Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella XXVIII

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Novella XXVIII - Un drappiere di Lione, per andare la notte a giacersi con una sposa, fece certi patti con un garzone di bottega, e lo fé’ coricarsi in letto appo la moglie. Il giovane, scordatosi i patti, tutta la notte amorosamente si prese piacere con la padrona, e ciò che poi avvenne
Parte IV - Novella XXVII Indice
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Il Bandello al magnifico ed eccellente


dottore de le cesaree leggi e pontificie


messer Gian Pietro Usperto salute


Sono mille anni che nè voi mi scrivete cosa veruna, nè di voi ho avuto novelle, se non quando ultimamente fuste, già giorni e mesi molti passano, a Parigi, ove mi scriveste una vostra umanissima e amorevolissima epistola, a la quale io subito feci risposta. Dapoi, avendo inteso voi essere ritornato a Fano, a la cura di quello vescovato, per commissione del riverendissimo vostro cardinale, non vi ho più scritto, non mi essendo occorso occasione alcuna. Ma non è già che molte volte e bene spesso non abbia ragionato di noi, di quello modo che a la nostra vera amicizia si richiede e come conviene a le vostre singolari e rare doti. Voi non solamente iureconsulto consumato sète, ma avete a le umane leggi aggiunte le buone e recondite latine e greche lettere, di modo che, o scriviate in prosa o vero con le muse cantiate, in l’una e l’altra facultà mostrate chiaramente quanto sia il candore del vostro felicissimo ingegno, come ne le prose e versi vostri leggiadramente appare. Ora, per dirvi la cagione che mi move a scrivervi, vi dico che questi giorni venne qui uno mercatante genovese, messer Gioanni Rovereto, che dimora in Lione; il quale a madama nostra e a tutti noi altri narrò una mal pensata malizia de uno mercatante drappieri di Lione, che, volendo ingannare altrui, restò egli parimente il beffato e ingannato, come ne la novella che vi mando vederete, perciò che al vertuoso vostro nome la ho intitolata. Essa novella ci empì tutti di stupore e meraviglia, veggendo pure essere vero ciò che communemente si suole dire da molti: che questo mondo è una piacevole gabbia piena di diversi pazzi, che quando il capriccio entra loro in capo e si [p. 392 modifica]lasciano dagli sfrenati appetiti vincere, fanno le maggiori e sgarbate sciocchezze che si possano imaginare. E questo per l’ordinario aviene, perchè sono di modo acciecati da le male regolate loro appetizioni, che non sanno pensare ciò che da le operazioni loro si possa di bene o di male causare. Chè quando pensassero al fine che ragionevolemente ne può seguire, io mi fo a credere che andebbero più ritenutamente, e tanti errori non si farebbero tutto il giorno quanti veggiamo farsi. Ma tanto pare che di piacere ci doni lo adempire li nostri appetiti, che si benda gli occhi e ci fa strabocchevolemente senza ragione impaniarsi, come augelli presi con il vischio, che quanto più cercano di vendicarsi in libertà, più si trovano legati, e ogni fatica per svilupparsi è indarno da loro usata. E se di questi disordini non se ne vedessero molti tutto il dì, io vi addurrei mille esempli de l’età vecchia e anco de la nova. Ma perchè la cosa è chiara, come nel sereno cielo il sole da merigge, non accade citare testimoni innanzi a voi, cui questi disordini sono notissimi, chè certamente egli sarebbe, come si dice proverbialemente, portare le civette a la città di Atene. Ma perchè novamente in Lione è accaduto uno caso di questi sgarbati, e molto disonesto, avendolo io scritto e parendomi degno del publico, per esempio di chi vorrà leggerlo, l’ho voluto a voi donare e col vertuoso vostro nome in fronte publicare. E ben che il Rovereto fosse il primo che ce lo narrò, nondimeno poi da uno mio singolarissimo amico, che in Lione dimora, ho avuti li nomi e cognomi di coloro che in la istoria intravengono. Accettate adunque questo mio picciolo dono, e, come fate, amatemi. E state sano.

NOVELLA XXVIII


Uno drappieri di Lione, per andar la notte a giacersi con una sposa,


fece certi patti con uno suo garzone di bottega, e lo fa corcarsi


in letto appo la moglie. Il giovane, scordatosi li patti, tutta la notte


amorosamente se prese piacere con la padrona, e ciò che poi avenne.


Poi che, madama eccellentissima, mi avete chiesto che io dica se ho nulla di novo de le cose che ora si maneggiano tra il nostro re cristianissimo e l’imperadore, parendo che il sommo pontefice molto si affatichi per accordargli insieme, affine che si porga soccorso a la già sì famosa Ongaria che gli infedeli guastano, ardeno e consumano, io non vi saprei nulla dire di più [p. 393 modifica]di quello che si contiene ne le lettere che da Lione vi ho portate. Bene vi potrò narrare uno caso novamente avvenuto a Lione, che per mio giudicio tiene molto de lo strano e del bestiale, per la trascuraggine ed espressa pazzia di uno mercante drappieri; il quale, poco aveduto, e savio stimandosi, da se stesso in capo si ha posto la insegna de li Soderini, che sono duo corna di cervo. E certamente egli è pure una gran cosa a considerare le molte e sconcie operazioni che gli uomini, acciecati da li loro disordinati appetiti, così scioccamente fanno, e sovente, dandosi a credere di ingannare il compagno, essi con eterno disonore e vituperio restano gli ingannati, come ora da me intenderete, dandomi grata udienza. Dico adunque che in Lione si trova uno drappieri di essa città, il quale non è perciò il più bello uomo del mondo, il quale prese per moglie una Isabetta, che anco ella non ha privato il cielo di bellezza. Ma per li disonesti portamenti del marito, che quante donne vede tante ne vuole, è fora di modo di lui divenuta gelosa, e talemente fastidiosa che altro mai non fa che garrire per casa. Abitano in una casa ove dimorano diverse famiglie, fra le quali ci era e ancora vi è una vedova, che aveva una nipote nominata Catarina, giovane assai bella e in età da marito. Il mercante, veggendo ogni ora questa Catarina e sommamente piacendoli, come colui che dietro una capra che avesse avuto una cuffia in capo sarebbe corso, se ne innamorò, o più tosto li venne appetito di provare se era di buona lena. Cominciò dunque il mercante a dimesticarsi seco e far l’amore con lei, di modo che, crescendo di più in più la dimestichezza, egli le richiese che li volesse compiacere del suo amore, e le prometteva gran cose. Ella si scusava con molte ragioni, e massimamente, se si fosse ingravidata, che non averebbe avuto ardire di lasciarsi vedere a persona del mondo, e che la sua zia, da la quale sperava avere del bene, la averia fora di casa cacciata. Veggendo egli che indarno spendeva il tempo e le parole, e che non ci era ordine di goderla se ella non si maritava, le promise usare ogni diligenza per trovarle marito conveniente a lei, pregandola caldamente che quando fosse maritata li volesse allora compiacere. La giovane li diede speranza di contentarlo; onde egli, mostrando di farlo per amore di Iddio e per compassione di lei, ne parlò con la vedova, zia di quella, e cominciò di cercare qualche onesto partito per maritarla. E in fine ritrovò uno giovane lionese chiamato Claudio, che era mercieri e spesso andava fora di Lione per vendere le sue mercierie. Ora venne il tempo che il giorno seguente Claudio deveva sposare la Catarina [p. 394 modifica]in chiesa, e l’altro poi giorno andar a letto con la sposa e consumare il santo matrimonio. Il drappieri, non si avendo smenticata la promessa de la Catarina, quello istesso dì che fu sposata, le ricordò che la vegnente notte era il tempo di attendere ciò che promesso gli avea; e sì le disse: – Catarina, vita mia, tu sai che dimane tu ti metterai in letto con tuo marito; pertanto ti prego che questa notte tu voglia essere contenta di giacerti meco. Tu non devi avere più paura di ingravidarti, con ciò sia cosa, se bene tu questa notte restassi gravida, devendo l’altra notte poi accompagnarti con tuo marito, sempre si presumerà che tu gravida sarai di lui. – Egli seppe sì bene persuadere la giovane con mille promesse che le fece, che ella si contentò quella notte introdurlo dentro il suo camerino a giacersi seco. Dormiva ella in una guardaroba de la camera de la zia, e senza farlo passare per la camera de la vedova, li disse che a la tale ora gli aprirebbe una picciola porticiuola che rispondeva in uno andito o sia loggia. Avuta egli questa buona nuova, si partì tutto gioioso e lieto. Ma, sovenendogli la estrema gielosia che la moglie sua di lui aveva, e già l’ora tanto tarda, che non si poteva più servire di una escusazione che altre volte per cotali contrabandi era solito usare, dicendo volere andare al podere suo che fore di Lione aveva, doppo diversi pensieri sopra questa materia fatti, si risolse assai scioccamente conferire ogni cosa con uno altro Claudio, giovane di venti anni, di Borgo in Brescia, che dal padre era stato posto con lui, perchè imparasse l’arte de la drapperia, e devea per obligazione stare tre anni a servire in bottega. Chiamatolo adunque a sè, li disse: – Claudio, io vuo’ che tu mi giuri su queste Ore de la nostra Donna, che di quello che io ora ti manifesterò, che tu a chi si sia non lo dirai già mai, essendo la cosa di importanza tale, quale tu intenderai, chè conoscerai che ricerca ogni segretezza. – Giurò il giovane di tenere il tutto celato. Avuto egli con sagramento questa promessa, narrò al giovane tutto lo ordine che dato avea con la Caterina, e come quella istessa notte egli devea andarsi a giacere con lei. Ma perchè non voleva che sua moglie, che fieramente di lui era gelosa, se ne accorgesse nè sapesse che egli dormisse fora di camera, che era bisogno ingannarla: – Lo inganno adunque sarà questo: come ella sarà ita a letto, io mostrerò avere alcuna cosa a fare, e uscirò fore di camera, portando meco la candela, e in quello mezzo ella, come è suo costume, si addormenterà. Vedi mò se io mi fido del fatto tuo, e se il caso deve essere tenuto segreto: io voglio che tu allora, che ben sai come sta la mia camera; [p. 395 modifica]voglio, dico, che dispogliato, non ti cavando la camisciuola di lana, come io solito sono di fare, entri in camera e serri l’uscio. Ti corcherai dapoi a lato a mia moglie, e corcandoti le metterai una mano sovra il petto, senza fare motto veruno, e ce la tenerai uno pochetto, e dopo la retirerai a te e ti metterai su la tua sponda, voltando a quella le spalle, chè io il più de le volte sono costumato di tenere questo modo. Domattina poi, acciò che mia moglie non possa conoscerti, e meno accorgersi de l’inganno, tu ti leverai innanzi giorno e anderai a fare ciò che bisogna. – Di nuovo poi li ricordò che avesse cura de l’onore suo, e che se la moglie se gli accostava, che egli la ributtasse senza parlare, e che verso quella non si rivoltasse già mai. Promise il giovane il tutto osservare. Così, mentre che il castronaccio del drappieri voleva porre le corna in capo al marito di Caterina, egli se le piantò da se medesimo. E così aviene a chi non considera il fine de le cose che fa. Ora non istette guari, che andò a trovare la sua Caterina, da la quale gioiosamente, secondo l’ordine messo, fu ricevuto, e intrato con quella in letto, colse il primo frutto del giardino di lei con gran piacere di tutte due le parti. Claudio anco egli, secondo che era ammaestrato, intrò in camera de la padrona e si corricò. Ma mettendo la mano su il petto de la donna, perchè ogni cuffia per la notte è buona, sentì tale svegliarsi che dormiva, e scordatosi il commandamento del padrone, non voltò altrimenti le reni a la donna, ma le rivolse la punta del suo nervoso e duro piuolo. Ella, che destata era, pensando essere col marito, il raccolse molto volentieri, e abbracciati insieme, cominciarono il giuoco de la danza trivigiana; di modo che Claudio, che era di buona lena e gagliardo, in poco tempo molto valorosamente corse cinque lanze. Onde la buona donna, che non era usa a sì fatte feste, pensando parlare col marito, disse: – Che cosa è questa, marito mio, che voi fate? volete voi guastarvi? serbate, serbate questi così affettuosi e frequenti abbracciari a le altre notti. Voi, da che io sono vostra moglie, non vi sète sì valoroso cavaliere mostrato già mai, nè tante carezze unqua mi faceste. – Claudio lavorava il giardino del suo maestro e lo inacquava, giocando sempre a la mutola; di modo che, nonostante le cinque prime poste, due altre ne corse. E fingendo di voler dormire, si retirò su la sua sponda. Ma come si accorse che la donna si era addormentata, cheto cheto si levò fora del letto e andò a basso a vestirsi, e intrò in bottega e attese a fare ciò che bisognava. Si levò anche il padrone, e intrò entro in bottega. La moglie, credendo fermamente esser giaciuta con il marito, si levò assai a buona [p. 396 modifica]ora; e considerando la fatica che pensava quello avere durata, apprestò una collazione di ova fresche e di preziosi confetti ristorativi e migliore vino che in Lione si trovasse. Poi fece dimandare il marito e lo invitò a cibarsi e prendere rifrescamento per ristorar le forze. Come ser isciocco vide tante cose insolite apparecchiate, forte si meravigliò e dubitò che ella avesse da Claudio inteso come era stato con la Catarina, e a la donna disse: – Moglie mia, che apparecchiamenti sono cotesti? che vogliono dire tante carezze che fore del tuo consueto mi fai? – Che vogliono dire? – rispose la moglie. – Chi lo sa meglio di voi? devereste pure avere in la memoria la fatica insolita che questa notte durata avete. – In questo egli, mezzo in còlera, disse: – E che diavolo di fatica ho io durata? Io non ho fatto nulla. – Onde volendo levare fora del capo a quella, se de la Catarina sospettava, cominciò sagramentare che, al corpo e al sangue, cosa che si fosse egli non avea fatta. – Oh, – disse la donna, – io non sono già così trasognata, che sì tosto mi sia uscito di mente ciò che questa notte meco faceste Chè dapoi che mio marito sète, non vi dimostraste mai sì prode cavaliere, nè la metà faceste mai di quello che la passata notte operaste. – Non è così gran cosa, – rispose egli – correre una o due poste. – Una o due poste? – soggiunse la donna. – A la croce di Dio, io so bene che passarono sette. – A questa risposta restò il marito mezzo fuori di sè, e tutto a uno tratto, pieno di fellone animo contra Claudio, tenne per fermo che da quello, senza passare le Alpi, in una notte era stato cacciato sino a Corneto. Indi, senza pensarvi più su, vinto da l’ardente e furiosa còlera, andò in bottega, e di prima giunta li diede a pugno chiuso una gran percossa su il volto. Dato poi di mano a uno bastone assai forte e grosso per misurare li panni, che si chiama «canna» o «alla», quello con spesse bastonate da orbo li ruppe con gran furia addosso. Nè contento di averlo sì stranamente senza pettine carminato, lo cacciò con male parole fora de la casa, spogliatolo in farsetto con l’aita di altri suoi famigli, nè li volle dare mantello nè le altre sue robe. Il giovane, trovandosi così mal acconcio e liggiero di panni, si trovava molto di mala voglia. Ed essendo lo inverno e sentendo che il freddo il tormentava, si deliberò tornare a casa il padre a Borgo in Brescia, lontano da Lione cerca otto leghe; e così vi andò, e innanzi al padre tutto vergognoso e lagrimando sì presentò. Era il padre di Claudio in Borgo in Brescia notaio e uomo di buona fama, de li beni de la fortuna per pari suo assai agiato. Come egli vide il figliuolo presentarsi così male in arnese in quella [p. 397 modifica]fredda stagione, dubitò forte che Claudio avesse fatto in casa del suo maestro alcuno misfatto, per lo quale egli vituperosamente l’avesse cacciato fora di casa. Onde, chiamati alcuni suoi parenti e riduttisi in una camera, cominciò severamente e con rigido viso, a la presenza di quelli suoi parenti, esaminare il figliuolo e astringerlo con menaccie a palesarli la cagione perchè fosse di quello modo stato cacciato via dal suo maestro. Claudio, che dubitava, non dicendo la verità, di essere aspramente battuto, narrò tutta l’istoria precisamente di quanto gli era occorso; il che fece ridere e insiememente meravigliare tutti quelli parenti suoi. Ma il padre suo, non dando intieramente credenza a le vere parole del figliuolo, doppo aver con li parenti suoi lungamente sovvra il caso assai cose dette, si deliberò condurre il figliuolo a Lione e confrontarlo con il maestro. Fatta questa conchiusione, fece vestire Claudio, e con quello si inviò verso Lione, tuttavia esaminandolo; il quale sempre li rispondeva di uno tenore, non sapendo altro che dire se non come il fatto era in effetto stato. Giunti che furono a Lione, il notaio, insieme con Claudio suo figliuolo, andò a trovar il mercante a la bottega, e colà trovatolo, li disse che voleva parlar seco. E così di brigata andarono ne la chiesa quivi vicina, che di Santo Eligieri si appella, chiesa in Lione molto onorevole e frequentata. Quivi arrivati, disse il notaio: – Sire, io desidero sapere da te la cagione perchè hai così vituperosamente cacciato via e tanto sconciamente battuto mio figliuolo che qui vedi; perciò che se egli averà commesso cosa che degna sia di gastigo, io lo punirò acerbissimamente. – Il buono mercante, tutto per vergogna in viso arrossito, non sapeva altro che dire se non che Claudio era uno ghiotto e che non valeva nulla e che a modo veruno nol voleva in casa. Onde, veggendo il notaio che il drappieri non sapeva in escusazione sua dire cosa valevole e che nel parlare si ingarbugliava, tenne per fermo che il caso fosse come il figliuolo avea sempre narrato. Il perchè in questa guisa disse: – Amico, poi che tu non vuoi servare le convenzioni che tra noi giuridicamente furono per scrittura autentica per mano di publico notaio fatte, che sono di tenere mio figliuolo in bottega tre anni, e, facendogli le spese, insegnargli il mestiere de la drapperia, tu mi restituirai li novanta scudi che per tale cagione ti diedi. – Il drappieri, vinto da la còlera, non solamente diceva non li volere dare uno tornese, ma che, non si partendo egli e il tristo di suo figliuolo, li menacciava di far loro fare sì strano scherzo che sarebbe a tutti dui rotto il capo. Onde, lasciatosi [p. 398 modifica]vincere da la còlera, cacciò mano a la daga che a lato portava e, non guardando che era in chiesa, voleva ferirli. Seguiva senza dubbio lo effetto; ma molti preti, che erano in chiesa, corsero al romore e spartirono la mischia, e al mercante fu levata la daga di mano e stranamente da quelli sacerdoti percosso, che fosse stato ardito a mettere mano a le arme ne lo sacrato tempio del nostro signore Iddio. Parendo al padre di Claudio avere ragione di potersi a la giustizia querelare, andò a trovare li giudici de la giustizia di Lione, e prepose loro la sua querela. Onde fu di bisogno, per contestar la sua lite, che narrasse loro tutta la istoria occorsa tra il mercante e la Catarina, e tra suo figliuolo e la moglie del mercante. Fu messa in iscritto la detta istoria con gran piacere di tutti gli assistenti, e massimamente de li signori giudici, e vituperio infinito di esso mercante. Il quale, essendo citato dinanzi al tribunale de la giustizia, e non sapendo nè potendo negare cosa alcuna che opposta li fosse, doppo la debita consultazione, fu condannato a restituire al notaio li novanta scudi, a Claudio tutte le robe che ritenute gli aveva, e le spesa del processo. Publicata la sentenzia da li signori giudici, il castrone ser balordo, non contento che tutto Lione sapesse come egli si aveva acquistato il cimiero di Cornovaglia, volle anco che a Parigi, in quella grande e popolosa città, li suoi cornazzani privilegi si publicassero; onde si appellò de la sentenzia data in Lione e provocò al giudicio del parlamento parigino. Così fu necessario mandare il formato processo, a le spese di chi perderia la lite, a Parigi, perchè da quello gravissimo senato non ci è appellazione. Fu adunque bisogno che il notaro con il suo figliuolo Claudio, e altresì il mercante andassero presentarsi a Parigi, e proseguire la loro cominciata lite. Devete pensare, se a Lione una simile lite avea dato piacere e insiememente meraviglia a chi intesa l’aveva, che di non minore trastullo fu a li signori consiglieri di quello parlamento, parendo pure a tutti il caso essere stato molto strano, e che se egli avea posta la paglia appresso al fuoco, che non poteva con ragione alcuna lamentarsi se era arsa. La cosa fu subito divolgata per Parigi, dove di altro non si parlava che de la sciocchezza del drappieri, e da tutti era mostrato a dito come il maggiore bestione che mai fosse. Prononziarono adunque quei signori consiglieri essere stato a Lione bene giudicato e male appellato, condannando il mercante a pagare tutte le spese che il notaro in quella lite avea fatte. Ora, essendosi questo caso molto divolgato, pervenne a le orecchie del marito de la Catarina, Claudio mercieri, [p. 399 modifica]il quale, sentendosi essere intrato nel numero de li cornigliani e per cotale mostrato a dito ovunque andava, chè sino a’ fanciulli lo chiamavano uno «becco», si mise in tanta còlera e rabbia contra il drappieri, che prima di lui avesse voluto godere la Catarina, che si deliberò prenderne segnalata vendetta. Onde uno giorno, armatosi di corazza e maniche di maglia, se ne andò a la bottega di esso, e quivi trovatolo, gli disse la maggior villania del mondo, tuttavia appellandolo «becco cornuto», non mettendo mente che egli era de la medesima pece macchiato. Doppo cacciò mano a la spada e si aventò addosso al mercante, e li tirò una gran stoccata a la volta del petto; ma egli si retirò e, da li servitori suoi di bottega aiutato, si salvò. Indi tra Claudio e li servitori de la bottega si cominciò la zuffa, al cui romore corsero molti vicini, li quali, intendendo la cagione di tale mischia, si interposero tra l’una parte e l’altra, acciò non ci seguisse maggiore scandalo. A la fine, per far la pace, fu forza che il drappieri con qualche decina di scudi contentasse il mercieri; e così pacificarono, e ciascuno, con le sue corna in capo, attese a fare il fatto suo. Ora inteso avete come uno poco di piacere di una notte fu quasi per roinare il mercante, che, oltra tanti danari isborsati, restò con perpetua vergogna. [p. 401 modifica]

NOVELLE DEL BANDELLO




INDICE


PARTE TERZA


Novella XXI. Uno schiavo, battuto dal padrone, ammazza la padrona con i figliuoli: e poi se stesso precipita da un’alta torre 
» 6
— XXII. Ambrogiuolo va per giacersi con la Rosina, ed è preso: ed altresì giace con lei quell’istessa notte 
» 10
— XXIII. Galeazzo Valle ama una donna, e la fa ritrarre: e quella del pittore s’innamora, e più non vuol vedere esso Galeazzo 
» 43
— XXIV. Una giovanetta, essendo suo fratello da uno sbirro assalito, ammazza esso sbirro, ed è dalla giustizia liberata 
» 18
— XXV. Giovanni Maria Visconti, secondo duca di Milano, fa interrare un parrocchiano vivo, che non voleva seppellire un suo popolano, se non era dalla moglie di quello pagato 
» 22
— XXVI. Il capitano Biagino Crivello ammazza nel monte di Brianza un prete, per aver il beneficio per un suo parente 
» 25
— XXVII. Una giovine innamorata, inebriando la sua vecchia, si ritrova col suo amante, e si godono insieme 
» 28
— XXVIII. Fra Michele da Carcano, predicando in Firenze, è beffato da un fanciullo con un pronto detto 
» 34