ella vada a parlare colla modista che l’aspetta. Eleonora esce con Dorimene. Restata sola col visconte, Araminta gli parla colla solita sua franchezza. Ella ben conosce la sua inclinazione per Eleonora, ed ha molta istima per lui; gli darebbe con piacere la figlia, giacchè l’impegno con Casteldoro non sarebbe di alcun impedimento. La difficoltà è che gli affari della casa di Courbois sono in pessimo stato, ed è già noto il [p. 323 modifica] loro dissesto. Il visconte vede che ella ha ragione. Confessa, che allorquando suo padre gli cedesse la direzione di tutti gli affari, spererebbe di assestarli in modo, da proseguire poi senza ostacolo la sua via nel servizio, che per mancanza di mezzi si vede in procinto di abbandonare. Araminta rimane commossa dalla condizione di questo giovane, di cui ella conosce il merito e la probità. — Voi dunque, essa gli dice, non siete in grado di ammogliarvi. Rimanete libero, e lasciate pure mia figlia in libertà di seguire il suo destino; e quando vi possano riescir gradite le prove della mia sincera amicizia, io vi offro di buon cuore la somma che è per occorrervi affine di comprare un decoroso posto nel reggimento, nè altre garanzie vi domando che la vostra parola d’onore.

Commosso il visconte dal più tenero sentimento di riconoscenza, risponde: — E se mai morissi, signora? — Ebbene, se voi moriste, soggiunge Araminta, io forse avrò perduto il mio danaro, ma non avrò con esso perduto tutto, restandomi sempre il piacere di avere favorito un uomo dabbene. Dopo ciò vanno insieme a casa di Dorimene; il visconte intanto chiama la Fleur, perchè avvisi il padre, nel caso che egli dimandasse di lui. Ecco il marchese; ordina la carrozza, ed è in furia contro il cocchiere. La Fleur lo difende dicendogli, che quello di Casteldoro gli aveva negato la paglia per i cavalli; il marchese non può crederlo. No, Casteldoro (egli dice) non è avaro. — La Fleur sostiene il contrario, e racconta al padrone ciò che Frontino gli aveva comunicato in confidenza. Il marchese però rammenta i centomila franchi in diamanti, ma la Fleur scuopre il mistero di questi diamanti presi in prestito. — Come! (soggiunge poi il marchese) un avaro nascosto; un uomo falso! Egli è... così va bene... l’uomo il più meschino del mondo. Mia figlia?... No, egli non avrà... Centomila franchi in diamanti, e punta paglia? (Parte).

Nel quinto atto, facendosi notte, Casteldoro fa accendere le luminiere e i candelabri.

Frontino chiama la Fleur, per farsi aiutare. Egli vi acconsente con piacere, sperando di passarsela in quel giorno molto bene. Frontino però non gli promette gran cose. Almeno una bottiglia di vino, dice la Fleur; ma l’altro risponde, che neppure questa è sicura: il mio padrone ha sempre in tasca piccole pallottoline di carta, e ne cava fuori una ogni volta che comparisce in tavola una bottiglia, di modo che alla fine del pranzo sa per l’appunto quante se ne son portate in tavola, ed è per conseguenza difficilissimo trafugarne. Ma ecco nuovamente Casteldoro in aria furiosa e brusca, perchè tutti lo disprezzano, perchè vien rigettato da ogni parte. Manda fuori la Fleur, e dà ordine a Frontino di spegnere tutti i lumi. Frontino obbedisce, ma con rincrescimento, e Casteldoro spegne da sè col fazzoletto l’ultimo lume; e restano al buio. Egli vuole uscire, ma sentendo gente che entra, si nasconde. È questi la Fleur, che è maravigliato di vedere spenti tutti i lumi. S’incontra in Frontino, si riconoscono, cominciano di nuovo a chiacchierare. Casteldoro pertanto è testimone di quel che si dice di lui, e Ciò somministra materia a parecchie scene comiche, i cui particolari riescrebbero troppo prolissi: eccone però una, che stimo conveniente trascrivere. [p. 324 modifica]

Il Marchese, poi Araminta.

Mar. È vero, è vero... senza un grano di biada!

Ara. Sì, sì andrò nel suo gabinetto... (parlando verso la scena per dove viene) Oh! riverisco il signor marchese.

Mar. Servitore. Come va?... Si sta bene?

Ara. A’ vostri comandi. E voi, signore?

Mar. Io... bene, bene, benissimo... desiderava per l’appunto... mio figlio vi avrà parlato.

Ara. Vostro figlio, madama Dorimene, la mia figlia, non hanno fatto che stordirmi, che tormentarmi... sono sì stanca che non ne posso più.

Mar. Voi dite dunque, madama... ma... voi mi conoscete... io non ho... egli è vero, ma... i miei beni, le mie terre... il bosco, il marchesato, sette fontane, contea costa, bassa contea, campo verde, baronia.... bene, bene, benissimo... due milioni, madama.

Ara. A che servono i vostri milioni? Il povero mio marito con niente ha fatto de’ milioni, e voi con dei milioni non avete niente. Il punto è, che mio marito non perdeva di vista i propri interessi, ed aveva una moglie che sapeva dirigere l’interno della famiglia. Ma per voi, signor marchese, sia detto fra di noi, tutto è in disordine in casa vostra.

Mar. È vero che la marchesa, buona memoria... era un poco troppo portata... e la povera donna sempre perdeva. Io... non ho altro piacere... ho questa passione... ho dei bravi cani... ho delle caccie superbe... ma... mio figlio, bene, bene, benissimo... oh! mio figlio è un ragazzo... che un giorno... un giorno... i nostri feudi, le nostre terre.

Ara. Eh! se i beni vostri, se le vostre terre fossero nelle mie mani, questo giorno non tarderebbe lungo tempo ad arrivare.

Mar. Bene, bene, benissimo... prendete... fate... io mi vi abbandono... oh, di buon cuore!

Ara. Credete voi, signor marchese, che una donna della mia sorte sia fatta per essere l’agente di un particolare? (con un poco di alterezza).

Mar. No... non dico questo... voi siete ancora... ed io... non sono sì vecchio, che... mi capite.

Ara. Voi scherzate, signor marchese.

Mar. Io?... oh! quando dico... bene, bene, benissimo.

Ara. Non ho alcuna idea di maritarmi; ma se mai dovessi far la corbelleria, io non fo caso de’ titoli, ma de’ fondi e de’ capitali.

Mar. Tutto, tutto... se voi voleste... non ci sarebbe che voi... padrona di tutti... Carta bianca, madama, carta bianca: bene, bene, benissimo. Carta bianca.

Ara. Carta bianca?

Mar. Assoluta.

Sopraggiunge il visconte, ed essendo messo al fatto di quanto era in quistione, aggiunge egli pure le sue alle preghiere del padre, perchè Araminta s’incarichi della direzione dei loro affari in qualità di signora la marchesa di Courbois. Ciò non ostante ella è sempre indecisa; ma, gettatasi ai di lei piedi Eleonora, si determina finalmente ad accettare.

Frattanto Dorimene intende ciò che va succedendo, è lieta del [p. 325 modifica] bene di Eleonora, ma le dispiace che questo matrimonio sia fatto senza renderne consapevole suo fratello.

Egli avrebbe avuto mia figlia (dice la signora Araminta), se non fosse stato così fastoso.

Ed io gli avrei dato (dice il marchese), la mia, se non fosse così avaro.

Nel tempo di questo diverbio, entra l’Avaro fastoso. Informato di tutto, prende da bravo il suo partito. La cena è pronta, e non convien perderla. I commensali si trovan già tutti insieme; e non vuole che si burlino di lui: onde, fattili passare, annunzia loro che l’oggetto per cui li ha pregati, è quello di festeggiare il matrimonio del signor visconte di Courbois. Eglino però non si lasciali già così francamente ingannare; i servitori avevano già parlato, i difetti ed i vizi del signor Casteldoro erano oramai palesi; egli è aborrito per la sua avarizia, non meno che disprezzato per il suo fasto ed orgoglio.