Memorie storiche della città e marchesato di Ceva/Capo V - Aleramo in Ferrania.

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Capo V - Aleramo in Ferrania.

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Capo IV - Origine del marchesato. Capo VI - Diploma di ottone I a favore di Aleramo.
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CAPO V.


Aleramo in Ferrania.



Fioriva l’Abazia di Ferrania nel Medio Evo, dal marchese Bonifacio dotata di ricche possessioni come si dirà in appresso, situata sui confini territoriali di Cairo, di Carcare e dell’Altare in umile solitaria, ma aprica valle, sulla destra di Ferranieta torrente che scaturendo dai monti Apennini al di sopra dell’alture va a metter foce nella Bormida, non molto lungi da quest’Abazìa. Era questa officiata da un competente numero di Cenobiti, chiamati canonici sotto la regola di S. Agostino, e dedicata a Maria Ss. a S. Pietro Apostolo, ed a S. Nicolao; le furono assegnati tutti i beni che possedeva Bonifacio figlio di Tete o Tetone unitamente a un nipote Enrico nella valle di Bormida, et iacent ad locum ubi dicitur Ferrania, et in valle de Rivo plano, quindi la metà di quanto possedevano in Saliceto, un massarizio in Cairo, un altro al Carretto, un altro a Cravesana, ecc., ecc.

Innocenzo IV con bolle delli 27 settembre 1245, confermò a Manfredo Preposto di quest’Abazìa, tutto quanto le era già stato assegnato per concessione dei Pontefici, per elargizione di re e di principi, o per oblazioni di fedeli e possedeva oltre lo stesso luogo di Ferrania:

1° La villa del Carretto colla chiesa di S. Martino; 2° la villa di Calissano con tre sue chiese; 3° metà della villa di Salicetto con una chiesa; 4° metà della villa de Mallis con una chiesa; 5° due chiese nel luogo di Grisiano; 6° la chiesa di S. Giovanni di Montemagno; 7° la chiesa di S. Biestro; [p. 31 modifica]8° la chiesa di Noce grossa; 9° la chiesa di Cella nova; 10. la chiesa di S. Pietro in gradu; 11. la Pieve di S. Maria in Cornaletto; 12 la Pieve de Doliano; 13 la Pieve di S. Giovanni di Monforte; 14; la pieve di S. Pietro de Insula con due chiese; 15. la chiesa di S. Sisto di Calossio; 16. la chiesa di S. Stefano colle decime; 17. la chiesa di S. Maria de Fornellis, con tutti i suoi redditi e possessioni; 18. la Pieve di S. Pietro di Moncalvo con tre cappelle; 19. la chiesa di S. Giuliano d’Alba; 20. la chiesa di S. Maria de Spinettis; 21. la chiesa di S. Saturnino di Savona; 22 la chiesa di S. Michele di Alpesella; 23. la chiesa di S. Maria d’Alessandria, e quella di S. Maurizio nello stesso luogo con tutte le sue possessioni; 24 finalmente l’ospedale di S. Spirito d’Alba con quanto gli apparteneva: «Cum omnibus praedictarum ecclesiarum, villarum, et plebarum possessionibus et pertinentiis, sicut ea iuste ac pacifice possidetis, etc.» (Bui. Inn. IX). Un prezioso monumento d’antichità di questa celebre Abazìa si scoperse nella celebre lapide già descritta da Francesco Sansovino nel 1500, ed illustrata dall’abate Sclavo di Lesegno il quale ne fornì oggetto di ben estesa, elaborata ed erudita dissertazione, che pubblicò in Mondovì nel 1790, coi tipi di Gius. Andrea Rossi.

Questa lapide scritta con bizzarro intreccio di carattere è del tenore seguente:

Hac recubant fossa matris venerabilis ossa
Cuius erat patulum vita boni speculum
Haec Pictavorum comitum stirps nobiliorum
Pulchra fuit specie nurus Adalasiae
Defunctoque viro multo post ordine miro
Mundum deseruit bicque sepulta fuit.


Vale a dire

Riposano in questa fossa l’ossa d’una venerabil madre, la di cui vita era specchio a tutti, palese di buoni costumi. Fu questa di stirpe dei nobili conti di Poitou, avvenente d’aspetto, [p. 32 modifica]fu nuora d’Adalasia. Morto il marito e dopo mirabili vicende, ossia ordine meraviglioso di cose, abbandonò il mondo e fu qui sepolta.

Il nobile Pietro Giuria elegante scrittore d’elevati sentimenti, di cuor gentile e di mente colta, visitando Ferrania e leggendo su questa lapide il nome di Àllasia o Adelasia concepì l’idea della sua interessante leggenda sulle avventure di Aleramo ed Adelasia che si legge nelle tradizioni italiane stampate in Torino dal Fontana nel 1846.

«Quando i primi soffii invernali, egli dice, scuotono le ultime frondi degli alberi, e la natura iscolorita conserva tuttavia una soave bellezza, quasi vedova che deposto ogni ornamento si fa bella del suo dolore, in quella stagione dell’anno così malinconica, che la religione con pio e gentile accorgimento consacrar volle alla ricordanza dei morti, visitai la chiesuola di Ferrania e i selvaggi burroni di Montenotte dove le Aquile di Napoleone conobbero le proprie forze, e si ammaestrarono a più largo volo. Si veggono ancora tra la ricca vegetazione silvestre che riprese i suoi diritti gli avanzi delle trincee, dei ridotti, dove migliaia d’uomini si urtarono con tanta furia, e dove il giovane pastorello mena adesso la sua greggia, e scopre talvolta tra i sassi e le boscaglie, ossa umane, elmi irruginiti, spade infrante. Quante vedove, quante madri aspettarono a lungo mariti e figli che or giacciono in queste glebe, o in fondo di quei burroni travolti dall’acque montane battuti da vento.

Qui si scontrarono la prima volta senza conoscersi, e qui senza odio si trucidarono.»

Finge il signor Giuria di essere sorpreso ’da un temporale in quella valle e costretto a ricoverarsi nell’umile casolare d’un contadino venerando per canizie, e per semplicità di costumi, che introduce a narrar le avventure d’Aleramo e d’Adelasia di cui si dà il seguente riassunto.

La corte di Ottone il Grande Imperatore s’ornava a festa; [p. 33 modifica]caccie, tornei, canti di menestrelli, e tutto ciò che l’età di mezzo aveva di più poetico e di più splendido andava a gara per celebrare le imminenti nozze di Adelasia.

Questa principessa assisteva alle danze ed agli spettacoli, come altri assisterebbe ai preparativi dei proprii funerali. L’amore irresistibile concepito per Aleramo la rendeva indifferente a tutti i tripudii della corte paterna, ed invidiava la sorte della più umile villanella.

Ottone intanto le propone il progettato matrimonio. Se le prostra ai piedi Adelasia, protesta di non poter aderire ai suoi disegni, per non contaminare con uno spergiuro dinanzi a Dio, la coscienza propria, ed il real sangue d’Ottone.

Sdegnato il padre per una tal protesta, le lascia la scelta o d’un monastero o della mano del propostole sposo. Sceglie Adelasia il monastero. Viene da Ottone fatta accompagnar alla porla d’uno dei più solitarii chiostri della Germania.

Si trovò modo d’intendersi dai due amanti per la fuga da quel monastero. Nel più buio d’una notte mentre le monache andavano in coro a recitar l’uffizio, per la parte del cimitero se ne uscì Adelasia. L’aspettava ansiosa Aleramo, che presala in groppa sul suo cavallo si diede fra quelle folte boscaglie a precipitosa fuga temendo di venire sorpreso dalle guardie d’Ottone che ne andavano in cerca. Sul far della notte s’abbattono in una chiesuola eremitica e solitaria, cercarono ospitalità presso il vecchio romito che erasi colà ritirato dal mondo.

Era questo Igildo valoroso capitano d’Ottone. Riconobbe Aleramo da lui ammaestrato nell’armi, sentì con stupore la sua fuga con Adelasia dalla corte Imperiale. Loro fece le più amorevoli accoglienze, ed accompagnatili nell’umile sua chiesuola benedisse il loro matrimonio, e vestito Aleramo da pellegrino ed Adelasia da semplice contadinella, licenziolli nel Signore, ed essi traversata la Germania e la Lombardia vennero a rifuggirsi nei boschi di Ferrania, dove Aleramo [p. 34 modifica]esercitò il mestiere di legnaiuolo, ed Adelasia di ricamatrice onde guadagnarsi il pane.

Ivi ad alcuni anni vennero infestati dai Saraceni i paesi di Liguria e fortificatisi in Frassinetto spargevano il terrore e le rapine per tutto il Piemonte, minacciando d’invadere tutta l’Italia.

Fu chiamato ad opporsi al minacciato terrore l’Imperatore Ottone, il quale alla testa di poderoso esercito calò in Italia e s’avviò verso la Liguria dove maggiormente imperversava la ferocia dei Saraceni.

Il romito Igildo supplicò ed ottenne di servire nell’armata d’Ottone in qualità di Cappellano.

Adelasia che già era madre di parecchi figli, al sentir la calata di suo Padre in Italia concertò con Aleramo in cui si ravvivò l’antico spirito marziale, di cingere d’elmo e di spada il suo primogenito Arrigo, e di spedirlo sotto le insegne imperiali.

All’indomani il giovine Arrigo (così chiamato dal Giuria), benedetto dai parenti, superbo della spada di suo padre, colla nobile confidenza della giovinezza, s’avviava all’esercito d’Ottone, per domandargli ciò che l’esercito accorda sempre ai generosi, asilo e gloria.

Non tardarono ad incontrarsi le schiere Imperiali colle orde barbariche dei Saraceni. Seguì una sanguinosa battaglia che si protrasse a notte avanzata. Il buon romito Igildo scorre il campo a dar soccorso ai moribondi guerrieri. Il lume della sua lanterna s’abbatte in un pallido volto d’aria nobile e gentile che tutti ne copiava i lineamenti d’Adelasia. Era Arrigo che frenava a stento l’impeto del sangue che gli sgorgava dalla ferita che riportò nella mischia, facendo prodigi di valore. Ne prese Igildo cura particolare, ed ebbe campo ad accertarsi essere questi figlio di Aleramo e di Adelasia, e si fece indicare il soggiorno dei suoi genitori. S’incaricò Igildo di farlo conoscere all’Imperatore, il quale fuori di sé per l’immensa gioia che provò nel sentir [p. 35 modifica]ancor viva quella figlia che per tanti anni pianse perduta, spedì tosto il buon romito col figlio riavuto dalla ferita, e con due scudieri a Ferrania perchè fosse Adelasia con Aleramo ricondotta nelle braccia paterne. Fu riammessa alla grazia del Genitore ed agli splendori della corte e furono ricolmi d’onori e di richezze Aleramo e i suoi figliuoli 1.

Note

  1. Alcuni vogliono che Adelasia ed Aleramo si rifuggissero nelle colline del Monferrato; Davide Bertolotti stabilisce la dimora dei fuggitivi presso Lingueglia tra le colline d’Alassio o Alessi, così denominato da Alasia. Gli abitanti di Garessio come altrove si notò, pretendono che i fuggitivi Aleramo ed Adelasia siansi ricoverati su Galera e nella spelonca da essi detta pietra Degna, avvece di pietra Ardena descritta dall’Astesano. Parlarono di quest’avventura il Loschi, Compendii stoirici, l’Armanno, Lettere, il Monti istoriografo di Savona ed il conte Federico Sclopis, Dell’antica Legislazione del Piemonte. Anche gli abitanti d’Ormea pretendono che Aleramo ed Adelasia siansi ricoverati nei loro monti. Si narra che quel territorio fu invaso dai Saraceni nel secolo XI. Il loro capo scelse per sua dimora uno speco di forma semicircolare alto palmi 133, e largo 385 diviso in due piani, chiamato lo speco delle roccie, posto in vista di Cantarana, e denominato tuttora la Balma del Messere.

    Si vuole che quest’alta e solitaria caverna abbia servito di ricovero ai fuggitivi sposi Aleramo ed Adelasia.