Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XXXVI
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CAPITOLO XXXVI
Visita e colloquio, i peggiori ch’io avessi alla vita mia.
Uscito dal letto il dí sedici di quel gennaio assai per tempo, richiamai alla mente ciò che la sera aveva disposto di fare e di esibire al Gratarol guidato da me dall’amico Maffei, e fui scempiato a segno di trovar buoni i miei ideati apparecchi anche a mente riposata e di non sospettare che il Gratarol potesse trovarli ridicoli e rifiutabili come spazzature.
Non v’era modo ch’io potessi immaginarmi ch’egli venisse a visitar me sulla buona fede, scortato da un degno amico, sotto il manto dell’amicizia, col piú canino oscuro livore nelle viscere contro la persona mia.
Non mi passava per la mente ch’egli, opponitore superbo, ostinato e instancabile a’ voleri di tre de’ piú tremendi tribunali che avevano rispinta la sua follia, venisse a pretendere me vittima delle sue temerarie imbecillitá contro al possibile, massime avendo io prevenuto il Maffei, mediatore alla visita ed al colloquio, perché non mi fosse fatta richiesta di cosa ch’era omai resa ben lontana dall’arbitrio mio.
Qual cristiano, qual onest’uomo avrebbe pensato in quel caso ch’egli, chiedente favore d’aver meco un colloquio col mezzo d’un amico onorato nella mia propria casa, fosse in grado di doversi costringere a prendere un’«aria d’indifferenza», e nell’incontro cordiale che io feci a lui e al Maffei al loro arrivo nelle mie pareti, chi avrebbe creduto ch’egli dicesse nel livido animo suo quel verso della mia commedia:
Il Catone si avanza: scatoniamolo,
siccome egli riferisce senza vergogna nelle frenesie della sua fracida penna?
Quanto a me, co’ sentimenti d’un animo sincero e sensibile, mi chiusi quella mattina nel mio solitario stanzino e quivi scrissi in fretta i ventiquattro versi del mio prologhetto in favore del delirante, da essere stampato e donato all’uscio del teatro a’ spettatori che entravano la sera de’ diciassette alla non piú mia commedia. Mi premeva di terminarlo prima che giugnesse la visita che meco «gareggiava di cortesia», come si vedrá, per esibirlo, leggerlo, correggerlo, accorciarlo, allungarlo ne’ limiti dell’onestá al modo del mio «gareggiatore di cortesia».
Giunto ch’io fui appena all’ultimo verso del mio prologhetto, fu picchiato all’uscio. Era il cerbero Gratarol cruccioso, guidato dal mansueto agnello Maffei.
È cosa certa ch’io non aveva palesato nemmeno all’aria la visita che contro al voler mio attendeva nella mia casa, e visita che il Gratarol pretendeva non so come che stesse celata. Il mio servo m’annunziò sonoramente che v’era il signor Gratarol. Buon principio alla secretezza del nuovo recondito strattagemma di quel signore!
Incontrai i miei due visitatori col cuore aperto, colla dovuta civiltá e colle poche parole del mio costume, e feci cenno al mio servo di partire.
Il Gratarol entrò nella mia cavernetta d’applicazione co’ suoi passi ondeggianti detti «all’inglese» e colla maschera sulla faccia, geloso di non essere conosciuto; il che non s’accordava coll’annunzio del mio servitore.
Chiusa ch’ebbi la porta, il mio «gareggiatore in cortesia» favorí allora di levarsi la maschera. Il fummo della sua faccia salí come una nuvoletta alle travi. Scòrsi l’effigie d’un invasato frenetico, una guardatura inquieta, incostante, dispettosa, addolorata, fremente, che mi ricordava Tizio roso il cuore dall’avoltoio.
Compiansi nel mio interno il suo stato, ma vidi ben tosto che il buon uomo Maffei era stato sedotto a condurmi una mala visita e ch’era necessaria tutta la mia flemma e la mia circospezione, massime colla presenza della guida dabbene ch’io amava.
Mano al colloquio, ch’io dirò in un ristretto compendio possibilmente, per attestare la pura veritá del quale il Gratarol non averá mai che una penna inventrice, menzognera, millantatrice, libellatrice, mossa dal fuoco inestinguibile della disperazione, dell’ira, dell’odio, della vendetta, ed io averò un testimonio onorato, amico reciproco da lui scelto ad essere presente, nel signor Carlo Maffei.
Prima di quel colloquio io non conosceva che per nome e superfizialmente il Gratarol. Il vino e l’ira scoprono la veritá del fondo degli animi, e in quel colloquio ebbi la opportunitá di conoscere perfettamente l’indole e il carattere di quel signore.
Obbligato da lui a non mai interrompere il suo discorso, non potei trattenere la mente dal fare delle mute filosofiche riflessioni da osservatore a misura delle scoperte che andava facendo. Le mie riflessioni allungheranno questo capitolo piú ch’io non vorrei, e prego il mio lettore ad essere sofferente com’io lo fui a quel fastidioso colloquio.
Levatasi il Gratarol la maschera dal volto fummoso mi disse con un sorriso sforzato ch’egli scommetteva che nessuna persona avrebbe indovinato qual visita riceveva io in quel punto.
Poteva rispondergli ch’egli avrebbe perduta la scommessa, poiché per lo meno il mio servo era stato un franco indovino nell’annunziarlo; ma mi contentai di rispondere: — Nessun obbietto dal canto mio può certamente essere ostacolo all’onore che in questo punto ricevo.
Si ponemmo tutti a sedere, e quindi il Gratarol in un tuono di quella gravitá ch’egli sperava di avere e che al mio guardo non compariva che una ridicola scompostezza d’un nano pedante procelloso per un cruccio voluto tener celato, incominciò dal dirmi ch’egli era venuto da me come ragionatore e non come precario.
— Bella introduzione! — diss’io tra me. — Che mai vorrá dirmi quest’arrogantuzzo e fanatico ragionatore? — Risposi ch’ero «paratissimo» ad ascoltare il suo ragionamento.
Siccome egli aveva apparecchiati nel gozzo de’ barili di periodi d’una rettorica e d’una logica alla sua foggia, da persuadermi e costringermi ad una sua strana volontá, non mai combinabile né colla circostanza né col mio potere, come si vedrá, mi pregò ad ascoltarlo e a non mai interrompere il suo ragionamento.
Mi contentai di promettergli ciò con un abbassare di capo semplicemente, per ridurre la faccenda a brevitá; e perché scorgeva negli occhi suoi scintillanti e gonfi un Demostene mal disposto e un torrente d’eloquenza che stava per scaturire, pronosticai della siccitá a’ miei poveri genitali di ciò che per molti altri genitali sarebbe forse stato un delizioso confortativo. Ero tuttavia un paziente curioso d’udire a qual sostanza riuscisse il suo ragionamento.
— Non è il momento questo — diss’egli — di cercare se nel personaggio di don Adone della sua commedia, che certamente non è il mio carattere, Ella però abbia studiato di voler in quello malignare la mia persona.
Sentendomi tócco in sul vivo da un mal impresso, pertinace nella sua opinione offensiva fissata in lui da una cieca fede prestata a un’attrice teatrale, mi scossi alquanto dicendogli con una civile serietá: — Si ricordi, signore, ch’Ella m’ha pregato a non mai interrompere il suo discorso. Mi duole assai di vederla imbrogliata in un argomento di vergogna non meno per lei che per me mercé alle direzioni da lei tenute.
Fremendo egli internamente ma sforzandosi ad una calma affettata, proseguí a versare il tinaccio della sua facondia sul proposito de’ casi suoi e della mia commedia, ch’egli volle considerar sempre «commedia vendicativa», somigliando a quella femmina la quale ostinatamente diceva ogni momento «pidocchioso» al marito, e che gettata in un pozzo da quello, stanco di soffrire una tal ingiuria, affogando ella sott’acqua, innalzava sopra l’acqua le mani unendo l’ugne delle due dita colle quali si schiacciano i pidocchi, per dirgli «pidocchioso» insino nel momento dello spirare.
Per far giustizia alla robustezza de’ polmoni del signor Pietro Antonio Gratarol devo fare la testimonianza in di lui favore che il suo arringo sorpassò una grossa ora di tempo. Arringo di verbositá gettato all’aria non per una mia mala volontá, ma perché la sostanza alla quale egli pretese infine d’indurmi non era sostanza proponibile.
Mi ristringo all’essenziale di quel colloquio con una veritá che può essere testificata dall’onest’uomo Maffei, mezzo e presente a quella visita per una di quelle sciagure alle quali vanno soggetti i cuori teneri e compassionevoli.
Siccome io non doveva interrompere la eloquenza del signor Pietro Antonio nel suo da lui creduto ragionamento, dirò soltanto ciò che rispondeva l’animo mio e il mio cervello mutuamente nell’ascoltarlo, tenendo a forza chiusa la bocca che avrebbe voluto sbavigliare dugento volte.
Tra un ammasso di adulazioni verso la persona mia da me abborrite, di rimproveri che non aveva mai meritati, di minacce ch’io sorpassava in un forsennato afflitto per degli effetti a danno suo da lui tessuti — rimproveri e minacce discordanti colle sue adulazioni d’astuzia infelice, — il grano che vagliando io il monte della sua zizzania raccolsi, fu poco.
Vantò da glorioso sublime la sua nascita, la sua nobile educazione, il suo patrimonio, i suoi impieghi, la celebritá della sua riputazione, la sua destinazione a residente alla Maestá del re di Napoli, la sua etá ch’egli asserí ancora fresca, i gran progressi a’ quali volava rapidamente, la sua robustezza, la sua ascendenza successiva senza intoppi sino a quel punto, salita ad una notabile felicitá da essere invidiata «anzi che no».
L’esaltazione panegirica ch’egli fece a se medesimo incominciò a darmi uno schizzo del suo carattere, e fu tanto lunga ch’io potei tacitamente in me stesso per non interromperlo ragionar lungamente.
— Misero! — diceva basso il mio cuore — voi non siete il primo uomo leggero che per de’ fenomeni strani sia stato elevato ad un’altezza pericolosa. Il vostro intelletto ravviluppato in una infinitá di fogliacce apparve un classico volume di fiori all’ignoranza classica d’una gran parte di quelli che presiedono al governo e dánno ciecamente il voto in favore a chi cerca de’ rematici uffizi. La vostra lunga condotta censurabile all’occhio de’ saggi, di sproporzionate lussurie e prodigalitá abbagliatrici, di quelle che voi chiamate «galanterie» e del frascheggiare; le puntigliose inconsiderate petulanti ragazzesche mosse che faceste senza proposito in alleanza con una comica in questi ultimi tempi, hanno con l’aiuto de’ vostri conoscitori, forse vostri nimici ma forse anche zelanti del pubblico sovrano decoro, svelata la picciolezza del vostro cervello. Non vi resta che questo snudato da ogni abbaglio, dispettoso, gonfio d’un’ambizione suscitata in lui dalle spuree passate ascendenze e felicitá che voi credeste legittime e doverose ad un merito infantato dall’inganno del vostro amor proprio, e vi resta soltanto quella crucciosa e dispettosa fierezza ch’è attissima a rendervi piú sensibili le vostre disgrazie. Voi non siete punto filosofo. La vanitá è la piú assurda di tutte le umane passioni. Ella si distrugge da se medesima nel punto che agisce colla sicurezza di maggiormente giganteggiare.
Il signor Pietro Antonio proccurò di sostenere che della sua caduta improvvisa dalla gloria al ludibrio altro non si poteva incolpare che me e la mia commedia delle Droghe d’amore. — Fosse poi — replicò egli — quella commedia innocente o rea, l’esame non era di quel momento.
L’occhio mio mentale conobbe che questa incertezza dilazionata all’esame non era che una finta cortesia perch’io non interrompessi il filo del suo assassinio rettorico, per ridurmi a un impossibile ch’io non poteva indovinare; e dissi soltanto tra me: — Quando confesserá quest’uomo che le sue direzioni e non altro fecero divenire la povera mia commedia una satira sugli omeri suoi? — Chiusi gli occhi, tacqui; ed egli proseguí ch’egli era invidiato da molti, odiato da un pugno di nobiltá, perseguitato da alcuni Grandi, perché aveva assunto delle competenze con quelli per proteggere delle cause giuste e per rispingere delle sopraffazioni.
— Altro che Droghe d’amore! — dissi tra me. — Gran giudice saggio e possente da porsi in competenza co’ suoi maggiori e gran prudente rassegnato e accorto semplice ministro in una repubblica!
Seguí ch’egli aveva cercato di fare sforzatamente la sua corte a delle gran dame le quali avevano facoltá sul cuore de’ Grandi con lui esacerbati, per tentare di disarmarli e farseli benevoli; ma che aveva trovate coteste dame tanto indiscrete, tanto stravaganti, tanto pazze, tanto insoffribili, tanto eccetera eccetera eccetera, che s’era da quelle allontanato disgustandole per necessitá.
— In quanti labirinti d’imbrogli — dissi tra me per non interromperlo — entra per un bisogno dell’ambizione quest’uomo che vuol grandeggiare nel secolo, che si picca d’ingegno, d’industria, d’attivitá, che non sa nemmeno schermirsi da poche false parole d’una femminetta teatrale e che piantato sopra una falsa base si va ravviluppando con de’ raggiri per incespicare e cadere d’abisso in abisso. Beata — diceva io basso — la tenuitá del mio stato, la mia ritiratezza, il mio non cercare uffízi.
Avrei dovuto porre la lancia in resta per l’onore delle dame brutalmente dilapidato, ma aveva a fronte un amico nel Maffei da rispettarsi e un delirante che non voleva essere interrotto; e un’azione da paladino poteva avere un pessimo fine.
Per scemare possibilmente il lago de’ suoi periodi i quali mi avevano presso che affogato, passerò a dire ch’egli fece una descrizione commovitrice del caso in cui si trovava per cagione, diss’egli, della mia commedia, senza mai voler confessare per causa della di lui sconsigliata direzione.
Dipinse se medesimo assai bene tragicomicamente, che togato passando per le vie e nella piazza, della canaglia personificata, levandosi dalle botteghe e affollandosi, lo additava sghignazzando per il secretario posto in ridicolo nella commedia delle Droghe d’amore. A questo passo lo vidi contorcersi, agitarsi e schizzare dagli occhi qualche lagrima.
Poteva forse esservi della caricatura istrionica rettorica in questa esposizione, ma lunge io da quel dannato trionfo e da quella vendetta abborriti, non mai voluti dall’animo mio, ma ch’egli pertinacemente, oltre ad ogni esempio, senza proposito, a dispetto della veritá, d’ogni onestá e affascinato da una attrice, aveva fissato che fossero in me, il mio cuore conturbato al suo pianto costrinse gli occhi miei a versare delle lagrime molto piú delle sue sincere, perocché è certo che le mie non erano che figlie della semplice umana compassione, e le sue, come si potrá rilevare, non erano che figlie d’una crucciosa superbia ferita e del livore e figlie d’un intempestivo artifizio mal impiegato.
Io sapeva però realmente che le sue orgogliose cieche imprudenze avevano aperto un campo fertile a’ suoi nimici e ad una lorda comica venalitá, e che meglio non aveva potuto cooperare per esporsi da se medesimo sopra una scena alle pubbliche risa. Ciò bastava al mio interno per commoversi sopra una sua essenziale disgrazia e per creder vero tutto ciò ch’egli mi narrava della plebe.
Ripigliando il signor Pietro Antonio il lago del suo ragionamento, si lasciò uscire di bocca che ne’ giorni passati, dopo alcune repliche della mia commedia, aveva egli tentato un ricorso con una supplicazione per farla sospendere. Non mi disse a qual tribunale si fosse presentato, anzi come pentendosi d’aver tócca questa corda, il suono della quale s’opponeva direttamente sempre piú alle stolte pretese che aveva da me e che spiegò dappoi, cercò di troncare il suono di quella corda colle seguenti precise parole: — Breve, mi furono chiuse le porte in faccia per ogni dove.
Alle sue sopra accennate poche parole sbarrai tanto d’occhi, e li volsi al degno Maffei quasi chiedendogli: — Che diavolo di visita m’avete condotta? — Chiamai a raccolta tutti i miei spiriti, tutta la mia cautela e la mia attenzione, e senza sapere ancora a che volesse riuscire il stucchevolissimo ragionamento dell’invasato, incominciai a contemplare la visita proccurata per un raggiro peggio che inurbano.
Non era io abbastanza sciocco da non comprendere a qual terribile tribunale un eletto ministro residente ad una real corte era ricorso ed era stato rispinto.
— Ah perché — disse basso il mio cuore, — caro il mio Gratarol, non vi umiliate a chiedere in grazia con de’ pretesti che non offendano il vostro decoro la dimissione della vostra andata all’uffizio di residente alla real corte di Napoli? Voi avereste la grazia con pienezza di voti. Il vostro ultimo sotterfugio di far cadere fintamente dalla scala una comica vostra amica per opporvi a tre rispettabili tribunali che rifiutano d’ascoltare i vostri deliri, finisce di svelare la leggerezza, la incapacitá e la petulanza del vostro cervello. Voi ed io saremo eternamente contrari nelle nostre interpretazioni e ne’ nostri giudizi, siccome sono contrari un cervello pacifico e mansueto e un cervello infuocato e superbo. Cosí ragionava tra me per non interrompere il mio visitatore, attendendo tuttavia la conclusione del suo eterno ragionamento.
Giudicando finalmente il signor Pietro Antonio d’avermi ridotto a suo senno, d’uomo in fanciullo, esagerando ch’egli ammetteva in me giustizia, umanitá, religione, onore, nobiltá d’animo, eccetera eccetera eccetera, pretese di provarmi con delle erudizioni sempre raccolte nel libro della comica sua solita relatrice, consigliera e sibilla, ch’io «poteva» e «doveva» sospendere la riproduzione nel teatro della commedia la sera susseguente del dí diciassette di quel gennaio e per quanto durava il mondo.
Maravigliai a quella proposizione ch’io non doveva attendermi avendo prevenuto abbastanza il Maffei conduttore della visita, su questo punto, anche senza sapere l’ultimo passo fatto dal Gratarol agli inquisitori di Stato e la regezione, che non spettava a me il giudicare s’ella fosse giusta od ingiusta. Volli però attendere dall’insidiatore o vaneggiatore commiserevole la prova di quel «poteva» e «doveva» ch’egli pretendeva che fossero in me, per non interromperlo.
Ecco lo «strettoio» a cui egli ha sperato d’avermi posto e in cui certamente altro che un cerebro riscaldato o un insidiatore presuntuoso poteva sperare d’avermi posto, in quelle spinose circostanze.
Riduco a sostanza il suo argomento e la sua richiesta, i quali avrebbero avuto per avventura tutto l’aspetto della discrezione e della onestá ne’ primi suoi sospetti in lui istillati dalla comica e innanzi alle prime sue mosse imprudenti, ma che nel caso in cui eravamo lui ed io in quel punto non potevano essere né piú tardi né piú disperati né piú folli né piú impossibili a eseguirsi di quello ch’erano.
Io non poteva né potrò mai credere il Gratarol imbecille a segno d’avermi proposta cosa dal canto mio fattibile, e nel momento in cui finalmente espresse ciò ch’egli pretendeva da me non come «precario» ma come «ragionatore», mi determinai a guardar lui come un circuitore maligno e a guardare il Maffei come un uomo di troppo buona fede, troppo dabbene e trappolato da un raggiratore violento. Veniamo allo sdruscito e sfasciato «strettoio» del Gratarol.
— Il Sacchi capocomico — diss’egli — ha tanti vincoli con lei per le beneficenze ricevute d’opere teatrali donate che gli fruttarono de’ tesori: deve anche avere una naturale lusinga d’averne tante altre che non può mai negare a lei la richiesta di sospendere per sempre la riproduzione in teatro della sua commedia: Le droghe d’amore. So anche ch’egli ha detto che in ciò dal canto suo è per dipendere dalla di lei volontá.
Ecco la seconda parte e la conclusione del non meno intempestivo che insensato ragionamento del Gratarol.
— Il patrizio padrone del teatro — proseguí egli trattando quel senatore con degli epiteti che al tempo d’Esopo un rozzone sboccato averebbe avuto riguardo a proferire — è impegnatissimo, è vero, a volere che la commedia si riproduca. Ma chi è questo padrone? So ch’egli è una persona che per patto della scrittura di convenzione ch’egli ha col Sacchi non può impacciarsi nella direzione della scena e non può impedire che la comica compagnia esponga piú quella rappresentazione che un’altra. So anche piú — soggiunse egli, — che appunto quando il padrone del teatro desidera che sia recitata una commedia, il Sacchi ne recita un’altra per mostrar noncuranza. Oltre a ciò non è possibile che nemmeno il padrone si opponga alla di lei premura per dare un disgusto a un autore che con le di lui produzioni può dare in avvenire molta utilitá a’ suoi ricavati teatrali. Adunque — concluse il Gratarol — se il Sacchi non può negare a lei di non riprodurre Le droghe d’amore, se il padrone del teatro non può obbligare il Sacchi a riprodurre quell’opera, sta nella di lei mano il sospenderla e il sbandirla per sempre dal teatro. Questo è ciò ch’io chiedo, ciò ch’Ella può fare e ciò che deve fare.
La ruota della sua fanatica eloquenza, che posta in un rapidissimo movimento non poteva fermarsi, seguí a farmi intendere a puro fine di spaventarmi, una cosa troppo vera, da me preveduta e che amareggiava l’animo mio.
Mi disse che il pubblico guardava me solo come oggetto della sua disgrazia e che cominciava a rivoltarsi, a compatirlo, a contemplar me con occhio differente da’ tempi passati e che mi avvicinava a divenire odioso alla mia patria.
A tal riflesso ch’era il piú giusto e il piú solido ch’io avessi udito uscire dalla sua bocca e che aveva faccia d’un’amistá contraria al nero livore verso di me che lo rodeva, non aggiunse però mai, come avrebbe dovuto, ch’io ero obbligato alla stolida effemminata sua credenza prestata ad un’attrice, alla sua violente altera petulante instancabile direzione, della sciagura che m’accennava in mio danno.
Fatto ch’egli ebbe punto fermo alla sua brodosa affettata perorazione, toccava a me il rispondere succintamente. Sarebbe stata facile la risposta e facile sarebbe stato l’aderire alla sua richiesta a caso vergine e differente dal suo e dal mio di quel momento.
Non durai fatica ad intendere che di tutte le erudizioni riguardanti la scrittura del Sacchi e al patrizio padrone del teatro era egli stato fornito dalla comica; da quella comica che aderendo alle di lui bestialitá era tombolata fintamente giú per la scala, perch’egli potesse cozzare con un supremo tribunale al cui nome ognun trema e che aveva rispinto un di lui memoriale delatore contro di me, con cui ricercava la sospensione della commedia.
Aveva bisogno di tutta la mia flemma e d’una direzione assai cauta per dargli la mia risposta. Egli aveva tentato di far spezzare una gamba a una povera comica sua amica, indispettito contro gl’inquisitori di Stato, e veniva a tentare di far rompere il collo anche a me per vincere il suo puntiglio.
— Mio signore — diss’io, — quand’anche fosse vero, ch’è ben lontano dal vero, quel suo ch’io «posso» e ch’io «devo» sospendere e sbandire per sempre la mia commedia dal teatro per quelle ragioni che forse saranno vere ma che sono assai tarde, ch’Ella adduce con tanta franchezza, nessuno potrebbe levare dalla pubblica opinione, ne’ casi suoi e miei, che la mia commedia fosse stata sospesa e sbandita da’ tribunali di giustizia come rea dal canto mio d’un attentato di quella puerile vendetta ch’Ella con troppa facilitá ha creduta e che colle sue mosse, le sue inquietezze, le sue visioni e i suoi discorsi ha fatto credere a molti, facendo corpo d’un’ombra vana, armando i di lei possenti nimici che si divertono sopra le sue sventure, che le coltivano e risvegliano la sozza industria venale di alcuni comici. Rimarrei con una taccia nella mia patria d’aver fatta un’azione inonesta di cui sono assolutamente incapace e di cui con mio sommo rammarico Ella ha fissato il contrario.
A queste parole l’energumeno non mi diè campo di proseguire, e credendo o piuttosto fingendo di credere che questo solo sentimento di delicatezza mi trattenesse dal sottomettermi ai suo sconnesso «strettoio» e al suo ch’io «poteva e doveva fermare la commedia dal mai piú comparire in sul teatro», si pose con un entusiasmo di apparente letizia a gridare: — Signor conte, Ella abbandoni il suo dubbio. Sarò io il primo a suonare la tromba per la cittá e ad esclamare ch’io riconosco dal suo bell’animo e dalla sua generositá soltanto il favore.
Lessi nel suo cuore a questa esclamazione ch’egli credeva d’essere a fronte d’un uomo giudicato da lui ipocrita, a cui premesse solo di preservarsi un buon nome nella societá senza meritarlo.
— Si calmi, signore — diss’io con tutta la flemma; indi seguendo: — Averei forza di spirito bastante di sofferire la mortificazione de’ falsi giudizi del pubblico a mio svantaggio, tanto è grande e tanto mi penetra la compassione ch’io sento de’ casi suoi da me contemplati come un vero afflittivo martirio; ma se vorrá esaminare e riflettere con giustizia alla serie de’ casi avvenuti ed alle circostanze dalle quali è circondata la riproduzione nel teatro della non piú mia commedia domani sera, troverá ch’Ella chiede a me cosa fuori di tempo e ch’io non ho né alcun adito né alcun arbitrio di poter aderire al suo desiderio e alla sua richiesta. Per quanto dissi iersera qui al nostro degno signor Carlo Maffei, non doveva giammai attendere da lei una tale dimanda nel colloquio amichevole da lei ricercato.
Il frenetico incominciò a scomporsi con del fremito e delle contorsioni d’un cruccio segreto, ed io seguitai pacificamente la mia risposta nel modo che segue: — Al Sacchi è noto che insin dalle prime ciarle destate da’ di lei passi, mosso dalla di lei credulitá verso un’attrice, io aveva fermata la commedia dall’entrare nel teatro in quest’anno dopo averla donata, con quella poca facoltá che mi restava, per pura delicatezza e temendo che i discorsi formassero un’illusione nel pubblico con pregiudizio di lei e di me.
Al Sacchi è noto che sulla richiamata a nuova revisione del magistrato rispettabile sopra la bestemmia — richiamata seguita sulle di lei mosse incautissime, — egli non lasciò nessun raggiro comico intentato, contro le mie lagnanze, per farmi privare d’ogni facoltá sull’opera mia e per poterla esporre nel teatro, accecato dalla sua laida venalitá, ed è nota a lui la risoluta insolenza con cui rispose alle mie opposizioni.
Al Sacchi è noto che sulla seconda revisione fatta con tutte le viste sull’opera mia, trovata innocente e licenziata per il teatro di nuovo, il circospetto signor Francesco Agazi ministro del magistrato suddetto m’ha intimato magistralmente la privazione di facoltá e anzi un ordine di sollecitare la rappresentazione, aggiungendo che «il suo magistrato non falla».
Al Sacchi sono note tutte le condannabili direzioni da lui tenute, valendosi del vento favorevole che lo assecondava, forse per aderire al genio de’ di lei nimici o delle di lei nimiche e piú alla propria ingordigia d’un sozzo interesse, di baratti di parte, di apparecchi di vestiari, d’acconciature e d’altro, nascostamente da me, punto non curando il cimento a cui esponeva il buon nome d’un uomo che l’aveva beneficato per piú di vent’anni, che son quell’io.
Al Sacchi è noto che la sera della finta caduta della Ricci — strattagemma da lei tentato, per pubblica opinione, e per tale riferto a’ capi dell’eccelso tribunale non so da chi — sullo scandalo rivoltoso avvenuto nel pieno teatro, egli ha spinto in iscena il marito della Ricci medesimo a promettere la riproduzione della commedia per calmare il popolo; ed al Sacchi è noto che i sopraddetti capi dell’eccelso tribunale hanno comandato ad un ministro di condurre al teatro la Ricci la sera di domani alla recita della commedia, né ardisco di interpretare se quest’ordine risoluto sia per rintuzzare la di lei violenza, il che sembra verisimile, o per favorire un inconsiderabile interesse comico.
Non dovrei credere che in tali circostanze il Succhi abbia detto quant’Ella dice di sapere, cioè ch’egli è per dipendere dalla mia volontá per sospendere la commedia, e tuttavia non fo il torto a lei di non credere ch’egli abbia ciò detto.
Forse l’averá detto al degno signor Carlo Maffei qui presente di cui è spesso commensale e da cui riceve continui favori, o ad altra persona giustamente compassionevole del di lei caso afflittivo, e l’avrá detto da comico sopiattone, per nascondere la sua pelle di lupo con quella d’un agnello da me dipendente. Conosco molto piú di lei l’arte istrionica, ch’è quella di coprire i propri errori colla camicia degli altri per cattivarsi il favore in generale del pubblico a diritto ed a torto.
Se è vero quant’Ella mi dice che il Sacchi ha espresso, conscio egli di tutte le sopraffazioni e raggiri usati per spogliarmi di facoltá sulla mia commedia, confesso che quest’ultima è una delle piú nere azioni che potesse usarmi. È però capace d’averla usata. Egli vede benissimo ch’io non posso piú far agire la mia volontá in questo argomento e però esibisce un impossibile che nulla gli costa. L’unica sua intenzione è quella d’avere domani a sera il suo teatro affollato e la cassetta pinza di danaio, e perisca il mondo.
Veramente riflettendo alle cose nate e agli ordini posti da’ tribunali, non solo mi vedo spogliato interamente dalla facoltá ch’Ella pretende di volere in me, ma credo anche il capocomico privo di facoltá.
Doverei infuriare sulle instancabili lorde arti di quel comico, ma io mi sono formato un sistema di non degnarmi di ricevere offese dalle sporche e furbe direzioni d’alcuni commedianti. O bisogna non praticarli, o ridere e passar sopravia alle offese e alle ingratitudini infinite che si ricevono, per non aver de’ motivi di precipitare e di divenire la favola del paese ogni terzo giorno. Condanno me d’essermi immerso a proteggere, a sostenere e a praticare famigliarmente per divertimento una compagnia comica mascolina e femminina, e condanno lei d’essersi imbarazzato in alcuni ragazzeschi puntigli non degni delle gravi ispezioni ch’Ella sostiene, e della inscienza sua sul carattere di quel ceto maschile e muliebre.
— Queste sono tutte cose inconcludenti — disse il mio ragionatore infiammato. — In forza del mio ragionamento Ella può e deve sbandire per domani e per sempre dal teatro la sua commedia. Perdio! sono un uomo ben nato, un uomo d’onore, e salvo della galanteria, null’altro si può imputare al mio carattere, né devo soffrire l’ingiuria che mi si fa.
Credo di non essere in necessitá di spiegare al mio lettore qual significato abbia oggidí il vocabolo «galanteria», né di dimostrare quante dissensioni, quante sciagure, quanti disordini, quanti abbandoni a’ propri doveri e quante nimicizie cagioni nella societá, ne’ coniugati e nelle famiglie il significato abusivo dato da’ filosofi del secolo al vocabolo «galanteria».
Avrei dovuto riscaldarmi dell’aria di prepotenza che prendeva il Gratarol nel mio proprio albergo e averei dovuto dirgli: — Voi siete un miserabile impazzito: uscite dalla mia casa! — Guardai il povero Maffei non meno sacrificato di me in quel colloquio: ebbi pietá della sua effigie mortificata. Mi raffrenai ripigliando il mio discorso dicendo:
— Ho detto iersera al signor Carlo Maffei che se mai rilevasse che nel colloquio da lei desiderato Ella intendesse di venire a chiedermi ciò che ora mi chiede, si dispensasse da conciliare colloqui, e gli ho detti tutti gli ordini de’ tribunali e tutte le ragioni legittime che mi spogliavano d’ogni facoltá sulla commedia odiosa a lei e forse piú odiosa a me. Rimango sorpreso che appunto le di lei pretese sieno quelle che per tutte le mie dimostrazioni e dichiarazioni doveva io avere certezza di non udire.
Oltre a tutti gli argini che mi si oppongono e che ho ingenuamente esposti, Ella m’ha dato un cenno di volo d’aver fatto un ricorso per tal sospensione (ed io indovino a qual supremo tribunale), che il suo ricorso fu rifiutato e che le «furono chiuse le porte in faccia per ogni dove». Dopo un cosí rimarcabile rifiuto Ella è corsa a far cadere fintamente dalla scala una comica per cozzare anche con quel rispettabile rifiuto; e poscia s’introduce da me e pretende contro ogni mia possibilitá un istrumento che puntelli de’ sutterfugi inconsiderati, disperati e violenti?
A me non conviene il giudicare se dovesse o non dovesse essere rifiutato il suo ricorso. La compiango. Vedo degli arcani ch’io non so interpretare e che raddoppiano a me gli argini d’opposizione alla sua ideata pretesa ch’io «posso» e ch’io «devo» fermar la commedia e sbandirla. La commedia non è piú mia: ella ritorna in iscena per un risoluto comando de’ capi dell’Eccelso. Io rispetto i tribunali ch’io venero, né sono uno stolto dal credere in me quella facoltá ch’Ella vuole ch’io abbia a forza e con una nuova violenza.
— Inezie, inezie — rispose il mio ragionatore con viso sprezzante. — Queste sono coglionerie indegne d’essere dette da lei e ascoltate da me. Ella può e deve sbandir dal teatro la commedia per sempre.
— Inezie! — diss’io quasi abbandonato dalla pazienza a cui mi teneva stretto il riflesso al povero amico Maffei ch’io vedeva confuso e mortificato. — La prego, signore, a procurarsi alcun poco di tranquillitá all’animo e ad ascoltare un mio progetto, suggeritomi dall’intima compassione ch’io sento della sua disgrazia e dalla considerazione che ho per l’amico Maffei che m’ha proccurato il piacere della sua visita. Il progetto a me sembra il migliore e non impossibile da eseguirsi. In obbedienza agli ordini de’ tribunali vada in iscena quella commedia domani a sera.
A queste parole il furente ragionatore volle alzarsi dalla sedia procelloso. Il Maffei agitato lo trattenne a forza sulla sedia dicendogli: — Ascolti, ascolti; la prego. — Io chiusi gli occhi, strinsi i denti e seguitai a esporre il mio progetto con quel poco di calma che mi restava.
Progettai di tentare con tutti i possibili sforzi di ottenere che recitata la commedia la sera de’ diciassette in obbedienza de’ tribunali e delle promesse fatte al pubblico, fosse sospesa e sbandita per sempre dal teatro.
Progettai d’essere con lui quella sera ad ascoltare la commedia in un palchetto proscenio in vista a tutti gli spettatori ch’io prevedeva affollati. Proccurai di fargli conoscere che ciò averebbe cagionato un rovescio d’opinioni nel pubblico.
L’assicurai che essendo con lui in atto amichevole e scherzevole ad ascoltare quella commedia, l’averei disingannato in tutti que’ tratti satirici sul costume ch’egli m’accennasse e ch’egli aveva adottati come diretti a lui solo, imbevuto d’un sospetto di mala impressione, e che gli averei provato con evidenza che non erano che tratti satirici generalissimi.
Gli dissi che aveva scritti ventiquattro cattivi versi in forma di prologhetto, diretti al pubblico, che averei fatti licenziare e stampare tra quella giornata e la notte vegnente e donare alla porta del teatro a tutti quelli ch’entrassero alla commedia, ch’io proccurerei che fosse l’ultima recita. Gli ho esibito di leggerli cotesto prologhetto, per cancellare o per aggiungere entro a’ limiti della convenienza tutto ciò ch’egli mi suggerisse.
Il mio ragionatore volle alzarsi nuovamente dalla sedia con dell’impeto sprezzatore. Lo sbigottito e imbrogliato Maffei lo tenne fermo con le solite parole: — Ascolti, ascolti, ascolti.
Io non poteva piú reggere con quel frenetico, e tuttavia gli lessi il prologhetto esibito. Eccolo di stile popolare.
Al rispettabile pubblico di Venezia
CARLO GOZZI
Questo innocente dramma che la grazia
vinse de’ vostri generosi applausi,
veneti liberali, alle preghiere,
replicate preghiere ed efficaci
dell’autor che lo scrisse, or vien sospeso.
Egli non sa per quali eventi o come,
ne’ caratteri vari e negli attori
di quest’opera semplice, ch’ei trasse
da Tirso de Molina autore ispano
e dell’itale scene al gusto addusse,
scorga alcun falsi aneddoti e persone
viventi, amiche e allo scrittor dilette.
I maligni discorsi e perniziosi
alla sua penna ingenua ed incapace
d’insidie a nomi rispettati, mosso
l’hanno a pregar che tronco il corso sia
alle Droghe d’amor, ch’ei diè ad esporre
per dar diletto e non per fare offese.
Grazie cordiali ei rende al suo cortese
pubblico eletto che un tal dramma accolse
coll’onor de’ suoi plausi, e gli promette
d’altri argomenti opre novelle, e giura
che il divertir la patria e il possedere
il cor di questa è l’unico suo scopo.
— Buono, buono — disse il Gratarol rizzandosi con quella impazienza ch’io doveva avere piú di lui; — ma tutto ciò ch’Ella esibisce non è che acqua, acqua ed acqua. Ricuso solennemente i suoi progetti e il suo prologo. Col mio ragionamento convincente le ho provato ch’Ella può e deve impedire domani l’esposizione della sua commedia e sbandirla per sempre.
— Ella s’inganna o finge d’ingannarsi — rispos’io flemmaticamente. — Il suo ragionamento è tardo, fuori di tempo e perciò privo di base.
— La avverto, signore — disse il Gratarol con gli occhi torvi e rivolti ora a me, ora alle muraglie ed ora al terreno, — che se la commedia rientra nel teatro domani a sera, io non curo piú nulla la mia esistenza. Certo, certo — replicò egli col guardo tralunato, — vedrá ch’io non curo piú nulla la mia esistenza.
— Qual razza di matto petulante e sopraffattore m’ha qui condotto il Maffei? — dissi tra me guardando quell’uomo dabbene, pallido e che mi faceva pietá. Mi levai da sedere e con animo riposato dissi al mio delirante ragionatore: — Ebbene, signore, lascio dunque da un canto tutti i progetti da me esibiti e da lei rifiutati contro la mia ragionevole aspettazione. Vorrei pure ch’Ella partisse da me persuaso ch’io non le sono che amico. Non posso esibirle che di tentare degli uffizi e delle preghiere perché la commedia non entri nel teatro nemmeno domani a sera. È impossibile ch’io possa impegnarmi di ottenere il suo non meno che mio intento, ma Ella averá ragguaglio sincero degli sforzi efficaci ch’io farò per servirla e perch’Ella si spogli dalla falsa, offensiva e ingiusta opinione che s’è formata di me. La prego di darmi un bacio in segno ch’Ella non parte da me mio nimico. — Seguí questo bacio reciproco, e da quanto ho narrato e narrerò pontualmente, lascio giudicare al mio lettore da qual parte quel bacio sia stato quello di Giuda.
Le mie visite partirono. Averei dovuto respirare, ma il martirio del mio stanco cervello ch’io voleva obbligare e disporre agli uffizi e alle preghiere che aveva promesso di fare e che voleva tentare con tutto lo spirito in favore del Gratarol, e l’angustia del tempo, mi privarono anche di questo respiro.
Questo capitolo è d’un’enorme lunghezza. Se avessi voluto inserire in esso tutta la scorrenza verbosa evacuata dal Gratarol in quel colloquio, il capitolo sarebbe il doppio piú lungo. Ho scritto l’essenziale nella sua puritá. Il Maffei fu buon testimonio.
Chiedo perdono al mio lettore della lunghezza e giuro di non scrivere mai piú un capitolo cosí lungo.