Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo I

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Parte seconda - Ragionamento Parte seconda - Capitolo II

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CAPITOLO I

Mire belliche poetiche sopra la comica milizia da me scelta all’assalto teatrale de’ due nominati poeti Goldoni e Chiari. Fiaba seconda di questo nome, intitolata: Il corvo. Terza di questo nome, intitolata: Il re cervo. Quarta di questo nome, intitolata: Il Turandotte. Quinta di questo nome, intitolata: I pitocchi fortunati.


Nel lungo corso delle osservazioni da me fatte sopra a tutti i ceti della umanitá — umanitá divisa dal caso e dalla violenza per modo da non poter usare legittimamente il termine evangelico di «prossimo» con essa sino al giorno del giudizio universale — non aveva ancora potuto studiare la scenica popolazione, e desiderava d’essere anotomista anche sopra a colesto genere di mortali.

Per dar l’assalto a’ sopra accennati due poeti nel teatro e per fare una diversione di popolo, aveva scelta per mia squadra la compagnia comica del Sacchi, rinomato Truffaldino.

Quella compagnia, formata nella maggior parte di stretti parenti, correva nella comune opinione per la piú morigerata ed onesta di tutte l’altre.

Sosteneva con somma bravura la commedia antica dell’arte italiana alla sprovveduta; genere che con della inumanitá, sotto alla maschera d’un zelo per la coltura e che non era piú che un zelante interesse venale, i signori Goldoni e Chiari s’erano proposti di voler abolire colle loro innovazioni, da me scherzevolmente combattute nella imperfezione, senza offesa alcuna alle opere teatrali comiche e tragiche rispettabili. [p. 246 modifica]

Antonio Sacchi, Agostino Fiorilli, Atanagio Zannoni, Cesare Derbes erano le quattro maschere; Truffaldino, Tartaglia, Brighella e Pantalone; tutti attori eccellenti nella lor professione.

La perizia nell’arte, la prontezza, la grazia, la fertilitá, i lazzi, i sali, le arguzie, la naturalezza e molta filosofia erano le loro doti. La servetta Andriana Sacchi Zannoni, vivacissima, aveva la medesima qualitá.

Tutto il resto della compagnia, nel tempo ch’io presi a soccorrerla ed a prendere pratica con quella, era di vecchi e di vecchie, di figure infelici abili, di personaggi agghiacciati, di ragazzi e ragazze inesperti.

Ne’ tempi anteriori, la societá di queste genti era stata fortunatissima e favorita in Italia.

I due nominati poeti ch’erano prima, possiamo dire, sozi di quella, s’erano ribellati e colle loro novitá l’avevano perseguitata e danneggiata. Era ella passata alla regia corte di Portogallo, dove faceva molto bene gli affari suoi; ma trovò ivi un nimico piú formidabile assai di due poeti.

L’orribile tremuoto di Lisbona troncò i divertimenti di quella metropoli, e troncò le utilitá di queste povere genti, che doverono partire dal Portogallo. Ritornate a Venezia dopo forse quattr’anni di lontananza, si accamparono nel teatro detto di San Samuele.

Oltre a che avevano prima abbandonata l’Italia con dispiacere delle infinite anime allegre, le quali si annoiavano a’ Filosofi inglesi, alle Pamelle, alle Pastorelle fedeli, a’ Plauti, a’ Molieri, a’ Terenzi, a’ Torquati Tassi, alla monotonia sonnifera de’ versi martelliani; per consuetudine tra noi, divien nuovo ciò che piacque e che da qualche anno non s’è veduto.

Le quattro maschere, la servetta e qualche altro personaggio, meritevole nel genere all’improvviso piú che non erano i poeti pensatori e bilanciatori nell’opere scritte, rubarono per il primo anno il concorso alle riforme; ma poco a poco le doviziose novitá prodotte nel teatro da’ due fertili scrittori, i quali trattavano queste brave persone da mimi spregevoli, da scipiti buffoni, con indicibile scipitezza, e da nimici della coltura, con [p. 247 modifica]una impostura letteraria conosciuta da pochi per tale, trionfarono e le ridussero quasi ad un totale abbandono.

Ho creduto di avere piú fiorito argomento di ridere togliendo ad essere colonnello alla compagnia del Sacchi, scegliendola per milizia, e di fare una gioviale capricciosa vendetta alla nostra granellesca comitiva grossolanamente villaneggiata, se co’ miei generi allegorici bizzarri, di fondo puerile, donati al Sacchi, potessi vincere una costante affollata diversione di concorso al di lui teatro.

La fiaba dell’Amore alle tre melarancie aveva incominciato un cosí bell’effetto.

La collera che risvegliò quell’arditissima produzione ne’ due poeti e ne’ loro partigiani, colla rivolta che ha cagionata, colle parodie e con gli arcani allegorici che conteneva, interpretati da’ gazzettieri con degli elogi e delle scoperte d’intenzione insino a me medesimo ignote, fu grande.

Le schiere nimiche si ingegnavano a deridere la mia fiaba con de’ freddi scherzi, ostentando della nausea letteraria e un zelante disprezzo. Adducevano che tale scenica azione non era che una triviale buffoneria da plebaglia, dimenticandosi che il ceto nobile ed educato l’aveva intesa, gustata e goduta; gridavano che la cagione del gran concorso ch’ella aveva, derivava dall’essere appoggiata al formidabile ridicolo di quelle quattro valenti maschere ch’essi volevano estinte, e dal maraviglioso di alcune trasformazioni, non conoscendo o lasciando da un lato il vero spirito di quel comico abbozzo.

Ridendo io delle loro vane diseminazioni, proposi pubblicamente che la forza dell’apparecchio, i gradi della condotta, l’arte rettorica e l’armoniosa eloquenza potevano ridurre un puerile falso argomento, trattato in aspetto serio, all’illusione d’una veritá, e fermare l’umano genere, tratti dalla universalitá forse trenta avversi miei i quali, anche a proposizione provata, averebbero condannati cento e piú mila uomini d’ignoranza e si sarebbero fatti eunuchi rinunziando d’esser uomini, piuttosto che confessare il vero in questo proposito.

Nuove beffe alla mia proposizione e nuovo cimento per me nel provarla con evidenza sulla popolazione. [p. 248 modifica]

La fiaba del Corvo, da me tratta dal Cunto de li cunti, trattenemiento pe li piccerille, libro napolitano, ridotta a terribile tragedia, non senza qualche tratto faceto delle mie quattro maschere benemerite, che voleva sostenere in sul teatro a benefizio degl’ipocondriaci, ad onta delle minacce aristoteliche mal conosciute e usate illegittimamente, fece questo miracolo.

Il pubblico pianse e rise a modo mio, e corse in folla ad infinite repliche di questa fola, come s’ella fosse stata una veritá, con un danno indicibile a’ due poeti e con de’ plausi seri de’ gazzettieri alla condotta di quella, alla morale, al senso allegorico, e fu da essi giudicata un vero esempio d’amore fraterno.

Tutte le opinioni favorevoli nelle materie teatrali, che godono della irruzione di spettatori, hanno tra noi il vantaggio del seimila per uno.

Volli battere il ferro mentr’era rovente, e la mia terza fiaba intitolata: Il re cervo, ribadí la mia proposizione con delle enormi replicate calche acclamatrici. Furono trovate in essa mille bellezze ch’io, che la scrissi, non aveva vedute, e fu giudicata uno specchio morale allegorico per i monarchi i quali, per troppo cieca credenza ed amicizia per qualche ministro, sono da quello trasformati in figure abborribili.

E perché i miei ostinati pochi avversari sostenevano a gola gonfia ancora che il grand’effetto delle mie tre prime fiabe avveniva dalla decorazione e dal maraviglioso delle magiche trasformazioni, e niente concedevano all’apparecchio, a’ gradi dell’artifiziosa condotta, alla rettorica, alla malía della verseggiata eloquenza, a’ squarci di seria morale e alla chiara critica allegoria che contenevano, con altre due fiabe, La Turandotte e I pitocchi fortunati, spoglie affatto di magiche maraviglie, ma non di gradi d’apparecchio, di morale, d’allegoria e di forte passione, e ch’ebbero il concorso e la sorte medesima delle prime benché di base falsissima, ho provata interamente la mia proposizione, senza però disarmare i contrari miei.

A’ tentativi scenici de’ due poeti, che incominciavano a divenir languidi, opponeva una delle mie bizzarrie poetiche, sempre di falsa base, ma fornita delle sopraddette qualitá e [p. 249 modifica]pienissima d’ingredienti ch’erano assolutamente cose e non parole, la qual involava la ricolta a’ teatri sostenuti dalla creduta coltura e moltiplicava la mèsse del Sacchi.

Aveva scelta per mia ricreazione nell’ore d’ozio quella famiglia comica (ricreazione saporitissima), e in un breve giro di tempo studiai e penetrai filosoficamente tanto bene gli spiriti e i caratteri de’ miei soldati che tutte le parti da me scritte ne’ miei capricci poetici teatrali, composte con la mira all’anima de’ miei personaggi e a quelli addossate, erano esposte sul teatro in modo che sembrava che uscissero da’ loro propri cuori naturalmente, e perciò piacevano doppiamente.

Questa facoltá o non è posseduta o non è esercitata da tutti gl’ingegni che scrivono per i teatri, ed è un’industria necessaria da usarsi nelle compagnie comiche dell’Italia, perché la tenuissima contribuzione che dánno per un’usanza invecchiata gli spettatori, non dá modo a’ nostri comici di estendersi a un vasto numero di attori e di attrici stipendiati, da poter scegliere e da poter addossare con adeguato equilibrio di proporzione tutti i vari caratteri che si danno in natura.

Da un tale mio studio e da questa mia penetrazione, imitazione ed abilitá (studio ch’io non disgiungo dallo studio ch’io feci sull’indole e sul genio de’ miei ascoltatori) avvenne molta parte di quel vantaggio all’opere mie teatrali che non è conosciuto dalla incapacitá de’ miei pochi censori, e che le sostenne per tanti anni con quella fortuna che nessuno potrá negare.

Il solo Goldoni seppe usare lo studio medesimo sopra a’ personaggi da lui serviti de’ suoi generi premeditati; ma io sfido il Goldoni e tutti gli scrittori de’ nostri teatri a comporre le parti differenti nel loro carattere, con tutti i sali, tutte le arguzie, le facezie, la satira morale e tutti i ragionamenti in dialogo e in soliloquio connaturali a’ miei Truffaldini, a’ miei Tartaglia, a’ miei Brighella, a’ miei Pantaloni, alle mie servette, come feci io, senza cadere nel languore, nella freddezza, e con lo stesso avvenimento d’acclamazione ch’ebbero i tratti miei.

Coloro che si provarono a dar favella a quegli attori pieni d’arte, d’acume e d’una grazia confessata e applaudita [p. 250 modifica]dall’universale, non fecero altro che snaturarli, e non fecero altro effetto che quello di far torcere i nasi colle scipitezze, di far correre il gelo pelle pelle colle freddure, di attirarsi le fischiate al terzo delle loro rappresentazioni, alle quali essi soli ridevano allegri, con la ferma credenza d’aver esposto al pubblico un monte di sali e d’argute facezie.

Forse da questa loro sciagura avviene che infingendosi, per men peggiore partito, gravi e seri comicamente, trattano cotesti nostri portenti di soccorrevole giovialitá da buffoni spreggiabili, trattano l’Italia tutta da ubbriaca e da grossolana, trattano me da poeta sostenitore delle mimiche inezie e trattano i miei generi teatrali da sfasciate commedie dell’arte italiana alla sprovveduta, con una goffa ingiustizia ed una falsitá stomachevole, smentita dal fatto.

Non v’è chi non sappia che le maschere italiane, da me volute sostenere per artifizio e per una lecita ricreazione di quel pubblico che le amava meritamente, in parecchie e non in tutte le mie sceniche produzioni, hanno in quelle la piú picciola parte, e che il fondo di soda morale e di robusta passione, appoggiato agli attori seri, fu la vera causa della loro resistenza.

Siccome la catena de’ miei generi teatrali fu lunga piú per una spezie di necessitá che per un mio genio, averò occasione in séguito di favellarne.

Può star certo il mio lettore ch’io non lo annoierò né con le analisi di questi generi né con le apologie di questi generi. Averò occasione soltanto di farlo ridere di que’ pochi catelini stizziti che fecero ridere me, abbaiando a cotesti generi e abbaiando al pubblico per la sola ragione che piacquero questi generi.

I miei comici protetti mi guardavano come il loro genio tutelare. Facevano delle esclamazioni di giubilo quando mi vedevano. Confessavano a tutto il mondo ch’io era la stella propizia del loro risorgimento. Protestavano un obbligo non ricompensabile e un’eterna gratitudine.