Memorie di un Pulcino/Notizie di alcuni miei parenti

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X.

Notizie di alcuni miei parenti.


— Da chi devo cominciare? — domandò la signora sorridendo. [p. 80 modifica]

― Da quello là, ― rispose Alberto accennando un uccellino, piccino come la metà d’un pollice, e concerte alucce che brillavano al sole come tanti rubini.

― Poverino ― disse la signora Clotilde con malinconia ― quello camperà poco, vedete; sono appena quindici giorni che fu regalato a mio marito, e in tutto questo tempo non ha fatto mai lega co’ suoi compagni; se ne sta solo solo in un cantuccio, dal quale ripensa forse le piagge verdeggianti del suo paese, i fiori dai grandi calici e gli ardenti raggi del sole; questo animalino leggiadro si chiama l’uccello mosca, probabilmente a cagione della sua piccolezza; abita i luoghi caldi: le specie più notevoli sono il Topazio, il Granato, il Collare Verde, il Collo ciuffato, il Rubino e l’Ametista, questo è della specie del rubino; vedete le sue pennine come brillano! Paiono tante pietre preziose. Svolazzano di fiore in fiore, e sembrano, col continuo loro ronzìo, voler produrre agli abitanti di quelle calde regioni un sonno benefico e ristoratore.

Sono tanto leggieri, volano tanto rapidi e son così piccini, che l’occhio non può seguire il moto velocissimo delle loro alucce scintillanti; quando son per aria sembrano al tutto immobili; si crederebbe che stiano sospesi mercè fili invisibili. Il loro nido sì, che è carino!

È grosso come un mezz’uovo di gallina; il maschio porta tutto l’occorrente per fabbricarlo, e la femmina, da vera donnina da casa, accomoda e dispone tutto a dovere. Questa graziosa cella è sospesa ora ad una foglia, ora a un ramoscello e spesso anche ad un solo fil di paglia, che sporga dal tetto di qualche capanna. [p. 81 modifica]

Delle loro piume le donne di que’ paesi si fanno vari ornamenti, come vezzi, braccialetti e orecchini; alcuni popoli, convertiti alla nostra religione, le adoprano per far delle graziose figurine d’angioli o di santi. C’è poi chi se ne serve per far de’ quadretti, i quali riescono pieni di freschezza e di splendore.

Queste leggiadre creaturine, però, non si possono tenere a lungo rinchiuse; non già perchè non siano amorose e buone, ma perchè la loro natura delicata e insieme vivace, non può adattarsi alla cerchia ristretta d’una gabbia. Muoiono per lo più dopo qualche mese, malgrado le cure che loro si possono usare.

― E tu pure morirai, povero, innocente animaletto, ― disse con tuono pieno di compassione Alberto, volgendosi al piccolo prigioniero che lo guardava con i suoi occhini neri, grossi come margherite.

― Vi ho annoiato, bambini miei? ― domandò la signora Clotilde.

― Eccóme! ― rispose scherzosamente Guido e per dargliene una prova evidente, la prego di parlarci subito di un altro uccellino.

― Benissimo; parleremo ora di quel signorino o signorina che sta in questo momento beccando il pinolo che gli ha buttato Alberto. È una cincia. Guardatela bene; che aria di sfacciatella! È tutta fuoco. È lei che fa la guerra alla civetta, la quale, del resto, è la sua più mortale nemica. Di giorno fa di tutto per trovare il suo nascondiglio, e quando l’ha trovato!... Disgraziata civetta! Non vorrei esser ne’ suoi panni! La notte poi, quando la povera bestia ci rattrista col suo monotono fischio, la cincia che cosa ti fa? Raduna una specie d’esercito, composto tutto [p. 82 modifica]di uccellini più piccini di lei, e lo scaglia contro il tiranno notturno il quale è costretto a batter subito la ritirata, o a morir fulminato da mille colpi.

― Mamma, ― interruppe allora Alberto — è vero che quando la civetta viene a cantar sul tetto è segno che qualcuno di casa anche se gode perfettissima salute, deve morire di giorno in giorno?

― Ma ti pare, bambino mio? Queste cose non le devi neppur domandare; ti fanno torto; sono le persone ignoranti e superstiziose che credono a queste grullerie. Povere civette! Come vuoi che facciano a indovinare se un tale che mangia e beve allegramente, morirà fra tre giorni per aver ruzzolata la scala? Sarebbe curiosa.

― Dicono però che le civette e con esse altri animali di rapina, sentono il puzzo della carne che va corrompendosi, e però....

― Sarà; ma tu hai troppo sennino per non capire alla prima, che se il corpo d’un povero diavolo si dissolve, non c’è bisogno della signora civetta perchè quelli di casa, il medico ed anche lo stesso ammalato lo sappiano; il dottore, m’immagino, non si lascerà prevenire da quell’uccello.... ce ne anderebbe del suo decoro.

Per dirla in una parola, la civetta potrà confermare con la triste sua vista un fatto già noto; ma portare il malaugurio, eh via! Torniamo alla cincia. Quelli che si occupano di storia naturale l’hanno soprannominata «il moto perpetuo» perchè non c’è caso che stia due minuti ferma; dalla mattina alla sera va e viene continuamente su’ rami degli alberi in cerca di cibo, e quando questo si fa un po’ [p. 83 modifica]desiderare, intraprende una caccia di nuovo genere; si sospende ai rami con le zampine all’insù, e acchiappa tutti gl’insetti che hanno la disgrazia di passare in quel momento sotto le foglie.

È di carattere bonissimo e vuol tanto bene a’ suoi bambini; non è ghiotta, mangia di tutto e si affeziona a’ suoi simili; peccato che fra tutte queste buone qualità ce ne sia una brutta, oh ma brutta davvero! ve la voglio dire: Quando la cincia s’imbatte in un povero uccellino ammalato, invece di soccorrerlo, sapete che cosa fa? Lo ammazza e gli mangia subito il cervello.

― Oh la cattiva! ― esclamarono insieme i due fanciulli.

― Sapete, continuò la signora Clotilde, chi è davvero un bravo uccelletto? La lodola. Di forma somiglia un po’ alla cincia, ma ne differisce grandemente pe’ costumi. La cincia è il simbolo della guerra, la lodoletta quello della pace: costruisce il suo nido in un solco, fra due zolle di terra, e sa nasconderlo con molta maestria alle insidie de’ suoi nemici. Rende molti servigi a’ contadini per lo sterminio che fa ogni giorno di bachi; appena spunta l’alba comincia a mandar nell’aria le sue allegre note, chiamando per tal modo il coltivatore a’ campi.

― O i cardellini, mamma, che uccelli sono? ― interruppe Alberto, additando un di quelli animaletti con la mascherina rossa e il dorso scuro.

― I cardellini sono uccellini graziosi e tutti pace; prendono il nome dalla predilezione che hanno pe’ semi del cardo. Hanno una bella voce e son docilissimi. Carini! ne ho veduti di quelli che ammaestrati dai [p. 84 modifica]loro padroni, eseguiscono vari giuochi; tirano su dei piccoli secchiolini che contengono il loro cibo e la loro bevanda; danno fuoco alla miccia d’un cannone grosso quanto un dito mignolo, fanno il morticino e altri giochetti simili. —

Mentre la signora Clotilde se ne stava ragionando in tal modo, io, annoiato un po’ di star lì fermo, m’ero mosso adagio adagio; e senza che nessuno se ne avvedesse, avevo infilato bravamente una specie di boschetto, dove c’era uno stare di paradiso; però non mi ci fermai e seguitai a girandolar pel giardino, ora a caso, ora intento a guardar di bel nuovo le cose già note.

Il mio pensiero, però, era sempre rivolto a’ miei buoni amici di Vespignano: mi pareva mill’anni dacchè non gli avevo visti, e non erano trascorse neppur ventiquattr’ore.

Cammina cammina, mi trovai presso una porta tutta di vetri colorati, aperta a spicchiolino. Dava in una stanzetta allegra, parata di celeste e co’ muri quasi ricoperti di libri e di disegni; da una parte vidi un elegante scrittoio con tutto il bisognevole per istudiare; penne, lapis, carta, ceralacca; da quell’altra un tavolincino tondo, carico di lane, di nastri, di cotone e di altri oggetti necessari per lavorare.

— Secondo me, questa è la stanza dove sta la signora; — dissi — e ritto sullo scalino, rimasi per due minuti indeciso se dovevo tornare indietro o penetrare nel santuario.

L’istinto vagabondo e la curiosità che anche in noi altri pulcini si fa sentire, la vinsero, e spiccato un leggiero salto che avrebbe fatto onore a [p. 85 modifica]qualunque bambino esperto in ginnastica, mi trovai nella stanzina di cui potei ammirare a mio bell’agio le più minute e graziose particolarità. Di lì entrai in camera, senza porre troppa attenzione a un certo rumore che di tratto in tratto si rinnovava. Sapete che cosa c’era di nuovo?

Un canino piccolo, di quelli cuccioli, se ne stava sotto il letto, esercitando i suoi dentini sopra uno stivaletto di raso turco. Lo vidi attraverso la trina della coperta, e mi ritirai prudentemente indietro; con quelle bestiòle non c’è mai da sapere quel che può succedere.

Cercavo di ritornar dall’uscio per cui ero venuto, allorchè un nuovo invasore entrò saltellando nella stanza. Era nientemeno che il gatto di casa, un gattino bianco, piccino, tutto stizza. Non c’era più modo d’uscire, senza espormi a gravissimi pericoli. Mi rincantucciai senza fiato dietro una poltrona, e stetti a osservare.

Il cuore mi batteva lesto lesto, forse come batterà a voi, o bambini, allorchè vi presenterete a scuola senza aver fatta la lezione.

Il gattino, sempre saltellando, penetrò sotto il letto, e lascio immaginare a’ lettori che razza di battaglia s’impegnasse allora fra’ due campioni.

Già si sa; quando si vuol raccontare di due persone che non stanno d’accordo, si dice comunemente: e’ son come cane e gatto.

E le nostre bestiòle, non dubitate, no, fecero onore al proverbio. Che diavoleto! Fu un fruscìo, un mugolìo da non potersi descrivere; lo stivaletto lo mandavano da Erode a Pilato; ora se ne impadroniva il gattino [p. 86 modifica]e allora il cane gli si slanciava addosso e con un bravo morso lo costringeva a lasciar la preda; il gatto, stizzito, gonfiava la coda, soffiava e con le zampine alzate, ritornava alla carica.

Insomma era una commedia; chi sa come mi ci sarei divertito, se la paura non mi avesse fatto ge-

lare quel po’ di sangue contenuto dal mio povero corpicciuolo. A un tratto il gattino esce precipitosamente di sotto il letto e salta su una seggiola vicino ad una toelette; il cane non fa discorsi; gli corre dietro e si slancia sulla seggiola; il gatto soffia e in un batter d’occhio è ritto sulla cornice dello specchio, che stava sulla toelette, il cane non si dà per vinto e abbaiando furiosamente tenta d’acchiapparlo; il gattino allora, impaurito sul serio, salta dalla spera, e la spera, urtata con troppa violenza, cade rumorosamente in [p. 87 modifica]mezzo alla stanza, traendo seco un visibilio di boccettine, di vasetti e di spazzole.

A quel fracasso il cane abbaia più forte che mai, il gatto se la batte precipitosamente dalla finestra, ed io stavo per imitarlo, allorchè sull’uscio della stanza, e armata d’un rispettabile granatino, apparve la famosa donna vestita di nero, quella stessa che la sera avanti mi aveva accolto in modo così scortese.

Ebbi la somma ventura di sfuggire a tempo a’ suoi sguardi penetranti; non così il cane, che, poverino, ebbe a scontare, per mezzo di alcune granatate amministrategli dalla troppo zelante cameriera, le colpe del gatto e le sue. Due ore dopo questa tragedia, e allorchè il sole era più che a metà del suo corso, io m’aggiravo pensoso nel giardino.

Le bellezze che la mattina mi avevano colpito, mi parevano ora fredde e sbiadite; e più de’ sedili di marmo e de’ fiori capricciosamente colorati, mi sarebbe piaciuto rivedere l’umile casuccia della Marietta, il podere e i grossi alberi frondosi tremolanti al venticello della sera.

Il signorino studiava sul pianoforte, e la signora Clotilde lo accompagnava con certi trilli e gorgheggi così limpidi e sonori, che avrebbero fatto onore a un canarino; in lontananza le campane di Santa Croce sonavano a distesa, e la via che fiancheggiava il giardino era continuamente percorsa da carrozze e cavalli; tutto ciò formava un insieme assai piacevole, ma il povero pulcino, a cui il primo saggio della vita signorile era stato più che sufficiente a guarirlo della sua sciocca vanità, avrebbe preferito a tutto quel frastuono le cantilene melanconiche della [p. 88 modifica]Tonia il coccodè della mamma e il muggito de’ bovi che, stanchi del lavoro, tornavano lentamente alla stalla.

Con questi pensieri mi ero intanto avvicinato ad una delle vasche del giardino, nelle quali, come avvertii poco innanzi, scherzavano briosi mille pesciolini da’ vivaci colori.

Mi prese vaghezza di guardarli a mio bell’agio: e mi avvicinai alla ringhiera di ferro assai maestrevol-

mente lavorata, ma i cui vani erano larghi abbastanza da lasciar passare, e per conseguenza cader nell’acqua, una bestiolina della mia corporatura.

Tenendomi perciò a prudente distanza, me ne stavo guardando gli snelli animaletti che ora s’inseguivano, ora guizzavan rapidi sulla superficie dell’acqua; allorchè, per mia mala ventura, mi comparve sotto gli occhi, e precisamente in compagnia [p. 89 modifica]de’ pesciolini, lo sciagurato pulcino, già ospite della Marietta, il quale, e il lettore, certo se ne ricorderà, si divertiva a farmi il verso dietro la lastra di cristallo che la vispa mia padroncina mi poneva davanti.

Il briccone, a quanto pare, mi era venuto dietro anche in città; e, cosa più strana ancora, aveva preso domicilio in un certo luogo, il quale, secondo la mia poca pratica del mondo, non era servito mai d’asilo ad alcun pulcino.

— O come va, — dissi fra me — che il signorino garbato è là dentro? chi ce l’ha messo? Come fa a campare?

E allungavo il collo per vederlo meglio; ma il cattivello, secondo la sua trista abitudine, ripetè lo stesso atto, però con un certo fare maligno e stizzoso, da muover proprio rabbia. Io, non più intimorito dalla presenza della padroncina e desideroso d’altra parte di punire la sfacciataggine dello impertinentissimo galletto, me gli avvicinai, sempre più risoluto di dargli un paio di beccate.

Ahimè! nello spenzolarmi mi girò il capino, mi mancarono le gambe, e allorchè credevo di poter sfogare a sazietà il mio biasimevole desiderio, mi trovai bellamente precipitato nell’acqua, mentre che il mio nemico spariva nel fondo della vasca.

Che cosa avvenne di me in quel momento?

E chi se ne ricorda? Il tuffo, il ghiaccio dell’acqua e la paura d’esser bell’e spacciato, mi tolsero ogni sentimento; e se non fosse passata di lì per caso la cameriera, quella per l’appunto che io non potevo vedere per le ragioni note al lettore, di me non se ne parlava più, nè i bambini avrebbero letto mai le Memorie d’un Pulcino. [p. 90 modifica]

Ma quella buona donna (guardate alle volte come le persone si giudicano male!) messe bravamente il suo braccio nell’acqua, e mi tirò su tutto grondante.

Nè qui ebbero fine le cure della pietosa creatura, chè portatomi in cucina e fatto subito scaldare un asciugamano, in quello avvolse il mio corpicino intirizzito, e dopo avermi per forza fatto ingoiare alcune gocce di brodo tiepido, mi portò glorioso e trionfante in un bel salottino dove stavano desinando i miei padroni.

Raccontò in brevi parole il caso compassionevole, e dopo aver ricevuto modestamente i ringraziamenti de’ due fanciulli, mi posò in terra, e fatto un bell’inchino uscì dalla stanza.

Alberto e Guido avrebbero desiderato di scender subito da tavola per venir a baloccarsi con me; ma il signor Angelo non lo permise, e disse che i bambini bene educati rimangono a tavola, finchè il desinare non è finito, e finchè i genitori non danno loro il permesso di alzarsi.

Se avessi potuto, avrei dato volentieri un bacio al sor Angelo; me ne stavo tanto bene lì fermo!

Intanto la signora Clotilde, dalle parole del marito prendeva occasione per dare a’ due bambini, e segnatamente ad Alberto, i più utili avvertimenti sul modo di stare a tavola e di mangiare.

Siccome le parole della buona signora mi rimasero impresse, credo bene di dirvele, o bambini miei; e se qualcuno di voi, dopo averle lette, diventasse un po’ più a modo e composto, mi parrebbe di aver fatto una gran bella cosa. [p. 91 modifica]

— Alberto mio, — diceva la buona mamma — ci sono de’ fanciulli i quali vanno a desinare con certi diti tutti macchiati d’inchiostro, e certi visi sudicetti, che è uno sgomento a guardarli. I bambini, come anche le persone adulte, devono dunque presentarsi a tavola con mani e viso ben puliti; chè, così facendo, oltre al procurarsi quel benessere che resulta sempre dalla nettezza, danno altresì una prova di rispetto alle persone che sono in loro compagnia.

Ci sono anche de’ ragazzi che fanno le boccacce alle pietanze che son portate in tavola, e: Questo non mi piace, questo non lo voglio!... Quanto sta male a far ciò!...

Il bambino, quand’è sano, deve mangiar di tutto e così crescerà vegeto e robusto.

— Com’è Arturo, il figliuolo del portinaio; — esclamò Alberto — che viso bianco e rosso ch’egli ha! L’altro giorno se ne stava nel suo casotto mangiando allegramente una certa pappa co’ pomodori, che mi faceva rivoltar lo stomaco! — Che ti piace? gli domandai.

— Eccóme! mi rispose.

— O un bel risotto alla milanese non ti piacerebbe di più?

— Si figuri! Ma anche questa pappa, sa ella, l’ha il su’ merito; già l’ha fatta la mamma! — E come se quest’ultima considerazione avesse cresciuto pregio alla pappa, se la finì in un batter d’occhio.

— Vedi, eh? — disse ridendo la signora Clotilde, — quelli son bambini!

— Mamma, — esclamò Alberto con aria solenne, — propongo che domattina si dia anche a me, per [p. 92 modifica]merenda, una bella pappa col pomodoro! La mangerò per amor tuo, e vedrai che il tuo Albertino non è secondo ad Arturo nel voler bene alla sua mamma!

― Bravo! ― disse alla sua volta il signor Angelo ― è così che si vincono tante sciocche ubbìe.... ―

In quel mentre Guido chiese dell’altro pane.

― O la midolla che hai davanti, non la mangi? ― gli domandò Alberto.

― La midolla? ― disse Guido arrossendo ― io non la mangio mai; la do al canino.

― Perchè?

― Oh bella! Perchè non mi piace; vuoi che la mangi per forza?

― Sarebbe bene, Guido mio, che tu ti ci avvezzassi; ― disse dolcemente la signora Clotilde ― se tu sapessi quante povere creature sarebbero felici se potessero avere il pane che tu sciupi! E forse mentre il tuo canino si leva la fame, tanti poveri non se la levano. ―

Guido tacque mortificato, e mangiò la midolla del pane.

Così ebbe fine il pranzo, dopo il quale i due bambini vennero a trastullarsi un po’ con me. Ma era tarduccio, eppoi non mi sentivo troppo bene; fui perciò portato nel giardino, in una specie di casina verde, tutta coperta, nella quale non mancava nulla di tutto ciò che occorre a far lieta e ben pasciuta la vita d’un mio simile; ma io mi vi accomodai a malincuore, chè la signorile agiatezza, il lusso e i pasti copiosi, non potevano, omai lo sentivo, farmi dimenticare le carezze della mamma e il sorriso della Marietta.