Note sulla Fine di un regno/Capo III

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Capo III

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Capo II

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III.

Andiamo ora in più spirabil aere. Si era ai principii di giugno del 59, quando pervenne la notizia della battaglia di Magenta, e fu subito comunicata dall’ambasciatore piemontese Villamarina. Sapendosi ch’egli la sera doveva illuminare i suoi balconi, per festeggiare la vittoria delle armi francesi e piemontesi, si organizzò una grande dimostrazione. Di fatti un gran popolo di liberali si [p. 22 modifica]raccolse presso la sua dimora alla Riviera di Chiaia. Fra tanti dimostranti si notava una donna balda, ed era Antonetta Pace. Non appena ai balconi comparvero i primi lumi, da tutte parti scoppiò fragoroso, immenso il grido di Viva l’Italia, Viva Vittorio Emmanuele!

Molti affermano che fu Ferdinando Airoldi da Ostuni, che gittò il primo grido; a me invece sembrò la voce di Giuseppe Leuzzi da Noci.

La dimostrazione non si fermò alla Riviera di Chiaia: si volle proceder oltre verso il Chiatamone, ove risiedeva l’ambasciatore francese Brenier, per acclamare alla Francia e a Napoleone III. Ivi però si trovarono numerosi cordoni di truppa, che caricarono la folla e la sbaragliarono. All’urto molti caddero, altri furono quasi schiacciati vicino alle mura, ed alcuni sbalzati su quella scaletta che scendeva all’acqua ferrata. Tra questi ultimi si trovarono Vincenzo Tanturri e Teodoro Cottrau, che nel tafferuglio perdè le scarpe, e bisognò che tornasse a casa in calzette.

In un momento le vie di Toledo e di Chiaia furono asserragliate da truppe, da squadroni di cavalleria, da cannoni con miccie accese: apparato tardivo, perchè la dimostrazione era già avvenuta.

In quella stessa notte si fecero più di cento arresti; ed agli arrestati i poliziotti dicevano per ischerno: ora per uscire di prigione non vi rimane a fare altro che una supplica a Vittorio Emmanuele od a Napoleone III. [p. 23 modifica]

Ferdinando Pandola, il più riconoscibile fra i dimostranti per la sua altezza, prevedendo la mala parata non tornò a casa, e filò dritto per Genova sopra un bastimento inglese. E fu ventura, poichè la prima casa perquisita dalla Polizia in quella notte fu appunto la sua.

E così finalmente dopo il 48, vale a dire dopo dieci anni di tremenda reazione e di forzato mutismo, e quando ancora le prigioni riboccavano di carcerati politici, echeggiò un’altra volta in Napoli il grido di: Viva l’Italia!

In fine di queste Note posso aggiungere con piena cognizione di causa, che molti liberali erano disposti e pronti a secondare e sostenere Francesco II, se egli nell’ascendere al trono avesse fatto un programma consono a nuovi tempi. Ma pur troppo ricopiò quelli di suo padre Ferdinando; il quale voleva far di Napoli una nuova Cina, ed aveva mandato all’ergastolo Luigi Settembrini, e messi in catene Carlo Poerio, Silvio Spaventa e tanti altri; e cacciati in bando Pisanelli, Tommasi, Francesco De Sanctis ec., e perseguitati e seviziati i più illustri cittadini del Regno.

Proponendosi così Francesco II nell’ascendere al trono di voler seguire punto per punto le orme di suo padre, apparecchiò la sua ruina, perchè un tal programma significava il ritorno ad un governo reazionario e balordo.

Concesse poi la Costituzione, ma troppo tardi, e quando già nell’animo di tutti era spenta ogni [p. 24 modifica]fiducia. Quella Costituzione, infatti, fu accolta in Napoli ed in tutti i paesi gelidamente. Le riforme ch’egli concesse allora apparivano non più spontanee, ma dettate dalla forza, e col pensiero alla prima occasione di romperne i patti, come avevano fatto i suoi antenati.

A questo stato di cose contribuivano anche gli emigrati napoletani in Piemonte, i quali confortavano i loro corrispondenti di Napoli a non prestare alcuno aiuto o fiducia al nuovo Re. Silvio Spaventa scriveva ad un suo amico: «la Costituzione data dai Borboni di Napoli è un fiore sopra un letamaio». Nello stesso senso Luigi Settembrini scrisse una lunga lettera ad Errico Pessina, lettera che avutone il debito permesso, fu fatta da me stampare nella mia tipografia e se ne divulgarono migliaia e migliaia di esemplari. Per l’intento medesimo apparve uno stupendo articolo di Carlo Poerio, col titolo: «i Gigli Borbonici e la Croce di Savoia».

Di questi scritti se n’è perduta la memoria, e forse sarebbe bene ripescarli e riprodurli come brani politici e letterarii di molto valore, ed anche come esempi di bello scrivere.

Memor racconta che Francesco II, nell’abbandonare Napoli, disse a Liborio Romano che gli augurava un felice ritorno: non mi faccia di questi augurii, perchè se io tornassi le farei la capo. Veramente quel Re non avrebbe dovuto far la capo a Liborio Romano, che in fin dei conti era [p. 25 modifica]trascinato dalla corrente, alla quale non si poteva più mettere riparo, ma invece a quei tristi Consiglieri che lo ridussero ad apporre la firma a quel suo primo malaugurato atto di governo.

Narro in ultimo un aneddoto, che può aver riscontro con qualche pagina di Zola nel romanzo della Madonna di Lourdes, e che ritrae grandemente i Borboni.

Ad una giovane di Terra di Lavoro, isterica e paralitica alle braccia, apparve una notte in sogno Maria Cristina di Savoia, madre di Francesco II, e le rivelò che non sarebbe altrimenti guarita se non pregando ferventemente sulla tomba, ove riposavano le sue ossa. Si svegliò piena di fede, e l’istesso giorno accompagnata dalla madre, venne in Napoli. Volle prima consultare un medico di fama, e fu Pietro Ramaglia, il quale, osservatala minutamente, constatò la paralisi. Alla domanda di lei se potesse guarire, rispose di sì, poichè quella paralisi non era sostenuta da vizio organico, ma da semplice squilibrio nervoso. In quanto alla cura disse di non confidare troppo nelle medicine prese alla farmacia, sibbene in un cambiamento assoluto di vita, o in qualche scossa morale che potea giovarle.

A tal proposito le raccontò, che una donna intieramente paralitica, ed in tale stato da non potersi più muovere di letto, udendo gridare che s’era appiccato il fuoco alla sua casa, la quale andava già in fiamme, fu colta da tale spavento, [p. 26 modifica]che ad un tratto balzò in piedi e fuggì, del tutto guarita. La giovane a tali detti sorrise amaramente, quasi dicesse, in quanto a me soltanto un mira colo potrà salvarmi.

Poco dopo si recò alla Chiesa di S. Chiara, e prostata sulla tomba di Maria Cristina tanto pianse e così ferventemente pregò, che di botto la paralisi si sciolse; ed ella compresa da immensa gioia e stupore incominciò a muovere le braccia con forza in ogni verso.

La notizia pervenne in Corte, e si cercò subito di approfittarne, per la santificazione di Maria Cristina: perchè così Francesco II avrebbe acquistato gran prestigio nel popolo, reputandolo figlio di una santa.

A tal uopo s’invitò il Ramaglia, che aveva osservata quell’ammalata, e che si trovava pure allora medico della famiglia Reale, a sottoscrivere un atto autentico, col quale si attestasse il miracolo avvenuto per opera di Maria Cristina. Egli si negò, dicendo, che la Medicina registrava parecchi di simili casi, senza l’intervento di alcun miracolo, e perciò la sua coscienza non gli permetteva di asserire una menzogna.

Intanto non essendo riuscite le pratiche dirette, si ricorse al Cardinale Riario-Sforza, il quale, chiamato il Ramaglia, gli domandò a brucia pelo: dunque voi non credete ai miracoli? Vi credo, rispose quello, ma non è questo il caso. E così [p. 27 modifica]rimase tetragono a tutte le pressioni che gli vennero fatte.

Io che mi trovava per caso a seguire passo per passo tale avventura, dissi fra me: Pietro Ramaglia è ora in auge presso la Corte borbonica; ma per non aver convalidato il miracolo di Maria Cristina, rischia di finire i suoi giorni in prigione. Il che non si verificò, perchè successero poco dopo la malattia e la morte di Ferdinando II, e quelle memorabili vicende politiche che costrinsero Francesco II ad abbandonar Napoli, ed al miracolo non si pensò più che tanto.

Carovigno 20 maggio 1895.