Naufraghi in porto/Capitolo IX
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IX.
In casa Porru nella «camera dei forestieri», Giovanna rimetteva in ordine certe stoffe acquistate quel giorno a Nuoro. Ella s’era ancor più ingrassata e aveva perduto un po’ della sua aria giovanile, conservandosi però bella e fresca.
Guardava attentamente le tele e le stoffe, svolgendole e palpandole con aria preoccupata, come scontenta della scelta fatta; poi le piegava accuratamente, le avvolgeva nella carta e le metteva dentro una bisaccia.
Erano i preparativi del suo corredo, poichè, ottenuta la separazione legale da Costantino, Giovanna aveva accettato di unirsi con Brontu, il quale prometteva di trovare il modo onde sposarsi religiosamente.
Giovanna e la madre erano venute appositamente a Nuoro per incaricare l’avvocato Porru delle pratiche per un possibile divorzio, e per le compre! Il denaro l’avevano preso in prestito, in segretezza, da zia Anna Rosa Dejas, sorella di Giacobbe, una donnina che voleva molto bene a Giovanna perchè aveva aiutato zia Bachisia ad allattarla.
Era nel cuor dell’inverno; ma le due donne avevano coraggiosamente sfidato la noia del viaggio faticoso per recarsi a Nuoro e provvedersi di tela, panno, fazzoletti, stoffe.
Le nozze dovevano farsi con gran segretezza, peggio che nozze di vedova; ma ciò non importava; zia Bachisia voleva che sua figlia entrasse nella nuova casa provveduta di tutto, come una sposa giovinetta di buona famiglia.
Il paese non finiva di meravigliarsi e dì mormorare per lo scandaloso avvenimento; Giacobbe Dejas, Isidoro Pane, altri amici, non salutavano più le Era: Giacobbe aveva urlato come un cane, minacciando, pregando; ma zia Bachisia l’aveva messo fuor della porta.
Anche zia Porredda, a Nuoro, sebbene suo figlio avesse patrocinato la causa di separazione, accolse le amiche con freddezza: non per questo Giovanna era meno preoccupata per i suoi stracci; ecco, le pareva che nella tela l’avessero un po’ imbrogliata, il fazzoletto di lana a grandi rose cremisi aveva le frangie troppo corte: in un nastro c’era una macchia. Ah, tutto questo era ben grave!
Calava la sera, come l’altra volta, ma le cose intorno, e il tempo e il cuore, tutto era mutato.
La «camera dei forestieri» adesso aveva una bella finestra dai cui vetri penetrava la luce viva e fredda del crepuscolo invernale. I mobili nuovi, ancora odorosi di vernice, luccicavano di uno splendore biancastro; la porta dava sulla loggia coperta, dalla quale una scala nuova, di granito, scendeva all’antico cortile. Tutta la casa era stata rinnovata. Il « Dottore» faceva affari: era ricercatissimo tanto in civile come in penale; le cause più indiavolate, i delinquenti più vili, tutte le persone che maggiormente temevano i codici, s’affidavano a lui.
Giovanna finì di ripiegare, avvolgere, riporre le tele, le stoffe, i fazzoletti: la bisaccia era colma da ambe le parti, e la giovine la sollevò e la scosse perchè i pacchi calassero meglio a fondo. Poi si mosse, seria, le sopracciglia aggrottate; uscì e scese lentamente la scala, ficcando le mani entro due brevi aperture che la sua gonna d’orbace, come tutte le gonne dei costumi sardi, aveva sul davanti, dalla cintola in giù.
La sera di gennaio era limpida, ma freddissima: sul cielo d’un azzurro vitreo qualche stella argentea pareva tremasse di freddo. Attraversando il cortile, Giovanna vide, dietro i vetri illuminati della stanza da pranzo, il viso bianco e gli occhi ardenti di Grazia. La fanciulla teneva in mano un giornale di mode: s’era fatta alta e bella e vestiva secondo l’ultimo figurino. Quando vide l’ospite la salutò con un sorriso, ma non si mosse. Giovanna entrò in cucina: anche la cucina era stata rinnovata: le pareti bianche, i fornelli di mattoni lucidi, una lampada a petrolio pendente dalla volta.
Zia Bachisia non si saziava di guardare intorno, coi suoi occhietti verdi brillanti nel viso giallo d’uccello rapace; ah, lei no, non era cambiata, la vecchia strega, sedeva accanto al fuoco, con la serva, una ragazzaccia poco pulita e scarmigliata, che rideva forte mostrando i denti sporgenti. Zia Porredda cucinava e sgridava la serva per quel suo modo di ridere. Ecco, la padrona cucinava e la serva sedeva accanto al fuoco e rideva. Che volete farci? la brava donna non poteva stare un solo momento in ozio, sebbene ora fosse madre d’un avvocato di grido.
Giovanna sedette lontana dal fuoco, sempre con le mani entro le aperture della gonna.
— Ecco — disse zia Bachisia, con accento d’invidia — questa cucina sembra una sala. Tu dovrai far accomodare così la tua cucina.
— Ah, sì, — ella rispose distratta.
— Anima mia, sì, sicuro! Comare Malthina è avara, ma bisogna che tu le faccia capire che i denari sono fatti per essere spesi. Ecco, una cucina così! È un paradiso, anima mia; questa è la vita!
— Se ella non vorrà spendere, padrona! — disse Giovanna. — I denari sono suoi — E sospirò.
La serva rise ancora, ma zia Porredda, che non voleva immischiarsi nei discorsi delle ospiti, si volse, severa e le impose energicamente di grattare il formaggio per i maccheroni.
— Che hai? — domandò zia Bachisia alla figlia, — perchè questi sospiri?
— Ah, ella ricorda! Non è possibile che non ricordi. Dopo tutto è una cristiana, non è un animale! — pensava zia Porredda.
Giovanna disse con rabbia:
— Ebbene, ecco, ci hanno imbrogliato. La tela non è buona, il panno è macchiato. Ah, quella macchia!
— Anima mia! — esclamò la serva, imitando la voce di zia Bachisia, mentre grattava il formaggio.
Zia Porredda sfogò contro la ragazzaccia tutta la sua ira, tutto l’orrore che le ospiti le destavano: le diede i nomi che avrebbe voluto dare a Giovanna, la chiamò svergognata, vile, miserabile, ingrata, e minacciava di percuoterla con la mestola. Per la paura la servetta si grattò un dito e scosse in alto la mano sanguinante. In quel momento rientrò zoppicando il giovine avvocato, avvolto in un lungo e larghissimo soprabito nero che pareva un mantello con le maniche: il suo piccolo viso roseo e tondo esprimeva una contentezza egoista da bambino lattante.
Domandò subito cosa c’era da mangiare, poi si degnò sedere presso zia Bachisia, e chiacchierò con lei fino all’ora della cena.
Poi rientrò zio Efes Maria col suo faccione di marmo vecchio e le grasse labbra aperte, e volle andar subito a cena: nella stanza da pranzo scintillavano due alte credenze di legno giallo; l’ambiente era discretamente signorile, con corsie sul pavimento, stufa, vasi di fiori: ed egli non rifiniva di guardarsi intorno con compiacenza, mentre zia Porredda vi si moveva a disagio, coi suoi grossi piedi dalle scarpe ferrate.
Come in una sera lontana, ella entrò portando in trionfo i maccheroni fumanti: e tutti sedettero attorno alla mensa ospitale.
Zia Bachisia sedette all’ombra delle larghe maniche di merletto della signorina Grazia, e cominciò a far le sue meraviglie appunto per quelle maniche che parevano ali.
— No, da noi non se ne sono viste mai; già, signore non ce ne sono, da noi. Qui sembrate tutte angeli, le signore...
— O pipistrelli... — disse zio Efes Maria. — Eh, la moda, cari miei! Ecco, una volta, mi ricordo, quando ero bambino, le signore erano grandi e rotonde; sembravano capanne. Ce n’erano poche allora, di signore. La moglie dell’intendente, le dame...
— E poi quella cosa dietro... — interruppe zia Porredda — ah, mi ricordo, pareva una sella. Ebbene, sì, voi non lo credete, in fede mia, ricordo che una volta uno ci si sedette sopra...
— L’ultima volta che venni — disse zia Bachisia queste ali erano piccine. Ora crescono... crescono...
Grazia mangiava e pareva non sentisse nulla.
Il «dottore» mangiava anche lui a due palmenti e guardava la nipote con quella sua aria di bambino beato, sorridente. Disse:
— Crescono, crescono... Fra poco spiccheranno il volo... — Grazia alzò le spalle, e non rispose e non sollevò gli occhi. Ecco, ella trovava insopportabile il suo giovine zio, il suo primo antico sogno: e poco male insopportabile, lo trovava ridicolo, qualche volta.
Per un pezzo si parlò di cose inconcludenti; ogni tanto zia Porredda s’alzava di tavola e usciva e rientrava: ogni tanto la conversazione moriva, e un silenzio quasi impacciato regnava. Come l’altra volta si cercava di evitare l’argomento che più interessava le ospiti, e queste, dopo tutto, non se ne trovavano scontente. Ma fu la stessa zia Bachisia che, senza volerlo, provocò l’ingrata conversazione, domandando se era vero ciò che tutti affermavano: il matrimonio del «dottore» con la nipote.
I Porru si guardarono l’uno con l’altro, e risero, piano piano.
Paolo guardò la fanciulla, e disse con ironia non del tutto allegra:
— Eh no! Ella sposerà l’illustrissimo signor sottoprefetto.
Grazia sollevò e riabbassò rapidamente il viso; si videro i suoi occhi lampeggiare e la sua fronte arrossire. — È vecchio! — disse Minnia. — Io lo conosco, sì; passeggia sempre davanti alla stazione. Ih! ha una lunga barba rossa. E il cilindro.
— Ah, anche il cilindro?
— Sì, il cilindro: è vedovo.
— Tu, sta zitta, — disse energicamente la fanciulla, volgendosi alla sorella.
— No, io non sto zitta! Eppoi è anche un massone: egli non battezzerà i figli, non sposerà in chiesa. No, è così! In chiesa non ti sposerà.
— La signorina è bene informata! — disse zio Efes Maria, sempre pulito.
E allora zia Porredda, che ascoltava intenta, e che aveva a stento rattenuto un grido alla parola «massone», agitò le braccia e proruppe: — Sì, un massone! Sì, di quelli che pregano il demonio; sì, in fede mia, mia nipote sarebbe disposta a prenderselo lo stesso! perchè è ricco! Siamo tutti in perdizione. Ebbene, Grazia legge i cattivi libri, i giornali indemoniati, e non vuole più confessarsi. Ah, quei libri proibiti! Io perdo il sonno pensandoci. Ebbene, ecco cosa voglio dire; Grazia legge i libri cattivi: Paolo, lo vedete, quello lì, il dottor Pededdu, quello lì ha studiato in continente, dove non si crede più in Dio: sta bene, cioè sta male, ma si capisce un poco perchè queste due creature non credano più in Dio. Ma noi che non sappiamo niente di libri, noi che non siamo stati mai in ferrovia — quel cavallo del demonio — perchè non crediamo più in Dio, nel nostro Signore buono che è morto per noi sulla croce? Perchè, domando io, perchè? Ma perchè? Perchè tu, Giovanna Era, vuoi sposarti con un uomo, mentre hai un altro marito?
Grazia, che sorrideva per le invettive della nonna, a quelle ultime parole sollevò il viso fattosi serio: Paolo, che intrecciava le punte della forchetta col coltello, sorridendo per le parole della madre, fece un atto brusco, e zio Efes Maria, col viso atteggiato a mascherone tragico, guardò maliziosamente Giovanna.
Giovanna arrossì, ma disse cinicamente:
— Io non ho più marito, zia Porredda mia: domandatelo a vostro figlio.
— Io non ho figlio; quello è figlio del diavolo! — disse la donna, sdegnata.
Ah, quasi quasi pareva che Giovanna desse la responsabilità dei suoi atti a Paolo, perchè egli aveva patrocinato la causa di separazione, e prometteva un prossimo divorzio.
Allora tutti risero della stizza di zia Porredda, tutti, compresa Minnia, compresa la servaccia che entrava portando un piatto di formaggio.
Nonostante la sua collera, zia Porredda prese il piatto e lo passò gentilmente a zia Bachisia.
— Anima mia, — disse la vecchia con voce dolente, — voi siete buona come il pane, ma voi state bene a casa vostra, voi siete ricca, avete una casa che sembra una chiesa, avete un marito forte come una torre (eh! eh! raschiò zio Efes Maria), siete circondata da una corona di stelle, eccole; ed ecco perchè voi parlate così! Ah, se voi sapeste cosa è la miseria; e il pensare di dover mendicare, alla vecchiaia! Capite, alla vecchiaia!
— Brava! — gridò Paolo.
— Questo non importa. Bachisia Era! — replicò zia Porredda. — Voi diffidate della divina provvidenza, appunto perchè non credete più in Dio. Cosa ne sapete voi se mendicherete o sarete ricche? Non tornerà, Costantino Ledda?
— Mendicherà anche lui! — disse freddamente zia Bachisia.
— Eppoi Dio sa se tornerà! — osservò brutalmente l’avvocato.
Si sapeva che Costantino era malato, si diceva anzi fosse tisico.
Per parer turbata, e forse lo era, Giovanna nascondeva il viso fra le mani: disse:
— Del resto il vero matrimonio è quello religioso. E se Dio ci ha castigato, col povero Costantino, è stato perchè, lui stesso lo diceva, ci siamo uniti fuori della legge di Dio.
— Se lui torna te la dà lui la legge! — gridò zia Porredda. — Paolo stesso dice che tu non puoi, per adesso, unirti ad altro uomo che non sia Costantino: e se lui torna ti ammazzerà o ti farà mettere in carcere.
— Vuol dire che sarà il mio castigo. — mormorò Giovanna rassegnata. — Nessuno sfugge alla sua sorte.
— Senti, — disse allora Paolo, — io ti ripeto quello che tante volte ti ho detto: son tutte sciocchezze: prenditi Brontu, se ti piace, anche senza sposarlo: anzi senza sposarlo: e se ritorna Costantino e sei stanca di Brontu, riprenditi Costantino: l’uomo e la donna devono unirsi spontaneamente, dividersi quando non vanno d’accordo. L’uomo...
— Ah, tu sei un animale! — gridò zia Porredda, sebbene non fosse quella la prima volta che sentisse il figlio parlare così. — È il finimondo, questo. Ah, Dio è stanco, ed ha ragione. Egli ci castiga e farà venire il diluvio: già, ho sentito dire che c’è il terremoto.
— Il terremoto c’è sempre stato — osservò zio Efes Maria, che non si sapeva se propendesse dalla parte della moglie o da quella del figlio. Forse intimamente propendeva per la moglie, ma non voleva dimostrarlo per non scapitare nella stima del figlio «letterato».
Paolo tacque, già pentito di quello che aveva detto; voleva troppo bene a sua madre per farla arrabbiare inutilmente.
Giovanna si tolse le mani dal viso e parlò, con dolcezza umile:
— Dio, che vede le circostanze della vita, non si offenderà...
— Ma vi ha punito lo stesso — disse zia Porredda.
— Questo sta a vedersi — strillò zia Bachisia, che cominciava a schizzar fiele. — Non vuol dire invece che il castigo di Giovanna mia è finito, se Dio te manda la fortuna di sposarsi ad un giovine che le vuol bene, che le farà dimenticare ogni dolore sofferto?
— E ricco! — osservò zio Efes Maria. E non si sapeva se parlasse sul serio o per sarcasmo.
Giovanna aveva perduto il filo del suo discorso, ma volle concludere lo stesso, con voce dolce ed umile:
— Ah, zia Porredda mia! voi non sapete! Dio vede i cuori: Egli mi perdonerà. Ma se Costantino è come morto? Anche quel prete Elias Portolu che è da noi, che è tanto buono, voi lo conoscete, — che parla come un santo e non s’arrabbia mai, ebbene anche lui dice: no, no, no! Il matrimonio deve essere soltanto sciolto dalla morte! — E andate a farvi benedire, allora, se non infondete la ragione! Vivere bisogna, sì o no? E quando non si può vivere, quando si è poveri come Giobbe? Quando non si ha lavoro, non si ha nulla, nulla, nulla? Ma ditemi voi, zia Porredda, e se in me fosse stata un’altra donna? Ebbene, che sarebbe accaduto? Il peccato mortale; sì, allora sarebbe accaduto il peccato mortale davvero!
— Il peccato mortale! E poi la miseria, nella vecchiaia — ripetè zia Bachisia.
La serva portò la frutta: uva-passa nera e lucente, pere raggrinzite gialle come foglie d’autunno.
La vecchia padrona porse il cestino delle frutta alla vecchia ospite, e la guardò con indicibile sguardo di compassione. Ecco, tutta la sua collera, il suo sdegno e il suo disprezzo cadevano davanti alla debolezza di quelle due donne. Disse fra sè:
— San Francesco bello, perdonatele perchè sono ignoranti, perchè sono selvatiche e vili.
Poi disse con voce raddolcita:
— Siamo vecchie, Bachisia Era: ed anche tu diventerai vecchia, Giovanna Era. E ditemi una cosa, adesso. Cosa c’è dopo la vecchiaia?
— La morte.
— La morte. Sicuro, c’è la morte. E dopo la morte cosa c’è?
— L’eternità — disse Paolo, ridendo, mentre mangiava l’uva-passa come un bimbo goloso, accostando il grappolo alla bocca e strappando gli acini coi piccoli denti.
— L’eternità. Sicuro, c’è l’eternità. Che ne dici tu, Giovanna Era, c’è o no l’eternità? Bachisia Era, c’è o no?
— C’è — risposero le ospiti.
— C’è, ma voi intanto non pensate all’eternità.
— È inutile pensarci... — disse Paolo, alzandosi; egli s’era indugiato anche troppo con quelle due donne che, dopo tutto, lo interessavano solo perchè dovevano ancora pagarlo. — Io devo andare: c’è gente che mi aspetta nello studio: ci rivedremo; voi non partirete.
— Domani mattina all’alba...
Egli andò via, e dopo di lui uscì dalla stanza anche la signorina Grazia, che non aveva mai parlato durante la cena, e zio Efes Maria si accomodò di traverso sulla sedia, accavallò le gambe e cominciò a leggere la «Nuova Sardegna».
E fra le tre donne, che mangiavano tre pere, regnò un grave silenzio. Qualche cosa pesava su di loro; sì, anche su zia Porredda: poichè con la sua intuizione primitiva ella pensava che l’anima delle selvatiche ospiti e l’anima dei suoi civili discendenti era ammorbata dallo stesso male: l’avidità del denaro.