Misteri di polizia/VI. Le Sette - I Carbonari

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VI. Le Sette — I Carbonari

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CAPITOLO VI.

Le Sètte — I Carbonari.

Nei governi assoluti, il potere politico non comprime che i corpi. È ad un altro potere che obbediscono gli spiriti vogliosi di progresso e di novità — due sentimenti che nè le baionette, nè le spie, nè le galere, nè le forche, nè infine tutta la macchina complicata d’un governo poggiato sul diritto divino, sono mai arrivati a spegnere. E questo secondo potere, che non ha paura nè dei ministri che rispondevano al nome di Metternich, o di Canosa, o di Del Carretto, nè s’arresta dinanzi a quei drammi pietosi che nella nostra Italia hanno portato, volta a volta, i nomi dei prigionieri dei Piombi di Venezia o delle segrete dello Spielberg, delle fosse delle isole di Favignana e di Nisida, o dei martiri spirati sulle forche del duca di Modena o sotto le palle dei picchetti d’esecuzione dell’imperatore d’Austria o del re di Napoli — questo potere che ha un martirologio come quello dei cristiani delle catacombe, questo potere a cui s’obbediva ciecamente, come se la voce non uscisse dai segreti conciliaboli d’uomini oscuri e perseguitati, ma fosse rivestita del prestigio che dà la vittoria e la consacrazione della legge, questo potere, diciamo, erano le sètte.

Cesare Balbo si gloriava di non aver mai fatto parte in vita sua d’una società segreta qualsiasi; e prima di lui Ugo Foscolo aveva scritto che le sètte avevano disfatta l’Italia e per rifarla bisognava sterminarle. Proposizioni tanto l’una quanto l’altra commendevoli sino a un certo punto. Imperocchè, non occorreva, certamente, nei tempi delle signorie assolute, essere carbonaro o mazziniano per amare la libertà e l’indipendenza d’Italia: anche fuori delle [p. 36 modifica]sètte, sopratutto colle opere dell’ingegno, come fece per l’appunto il Balbo, si poteva contribuire al bene e alla prosperità della patria. Giammai concetto più patriottico, più conforme alla storia fu espresso di quello enunciato dal cantore dei Sepolcri. Furono i partiti che divisero sempre l’Italia, rendendola, colle loro perpetue e sciagurate scissure, facile preda di tiranni interni e stranieri. Ma la cospirazione degli oppressi contro l’oppressore; la congiura di chi soffre contro chi conculca; la sètta che nell’ombra del mistero propaga il concetto di patria, di libertà, d’indipendenza; il settario che, anche a rischio di lasciare la propria testa sul patibolo, insegna al popolo l’odio contro lo straniero, a scuotere dal sonno i neghittosi, a bollare sulla fronte col marchio dell’infamia i rinnegati — ; ecco ciò che ha dato anima e corpo all’Italia d’oggi! — Queste cospirazioni, queste congiure, queste sètte, questi sèttarii, questi amori profondi che non s’arrestavano davanti a nessun pericolo, questi odii che accompagnavano il nemico sino alla tomba, che sopravvivevano talvolta alla stessa tomba, furono i prodromi, furono i fattori della libertà e dell’indipendenza d’Italia. Senza queste congiure, che a Cesare Balbo facevano tanto raccapriccio, l’autore delle Speranze d’Italia non avrebbe potuto scrivere e pubblicare, colla tolleranza non dissimulata di Carlo Alberto, antico carbonaro, il suo libro famoso, nè controfirmare, nella sua qualità di ministro, lo Statuto che il profugo del 1821, con lealtà di principe ed affetto di padre dava ai suoi sudditi; senza queste sètte contro cui imprecava Ugo Foscolo, le ceneri dell’autore di Jacopo Ortis riposerebbero ancora in terra straniera. Ed oggi Umberto I non potrebbe chiamare Roma capitale d’Italia, non potrebbe chiamare la vecchia città dei papi conquista intangibile, se Giuseppe Mazzini col suo apostolato di quasi trent’anni, un apostolato che contò tra le sue fila tutti o quasi tutti coloro che noi abbiamo salutato campioni della resurrezione d’Italia, di questo cadavere tre volte secolare, se Giuseppe Mazzini, diciamo, non avesse diffuso in ogni classe di cittadini il concetto d'unità; un concetto ai più parve sogno, un [p. 37 modifica]delirio di menti inferme, ma che oggi forma la base del nostro diritto pubblico interno!

Non gettiamo il disprezzo, non versiamo a piene mani l’oblìo su coloro che amarono l’Italia, quando l’Italia non si poteva amare che nelle sètte, e a rischio della propria vita. Noi che abbiamo raccolto il frutto delle loro sofferenze, dei loro martirii, inchiniamoci dinanzi alle loro ombre sacrosante. Quasi tutti portano sul loro corpo le impronte del martirio!



Caduto, nel 1814, il reggimento napoleonico, l’Italia incominciò ad essere solcata dalla sètta dei Carbonari, formatasi su quella cosmopolita della massoneria. Carbonaro significava non solo liberale, ma anche unitario; concetto che per un momento parve che volesse passare nell’ordine dei fatti coll’impresa tentata in quei giorni da re Gioacchino Murat e cantata da Alessandro Manzoni nel frammento: Il Proclama di Rimini e da un anonimo con una poesia1 dalla quale stralciamo le seguenti strofe, che probabilmente non dovettero passare inosservate a colui, che sei anni più tardi scriveva l’inno famoso: Soffermati sull’arida spondaVolti i guardi al varcato Ticino ec.


Sorgi Italia, venuta è già l’ora;
     L’alto fato adempir si dovrà.
     Dallo stretto di Scilla alla Dora
     Un sol regno l’Italia sarà.

A sfrondar nostri bellici allori
     Man superba non più tenterà;
     Nè strapparci le mèssi, i tesori
     Che feconda la terra ci dà.

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Più non s’oda barbarico grido
     Risonar per le nostre città;
     Torni pure all’antico suo nido
     Chi d’Italia il linguaggio non ha.

Queste liete e beate contrade
     Piè straniero non più calcherà;
     Non gli sposi alle spose adorate,
     Non i figli il crudel rapirà.


Ma i recenti rivolgimenti avevano fatto di troppo sentire ai Toscani il bisogno del quieto vivere, perchè accogliessero con simpatia il movimento unitario di cui s’era fatto campione re Gioacchino, senza tener conto del vecchio spirito d’autonomia allora vivissimo in molti e che impediva loro d’accettare un programma, che avrebbe ridotto le capitali dei singoli Stati italiani alle condizioni di un semplice capoluogo di provincia. Lo stesso generale Pignatelli-Strongoli, che comandava il corpo di occupazione in Toscana e che i momenti non consacrati a Marte dedicava alla galanteria, facendo la corte alla bellissima contessa Eleonora Nencini (la suonatrice d’arpa delle Grazie del Foscolo), non seppe coi suoi proclami unitarii destare l’entusiasmo dei Toscani per una causa, che il popolo guardava con occhio indifferente. Sul proclama che diceva: „Toscani, mentre il generale Nugent, straniero al suolo d’Italia, attraversava la Toscana con un corpo di stranieri, un corpo di napoletani vi passava per un’altra strada....„ un anonimo scrisse: „Signor generale Pignatelli, nessuno è più straniero all’Italia del vostro preteso Re e dei vostri capi d’armata. Viva Ferdinando III!„2 [p. 39 modifica]

La Carboneria non venne regolarmente impiantata in Firenze che nel 1821, da Bartolommeo Sestini, l’autore del poemetto: Pia dei Tolomei, di ritorno da un suo viaggio in Sicilia, ove era stato iniziato ai misteri della sètta. I primi passi della segreta istituzione non restarono sconosciuti alla Polizia, la quale, peraltro, non vi prestò che una mediocre attenzione non credendo la Toscana terreno adatto ad attecchirvi sètte e settarii. In un rapporto del 24 febbraio 1821, l’ispettore di polizia indica i nomi dei membri dell’associazione. Parla d’un Renzi, d’un Niccolini, d’un Giusti, d’un Callaini (Lorenzo), d’un Montelatici, del priore del convento di Santa Croce. In un altro rapporto parla d’un canonico Salvagnoli, d’Empoli, d’un Valdangoli, impiegato, di Francesco Benedetti, autore di tragedie non ispregevoli. Ma incalzando gli avvenimenti nel resto d’Italia, dove la Carboneria era uscita dall’ombra per farsi rivoluzione, la polizia aprì gli occhi. Nel marzo di quell’anno, si supponeva che nella sola città di Firenze i carbonari giungessero ad un dugento, divisi in sei sezioni, e in relazione con Livorno, Empoli, Pontedera, Lucca, Prato, Pistoia, Pescia, Arezzo, Cortona, Perugia. Si diceva che fossero stati aggregati alla sètta, nella qualità di cugini, l’avvocato Capoquadri, l’avvocato Tosi, il dottor Parigi e il prete Marcucci. Con un rapporto del 13 dello stesso mese, si riferiva che si credeva che vi fosse stato aggregato anche il marchese Gino Capponi, allora di ritorno da un viaggio d’istruzione all’estero. Un servizio di spionaggio fu organizzato nell’esercito sotto la direzione dello stesso comandante supremo, e, a Firenze, codesto servizio fu fatto dal maggiore Antonio Pini, che dirigeva i suoi rapporti segreti al colonnello Fortini. I delatori volontari non mancavano. Si sentiva che il vento tirava favorevole alle spie e quindi fioccavano da tutte le parti le denunzie. Si denunziava come carbonaro il letterato Niccolini, segretario dell’Accademia di Belle Arti, Andrea Calbo, amico d’Ugo Foscolo, il poeta Sestini, di Pistoia. Altri delatori denunziavano il marchese Carlo Pucci, il marchese Pietro Torrigiani, di nuovo il marchese Gino Capponi, il poeta Luigi Leoni, il capo-comico Luigi Taddei. [p. 40 modifica]

Il Governo non poteva stare colle mani alla cintola. Il Fossombroni, per quanto fosse della scuola del Richelieu, che diceva: Aprés moi, le déluge, non poteva permettere che le cateratte del cielo si schiudessero durante la sua vita. E che volessero schiudersi prima che egli chiudesse gli occhi alla luce, lo dicevano i rivolgimenti del Piemonte e di Napoli, e l’agitazione settaria che metteva in quei giorni sottosopra tutta l’Italia. Laonde pensò che una stretta al morso non sarebbe stata fuori di luogo, ed in questo senso operò, ma senza discostarsi di troppo dal suo prediletto sistema: stringere il morso sì, ma senza far molto gridare le vittime; sopratutto senza trasformare queste in martiri. Politica, che come ognuno può vedere, lo stesso Machiavelli avrebbe anche fatto sua.

Furono fatti degli arresti ed iniziate delle processure economiche perchè meno chiassose, e ciò sempre in omaggio al programma del segretario di Stato; e lasciati in disparte i settari collocati troppo in alto, perchè il procedere della polizia non destasse un vespaio, che difficilmente poi si sarebbe potuto spegnere, o limitare, il presidente del Buon Governo, il Puccini, potè avere sotto gli occhi, nei primi giorni dell’aprile, i risultati ottenuti dal lavoro inquisitorio dei tribunali economici, e compendiati dalla stessa Polizia nel seguente quadro:

SOCIETÀ DEI CARBONARI

Capi Maestri.

1. Orsini Andrea, d’Imola, scrivano, agente di beni. È uno dei capi e dei primi introduttori della Carboneria in Firenze. Fu rilasciato e reso nell’estate del 1820 al Governo Pontificio, a richiesta del quale fu arrestato nella Romagna Toscana.

2. Voltangoli Dott. Giuseppe, conservatore delle Ipoteche a Montepulciano.

3. Sestini Bartolomeo, da Pistoia, poeta estemporaneo. [p. 41 modifica]È uno dei capi e dei primi introduttori in Firenze della Carboneria. Pende mandato d’arresto.

4. Lucchini Zanobi, di Cortona, professore di geografia. Fu arrestato, poi mandato per quattro mesi a Volterra. Figura come maestro reggente una sezione.

5. Rossi Pasquale, di Firenze, maestro di lingua italiana. È confesso. È sotto rigorosa vigilanza.

6. Benedetti Francesco, di Cortona, poeta tragico. Era stato citato per mezzo del Tribunale di Cortona dove lo si diceva trasferito, quando si seppe invece essersi ammazzato in una osteria fuori Pistoia.

7. Reinard Carlo, di Firenze, orologiaro. È confesso.

8. Tilli Dott. Nicola, di Livorno, causidico, notaro in Firenze. È confesso con qualche ingenuità e pentimento.

9. Renzi Sac. Antonio, di Figline. È confesso con molta ingenuità e pentimento. Ha somministrato notizie molto utili. Ha sofferto pochi giorni di carcere e un mese di ritiro in convento. Ora è in libertà.

10. Cortini Carlo, di Firenze, praticante legale. È confesso con qualche ingenuità e pentimento. Rimesso al padre per vigilarlo.

11. Dell’Hoste Avv. Antonio, di Pisa, dapprima fu costantemente negativo, poi confessò con qualche ingenuità. Soffrì qualche mese di carcere.

12. Stefanini Dott. Girolamo, di Cascina, praticante legale. È confesso con qualche ingenuità, e pentimento. Rimandato al padre per sorvegliarlo.

13. Fedeli Vincenzo, sergente maggiore, guarda-coste. È confesso con ingenuità e pentimento.

14. Venturi Dott. Giovanni-Antonio. Confesso, ma non con molta ingenuità.

15. Leoni Dott. Luigi, è confesso.

16. Calbo Andrea, greco del Zante; è negativo. Gli si è dato lo sfratto dallo Stato.

17. Bartolini Giuseppe, di Rimini. Negativo. Gli si è dato lo sfratto.

18. Gherardi Giuseppe, medico-chirurgo nell’esercito. È negativo. [p. 42 modifica]

19. Micciarelli Conte Giuseppe, da Sinigaglia. Sfrattato. —

Fra gli apprendisti figuravano:

Galliani dott. Giovanni, di Lastra a Signa; Salvagnoli Can. Giuseppe, d’Empoli; Casanova dott. Orazio; Banti dott. Giuseppe, di Francesco; Grossi Benedetto; Finali dott. Antonio; Pozzolini Giovanni, d’Empoli; Serragli dott. Francesco, legale; Formichi dott. Luigi, di Cascina; Pampaloni dott. Luigi; Bianchini dott. Lorenzo; Santi dott. Tullio, di Montalcino; Cusseri dott. Aldobrando, di Foiano; Vannucci dott. Giuseppe, di Foiano; Donati dott. Pietro, di Pisa; Sestini dott. Pietro; Pompucci Giuseppe, locandiere dei Tre Mori; Pecci Alessandro, di S. Giovanni Valdarno; Renzi sac. Giovanni, Montanelli Francesco, studente in legge, di Fucecchio. Gravemente indiziati di appartenere alla setta risultavano il marchese Pietro Torrigiani e il marchese Gino Capponi.

Come si vede, quasi tutti i principali Compromessi, posti in carcere, non ebbero il coraggio d’affrontare il martirio; magari, come era supponibile, il martirio si presentasse sotto la forma d’una breve relegazione a Volterra o a Grosseto, di qualche mese d’esercizi spirituali in un convento di frati. Quasi tutti confessarono, mostrandosi, chi più chi meno, pentiti; qualcuno fece rivelazioni importanti. Se non erano dei Giuda, erano dei cospiratori da operetta comica. E il Puccini, che conosceva i suoi polli, e che da gente siffatta non s’aspettava nè barricate nè eroismi, il 3 aprile 1821, in una particolareggiata relazione al Granduca, dopo d’aver fatto la storia dell’introduzione e della diffusione della Carboneria in Toscana e delle misure prese dal suo dipartimento per arrestare i progressi del male; e detto come la rivoluzione di Napoli avesse quivi infiammato gli animi ed esaltato le menti; e i giornali di quella città, specie la Minerca, un numero della quale passava per le mani di cento, tenessero acceso quel fuoco; e come la Polizia, messa sull’avviso, avesse scoperto i primi semi del male ed adoperato [p. 43 modifica] accortezza e zelo perchè non si diffondessero, soggiungeva d’esser lieto di constatare come la sètta non avesse fatto che dei guasti assai superficiali. L’esercito era rimasto quasi immune dalla lue rivoluzionaria, mentre le misure adottate a tale riguardo s’erano limitate a destituire un tenente, un certo Baldini, perchè sospetto di far parte d’una vendita; misura che, presa a tempo, fece capire ai cugini come il governo non dormisse. Qualche altra misura d’indole economica fu presa, sempre allo scopo di sradicare, o per lo meno, d’arrestare ed isolare il male: parecchi giovani praticanti legali furono rinviati ai genitori perchè li sorvegliassero; alcuni stranieri vennero sfrattati; altri furono chiamati dallo stesso presidente del Buon Governo, il quale, fatta loro una seria paternale, ebbe da essi promessa che non si sarebbero più immischiati di politica; infine, si arrestò un prete e un avvocato, i quali fecero importanti rivelazioni. Misure certamente miti, paterne, come portava l’indole dello stesso governo: e non pertanto esse, nei più, incussero una salutare paura. La sètta rimase sconcertata; i buoni ripresero animo. Ma il pentimento dimostrato dagli affiliati al Puccini non pareva sempre sincero. Il fumo covava sotto le ceneri. Intanto gli avvenimenti incalzavano nel resto della penisola. Il Piemonte era in fiamme; Napoli era un vulcano; nelle Romagne, nei Ducati non si stava meglio; si iniziarono per mezzo del commissario di Santa Maria Novella delle nuove processure economiche, le quali portarono ad alcuni arresti. Ma dai procedimenti si rivelò subito che se idealmente iniziati erano pochi, i sospetti erano molti ed appartenenti anche a famiglie rispettabilissime. Arrivato a questo punto il Puccini, il quale, checchè ne abbia detto in contrario lo Zobi3, nel suo ufficio di capo della Polizia non portò [p. 44 modifica] nessuna di quelle intemperanze che d’ordinario accompagnano coloro che cambiano casacca e coscienza ad ogni cambiamento di governo, il Puccini, diciamo, arrivato a questo punto della sua relazione, si domandava se fosse il caso di continuare gl’incominciati procedimenti; e sulla considerazione che siffatta via avrebbe aperto l’adito ad un processo clamoroso, ad un processo che avrebbe abbracciato centinaia d’imputati ed immerso nella desolazione un numero considerevole di famiglie, alcune delle quali di distinzione, si era fatta un’altra domanda, cioè, se non fosse il caso, anche in vista che non si trattava che di persone, la cui reità non era provata che in modo assai dubbio per alcuni e per altri in modo veruno, se non fosse il caso, diceva, di troncare il processo e di mettere tutto a dormire. E a siffatta domanda, ove avesse avuto l’assenso di S. A. I. e R. egli, il Puccini, non sarebbe stato alieno di rispondere affermativamente. Un atto di clemenza, un atto di oblìo (soggiungeva egli) avrebbe ridonato la pace a centinaia di famiglie, avrebbe dissipato dalla bella Toscana la nube che in quei giorni ne oscurava il cielo; infine, avrebbe fatto sfolgorare la figura del principe d’una luce di bontà e di giustizia. Nè perciò si sarebbe desistito dalle misure prudenziali; per esempio, la Polizia avrebbe potuto dare a qualcuno il consiglio di viaggiare all’estero, a qualchedun’altro quello di soggiornare in località più tranquilla. A guarire poi radicalmente il paese dal malanno delle sètte, egli proponeva che si provvedesse immediatamente, non con carceri ed esili, ma con buone e chiare leggi informate a temperati sentimenti di progresso. Pensava che una buona legge sull’istruzione pubblica avrebbe tolto il male sin dalle radici. [p. 45 modifica]

Tutto ciò si pensava e si scriveva dal Puccini, quando a pochi passi dal confine toscano i Carbonari s’impiccavano o si mandavano in galera. Nè diversamente di lui opinavano i ministri e lo stesso Granduca; laonde il 21 maggio di quell’anno, il Corsini poteva scrivere al Puccini che S. A. I. e R. aveva deciso, che meno pei militari e per i funzionari civili dello Stato, fossero troncate le processure economiche iniziate contro i sospetti di carbonarismo. Con rescritto posteriore, comunicato dal Corsini al presidente del Buon Governo con biglietto del 27 giugno, S. A. I. e R. ordinava che il precedente provvedimento fosse esteso anche ai funzionari militari e civili, i quali si restituivano, in via d’esperimento, nei loro uffici, nella fiducia che si sarebbero sinceramente ravveduti.

In quei giorni medesimi, Silvio Pellico ed i suoi compagni di sventura giacevano nei Piombi di Venezia: nelle Romagne s’impiccava, e a Napoli un Re, già spergiuro nell’animo, preparava sotto l’apparente osservanza della Costituzione, il canape che il boia doveva stringere intorno alla gola di tanti disgraziati cittadini.



Note

  1. Fu stampata in segreto in foglio volante, a Bologna, coi tipi dei fratelli Masi e comp. e disseminata a migliaia di copie in Toscana. Parecchie di queste conservansi nell’Archivio Segreto.
  2. Nelle Romagne, all’incontro, re Gioacchino era stato accolto come il liberatore d’Italia. Nell’Archivio Segreto si conservano molti proclami di quel tempo e tutti improntati al concetto unitario. II podestà di Faenza, il 31 marzo 1815, esclamava: „Tornano fra noi i valorosi ai quali è duce chi desta l’Italia tutta alla sua legittima indipendenza. Non sono stranieri.... sono fratelli venuti a scioglierci i ceppi onde fummo avvinti per tanti secoli„ Il prefetto di Forlì (1 aprile): „l’Italia sì lungamente straziata da estere genti, appella in oggi i suoi figli a stringersi attorno ad un re che ha spiegato il vessillo dell’indipendenza nazionale.„ In un’altra grida lo stesso prefetto termina dicendo: „Viva Gioacchino! Viva il Re d’Italia„
  3. Fra gli inserti dell’Archivio Segreto del 1846 ne esiste uno che si riferisce precisamente allo Zobi, che il presidente del Buon Governo d’allora, Giovanni Bologna, in una sua nota riservatissima al Pandolfini, console generale di Toscana a Roma, presenta sotto una luce poco favorevole. Non gli nega però nè ingegno, nè coltura: ed aggiungo che avendo avuto dal Governo la concessione di scrivere la Storia Civile della Toscana dal 1737 al 1821, ebbe questa ad interrompere in vista delle delicate e gelose quistioni ch’esso avrebbe dovuto risolvere. Per lo interrotto lavoro, lo Zobi si ebbe seicento scudi. Mutati poi i tempi, lo Zobi continuò e stampò la sua storia portandola fino al 1848, ed arricchendola di preziosi documenti. Ma, come era da prevedersi, se qualche archivio gli venne aperto, quello segreto del Buon Governo restò a lui chiuso.