Novelle lombarde (Cantù)/Il Castello di Brivio

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Il Castello di Brivio

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Isotta Alla Melanconia
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IL CASTELLO DI BRIVIO


Del gaudio nell’ore,
     Nei giorni — del duolo
     Mi torni — nel cuore,
     Paterno mio suolo.



I.


Tutto è festa nel castello di Brivio. Una fiamma divampante sul battuto della torre angolosa, dirada le tenebre della notte: cento barchette illuminate vogano al suo piede, gridando viva e riviva: viva e riviva echeggia più esultante nell’interno, ove dieci signori delle vicine terre nella sala d’arme, nell’altre minori i vassalli e gli scudieri, fra le spumanti tazze del vino orobio, alternano i brindisi a Oldrado barone del castello; Oldrado, il paventato caporione de’ Guelfi qui intorno, che oggi, dalla torre che domina Gallusco e Villadadda, menò sposa Ermellina, figliuola del signor Colleone, ghibellino famoso.

[p. 132 modifica]Oldrado compone il viso a quel più cortese che può un uomo cresciuto continuo sotto la corazza, fra gli amari gusti della prepotenza e della vendetta, guardando gli uomini non collo scontento di chi troppo li conobbe, ma col disprezzo di chi mai non curò di conoscerli; di chi non vide in quanti gli erano attorno che, od eguali da superare od inferiori da opprimere e sagrificare a’ suoi fastidj superbi; di chi mai non apprese la bellezza della virtù, la consolazione del far bene, l’ebbrezza dell’amare, dell’essere amato.

Gradiva egli e ricambiava gli augurj; ma tra le rughe che l’orgoglio dapprima avea tracciate, poi l’età rese stabili sul suo volto, lasciava trapelare l’impazienza d’una gioja che a lui pareva ingannevole e adulatrice; e colla sinistra ad ora ad ora impugnava spensieratamente il pome dorato dello stilo, che mai dal suo fianco non dipartiva, lo stilo ministro di sue vendette.

Fra le vezzose donne radunate a nozze spicca in tutta la leggiadria di sua giovane persona la biondissima Ermellina; e figurandosi in tutte un cuore ingenuo come il suo, con naturale cortesia risponde ai festivi mirallegro ed alle argute allusioni. Ma la sua gioja non è intera. Nata a liberi sensi e gentili, capace di conoscere e pregiare il bello, in quella cara età quando l’amore è un istinto, non un calcolo, quando si crede e si è creduti, ella vide il trovadore Tibaldo, d’età fiorito e di bellezza, venire dal patrio Merate nelle paterne sale di lei, rallegrando i lauti convivj colle gradite romanze: lo vide; conobbe lo splendore dell’ingegno di lui, la pietà del suo cuore, e poteva non amarlo? Oh quel [p. 133 modifica]giorno! — era un bel giorno sul mezzo del vivace ottobre, quand’egli, cogliendo una viola del pensieri gliela presentò, e — Vi duri la memoria mia anche quando questo fiore sarà appassito».

Non gli fece ella risposta che d’un sospiro. Ma in quella sopravvenne la indovina di Pontida, la vecchissima che dicea d’aver veduto, due secoli prima, giurarsi nella sua patria la Lega Lombarda e pronosticava dover vivere fino ad un infame tempo quando più niuno quella Lega ricorderebbe; l’indovina venerata e temuta, sfuggita ed implorata, creduta da chi santa, da chi magliarda. Ed — O garzoni (esclamò) voi finirete i giorni l’uno all’altro abbracciati».

Da quell’istante, il memore fiorellino, imitato coi biondi cappelli della vezzosa, fregiò sempre il petto del damigello: da quell’istante fu il sogno d’Ermelina, fu l’oggetto d’ogni sua preghiera il potere un tempo chiamar suo Tibaldo, la delizia di svegliarsi carezzevole sul seno di lui, l’orgoglio di essere da tutti accennata come la donna del migliore di quanti, là intorno cantavano rime d’amore. Speranza ahi svelta in erba! E fra i tripudj d’oggi non le si toglie dalla mente il disperato dolore dell’amico, l’addio — parola sì dolce e sì lugubre — che le lacrimò per l’ultima volta. Che se, piena di quella cara immagine, essa leva lo sguardo al suo signore, scorge un irsuto guerriero, il cui nome ella imparò a paventar da bambina; mille volte lo udì esecrare da’ domestici suoi, mille volte supplicò agli altari perchè nelle fraterne battaglie non le scannasse il padre, i congiunti. Ma dalle fraterne battaglie uscito vincitore, grave patto egli impose [p. 134 modifica]al vinto Colleone, di diroccare metà della torre che domina Callusco e Villadadda; e dargli sposa l’unica figliuola. Or come amarlo? Come cancellare dalla memoria un primo, un unico, un immacolato amore?

Intanto va morendo il suono ed il luccicor della festa; Oldrado congeda la brigata: tutto ritorna al silenzio; solo l’aura notturna leva sulle ali e confonde un gemito ed una fievole armonia: è il gemito dell’Ermellina che rimpiange i sogni di sua giovinezza; è il lamento dell’amoroso Tibaldo.


II.


Corse un anno da quel giorno: e al nuovo maggio, sull’angoloso torrazzo di Brivio sventola, distinto di fascie bianche e vermiglie, lo stendardo del barone, che richiama alle fraterne battaglie. Papa Gregorio XI perdonava i peccati a chiunque assumesse le armi e la croce contra i signori Visconti di Milano; ed all’appello assecondando, i Guelfi della Martesana forbivano ogni arma, dalla lucente alabarda fino al coltello traditore. Grandi baldorie fiammeggiano sulle vette del Mombarro, del Montorobio, del Sanginesio, del Monteveggia; il campanone di Brianza tre dì e tre notti rintoccò; tre dì e tre notti squillò ad intervalli il corno dei torrioni di Brivio, dove al quarto son tutti raccolti i guerrieri. Qui gli Annoni d’Imbersago, i Medici di Novate, i Riboldi di Besana, i Petroni di Cernusco, gli Ajroldi di Rebbiate: qui i Capitanei di Hoe e di Mombello: qui coi loro vassalli Oldrado da Giovenzana e Guglielmo da [p. 135 modifica]Sirtori. Pagano Beretta guida i Cornaggi da Bernareggio: ai terrieri di Lecco accenna Cressone Crivello: prete Pietro va innanzi ai Corradi dei Licurzi, portando la croce, segno d’amore e di perdono, sotto la quale vanno a commettere odj e stragi. La fazione dei Melosi di Vimercate segue Obizzone da Bornareggio, il più largo posseditore della Martesana: l’abate di Civate mutò la cocolla e il pastorale nella lancia e nella corazza.

Forti nella concordia dei voleri, che non avrebbero potuto? Ma, sciagurati! come il pugnale mal chiuso nella vagina taglia la mano che l’impugna, sciagurati! corrono per guadagnarsi il paradiso coll’ammazzare, col farsi ammazzare — e sono fratelli.

Ma nel feroce tripudio della vendetta e della strage più vivamente Oldrado esultò: e la memoria d’antichi oltraggi, le guerresche abitudini, il furor di parte, l’amore della preda gli traspajono dalla fronte, più del consueto corrugata. La guerresca ordinanza fuor del castello difilavasi, quand’egli scende dall’ecchegiante scalone; scende affibiandosi al giaco di maglia lo stilo del pome dorato, ministro di sue vendette: e ad Ermellina, che gli viene timidamente a fianco, rinnova una tante volte replicata querela perchè sì fredda esprimesse l’amor comandato.

Oh! chi compera un’arpa, compera forse insieme la virtù di destarne le armonie divine? La bella, fra il dover amarlo e il sentire di non poterlo, guardava il signor suo colla calma della rassegnazione: non seppe reggere lo sguardo onde, traverso alla bruna visiera, egli la fiammeggiò, quando, già montato in arcione, le strinse la mano, e addio.

Spronò il bajo corsiero, ed ultimo fece sonare [p. 136 modifica]colle ferrate zampe il ponte levatojo, che dietro lui si alzò.

Procedevano i battaglieri fra’ tuoi poggi ridenti o mia terra natale; e qualche villanella, mal nascosta dietro ai penduli tralci, con desio cercava il noto cimiero del suo vago: l’agricoltore appoggiato alla marra, li guardava, pensoso ai campi ove porterebbero la ruina: e qualche vecchio, rivolto sull’utile pensiero del sepolcro, compassionava i tanti prodi, che forse tra un mese non sarebbero più, siccome l’erba che calpestavano passando. Ma essi in loro coraggio spensierato, venivano confusi, inordinati, varj d’arme e d’arnesi: e chi rassettavasi al petto la croce; chi a tempo incioccava la lancia sul palvese; chi riandava i compianti consigli d’una cara abbandonata; chi millantava sue passate venture; chi intonava quel carme di guerra usato dai Brianzuoli:

Alla morte col sorriso
     Il crociato se ne va:
     Dalla pugna al paradiso
     Il crociato volerà.
Su, destiamo i corpi e l’alme
     All’invito del Signor:
     Ci s’intreccino le palme
     Del martirio e del valor.


III.


Ben altre melodie quella sera stessa e la seguente scossero dolcemente l’aria sotto al castello di Brivio. Da una barchetta un maestevole arpicordo accompagnava le canzoni del paese, le canzoni depositarie [p. 137 modifica]dei dolci e dei magnanimi sentimenti che di memorie nutricavano le speranze dei miei Brianzuoli, finch’essi non dimenticarono di avere una patria. Le quali, celebrando le prodezze e le cortesie, or rammemoravano la gentile Ferlinda contessa di Brivio, allorchè vedovata, d’ogni aver suo fece dono alla cattedrale di Bergamo per salute dell’anima: or imitavano il pianto penitente, onde, nella rôcca di Lecco, Guido da Monforte scontava il sacrilego omicidio; or ripetevano all’indignata pietà i nomi e i fasti de’ nobili Briantei, scannati dai Torriani. Ma il cantore cominciava sempre, sempre finiva con una romanza, soavemente melanconica, siccome la ricordanza dell’amica lontana. E diceva:

D’ottobre rorida
     Tacea la luna
     Sovra la limpida
     Crespa laguna;
     Tremulo zefiro
     Lambiva i fior:
          La luna e zefiro
     Parver più lieti
     Quando, fra murmuri
     D’amor segreti,
     Cedesti a un trepido
     Bacio d’amor.

Sorriser gli angeli
     Alla primiera
     Gioja d’ingenua
     Fede sincera,
     E il tuo congiunsero
     Col mio destin.

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          D’allora, al giubilo,
     E al pianto insieme,
     Insieme al fremito
     Ed alla speme,
     La morte colgami
     A te vicin.

Quel dì, chinandoti
     Sul letto mio,
     Tra ’l prego flebile,
     Tra ’l rotto addio,
     Senza i rimproveri
     D’un reo pensier,
          Sul fronte madido,
     Sui muti rai,
     Quando a me l’ultimo
     Bacio darai,
     Ripensa al trepido
     Bacio primier.


Fra il sonno degli uomini e il silenzio della notte, saliva quell’armonia alla solinga stanza d’Ermellina, che conosceva la voce di Tibaldo; conosceva le arie, use a cercarle la via del cuore quand’egli veniva rallegrando i paterni convivj; conosceva la romanza onde, al tempo dei dolci sospiri, le svelò primamente le sue timide speranze. L’accoglieva nelle cupide orecchie, e sola — quanti cari pensieri, quante memorie s’affollavano intorno all’accorata! e i desiderj, e il dovere, e il profetare bugiardo dell’indovina di Pontida, e i fulgidi occhi del Trovadore, e il severo piglio del signor suo, e l’aver potuto essere felice e il dover non appartenere a quello cui era appartenuta per tutte le sue speranze; tutti i suoi piaceri, tutti i suoi dolori — e piangeva, piangeva dirotto.

[p. 139 modifica]Così un mese durò, così due, contenta e spossata della sua resistenza. Ma troppo rozzi erano que’ battaglieri; troppo era lunga la lontananza; troppo lusinghevoli i Trovadori. Una volta Ermellina s’affacciò alle dipinte vetriate del balcone — guai, o fanciulle, al primo passo! - un’altra le aperse; poi vi dimorò alquanto: la sera seguente uscì sul verone al discoperto: che più? discese alla porticella di soccorso che riesce sul lago, e tolse dentro l’amoroso. — Sentenziatela voi, leggiadre donne, che per prova intendete amore.

.... la sera seguente uscì sul verone al discoperto.

Da quella, che sere avventurate! Delizie sempre eguali e sempre diverse; cento cose a dire e cento volte replicare le stesse; e un’ebbrezza crescente più l’un dì che l’altro, e più l’un dì che l’altro indugiato il momento del distacco. Nè più fantasie di guerra o sventure di innamorati insegna il Trovatore alla laguna: ma dolcezze e festività e il giocondo spettacolo della bellezza, e i voluttuosi baci delle colombe, e i tripudj delle corti bandite e delle gare d’amore.

Si perigliavano intanto i guerrieri di Brianza nelle fraterne battaglie: al biscione de’ Viscontei soccombeva la croce dei Guelfi, che, invano benedetti, andavano di rotta in rotta, di fuga in fuga: sicchè di là del lago di Brivio, diffusi per bande tra le gole della val San Martino, avventavansi ad ora ad ora nel ferro, e con inclite prove facevano a Barnabò amara la vittoria, se dovette comprarla col sangue d’Ambrogio suo figliuolo.

Ma quei tumulti che fanno a Tibaldo, ad Ermellina? oh la gioja loro, oh i loro affanni non pendono dall’evento delle battaglie fraterne. La [p. 140 modifica]delirante esultanza del presente, e nulla più in là. Il silenzio, dio de’ fortunati, copre le mutue delizie, a cui li conduce il cantar dell’usignolo, da cui li diparte il pigolio dell’allodoletta. — Deh cedesse più tosto il sole l’imperio del cielo alla mite stella della sera! Deh l’aurora indorasse più tardi le vette dell’Albenza! Domani, amor mio, per quanto bene mi vuoi, torna più presto domani».


IV


E al domani, come appena intese la barchetta fender le onde e soffermarsi, Ermellina scendeva e tra via rassettandosi le biondissime chiome sulla fronte e la stola sul petto, che, prelibando le delizie, saliva e scendeva più ansioso che mai. Apre lo sportello — ma che? Invece della morbida destra dell’amante, qual è questa che tanto aspra l’afferra? Invece del velluto della cilestre casacca, ha toccato una ferrea armatura; invece delle piume cascanti con vezzo dal roseo tôcco sulle fiorite guance di Tibaldo, fissa una negra celata; e attraverso la bruna visiera ha riconosciuto Oldrado.

Il quale ghermitala, senza far motto la trae nel battello, e batte la voga. Essa, la costernata, assisa tacente in su la prora, non osava levare gli occhi sull’oltraggiato: e prima li teneva colle supine palme velati; poi, quasi cercando una consolazione in quell’universale abbandono, li girava intorno. Era una di quelle limpide sere, in cui tanto è soave solcare l’increspato zaffiro delle onde, soli con una sola che c’intenda e ci risponda. — Ma per Ermellina! La luna, dalla piena faccia versando [p. 141 modifica]i silenzj di sua luce sulla natura, mostrava all’afflitta sul poggio lontano la torre del palazzo, ove gioito avea, fanciulla imprevidente d’un infausto avvenire: più da presso il campanile di Pontida, ove la vecchia indovina le avea predetto che finirebbe i suoi giorni abbracciata all’amato giovinetto: ecco la portella ov’egli primamente le tese al collo le braccia. — Oh! tu almeno sei salvo, amor mio: tu rimani a compiangere chi dovea vivere solo per te, chi per te muore». Povera Ermellina!

In brevissimo tragitto prendono spiaggia al dosso della vicina isoletta. Oldrado trascina di barca la donna: pochi passi ed... ahi vista! su l’arena giaceva resupino Tibaldo: avea fisso in petto lo stilo dal pome dorato, e le sue dita premevano sulle tiepide labbra una viola del pensiero, tessuta di biondi capelli.

Mise un grido la disperata, cadde sovr’esso, confuse il suo coll’ultimo sospiro di lui; e neppur sentì il pugnale che, tratto dal cuore dell’amante, le fisse e rifisse nel suo l’adirato: poi la precipitò nelle onde, abbracciata al troppo diletto garzone. — Ahi, come s’adempiva il presagio dell’indovina di Pontida!

I poverelli, usati venire dalla pietosa a mendicare il tozzo, più non la rimirarono, esilarata nel piacere del benefizio: invano l’attesero le forosette ad avvivare di sua presenza le baldanzose carole del giorno festivo e della vendemmia; i Francescani, che da Sabbioncello e da San Rocco venivano alla cerca, si videro mandar al convento larga limosina per celebrare suffragi, e l’ordine di non tornar più.


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V.


E Oldrado?

Le sentinelle più non alternano dagli spaldi l’allarme: più la saracinesca non si rialza all’entrata del castello. Per un pezzo corse voce ch’egli fosse andato colla vinta sua fazione in esiglio, ma quando Gian Galeazzo Visconti perdonò ai nemici, e, di salute affidati, tutti Guelfi nostri risalutarono il sorriso de’ tuoi colli festanti e l’olezzante sereno delle tue aurore incantatrici, o mia Brianza, Oldrado solo non ritornò. Variamente ne fu che dire per tutti i contorni, ma nessuno colse nel vero. Però la vecchia indovina, a chi la interrogava se ne sapesse, rispondeva col no misterioso di chi vuol far intendere che sa tutto: finchè, passati dieci anni e dieci giorni, essa raccontò la storia a pochi, e troncandola sulla fine, batteva del piede in un certo luogo del castello.

E quella storia la ridissero poi gli uomini a chi chiedeva quali erano i padri nostri; la ridissero le vecchie alle fanciulle che domandavano quanto gran colpa fosse il bacio d’amore; e corse di bocca in bocca fino a un tempo di sbigottita noncuranza, quando nessuno più impedì che i colpi delle sciabole o la ruggine della pace consumassero foglio a foglio le nostre memorie.

Ed io fanciullo coi fanciulli del mio villaggio, assumendo alcuno di que’ nomi che erano allora la maraviglia delle città e dei tugurj, dei re e dei garzoncelli, sovente fingevo assalti e battaglie presso a quel castello, che pomposamente denominavamo

[p. 143 modifica]Austerlitz, Barcellona o Smolensko. E tra quelle finte imprese, dove ci addestravamo agognando alle vere, m’arrestò talvolta il più annoso pescatore del paese, affine di raccontarmi i casi di Ermellina. Io l’ascoltava, deh come attento! ma quando soggiugeva certe fantasie, d’un pipistrello che ogni sera aliava intorno alla portella, di certe graffiature che, poc’anni fa, si discernevano sulle bruciacchiate pareti d’un camerotto disabitato; di due fiammelle che, fino a’ suoi giorni si vedeano dal lago inseguirsi rasente i torrioni senza raggiungersi mai, — Buon vecchio (io gli chiedeva) perchè tutto questo fino ai dì vostri, ed ora non più?»

E mentr’egli rimaneva, mal predicendo di questi fanciulli, che, dopo venuta la Rivoluzione, nascono ad occhi aperti e non temono del demonio, io tornava sui trastulli, a strappare i vilucchi e il capelvenere dalle ingombre feritoje del castello, a racimolare le coccole selvatiche e l’uva turca sui dirotti muricci, e fingere innocenti battaglie su per le brecce, un tempo insanguinate dalle vere.

Or fa poc’anni, smurandosi colà, per far bello, col qual titolo il giorno d’oggi va distruggendo ogni memoria del jeri, fu dissotterrata una grossa lapida, impressa a rozzi caratteri, e sott’essa un guerriero. Il cadavere, al primo sentir dell’aria, si sfasciò, ma durarono i suoi arnesi di ferro e una negra celata e un giaco di maglia, nel cui mezzo dal lato sinistro era piantato uno stilo dal pome dorato.

Ma chi sì curò di sapere chi fosse?

1832

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NOTA.


È Brivio un borgo di antichissimo ricordo, posto sulla destra dell’Adda, dieci miglia di sotto di Lecco; e il suo nome (anzichè da Bi ripa, come vogliono i latinisti, raffrontando a Bi lacus, Bellagio) ne pare derivato dalla radice celtica briva, ponte; da cui i gallici Sumorabriva fra Auxerre e Troyes; Durobriva e Ourobriva in Bretagna; Brivia Curretia, Brives sulla Corrèze, ecc.

Nel secolo IV è ricordato che san Simpliciano, succeduto a sant’Ambrogio nel vescovado di Milano, e che un’antica tradizione farebbe dei Capitanei o Cattanei del prossimo villaggio di Beverate, venisse fin a Brivio a ricevere i corpi dei ss. martiri dell’Anaunia (Val di Non), Sisinio, Martirio ed Alessandro, ch’egli trasportò nella basilica milanese, denonata poi da esso santo vescovo. Il titolo di que’ tre santi rimase alla chiesa prepositurale di Brivio. Doveva però questo borgo stare sulla riva sinistra dell’Adda, in quella che chiamasi Val di San Martino, e che appartenne alla diocesi di Milano fino al 1746, quando fu ceduta alla diocesi di Bergamo. Forse allora sulla riva destra non sorgeva che il castello: il quale è un vastissimo quadrato, avente ai quattro angoli quattro torrioni rotondi. Apparteneva questo, avanti il mille, ai signori di Almenno; di poi passò ai signori di Lecco; e Attone, conte di Lecco, e Ferlinda, sua moglie, lo donarono al vescovo di Bergamo pro remedio animæ suæ, come appare da un diploma di Enrico I imperatore, dato nel 1015, e riferito dal Lupo, Codex diplomaticus ecclesiæ bergomensis.

Quel castello, assiso sul fiume che a Napoleone pareva il più strategico dell’alta Italia, acquistò importanza nelle guerre successive. A mezzo il secolo XIII vi si rifuggirono i nobili milanesi scacciati dalla plebe prevalente, la quale [p. 145 modifica]inviò ducento balestrieri, che demolirono la rôcca. Ancora conservano il nome la Mura, che doveva essere un posto avvanzato sulla sinistra dell’Adda; e sulla destra la Bastia e più lungi la Rocchetta; e quanto al ponte, doveva sporgersi di rimpetto al castello, sebbene nessuna orma di pile si trovi nel letto del fiume. Quando i soldati viscontei, perseguitando i Guelfi che, capitanati dal conte di Savoja e benedetti dal papa come crociati, si difendevano nella Valle San Martino, vollero varcare l’Adda nel 1373, vi fecero un ponte di legno, sul quale passò Ambrogio, figlio naturale di Barnabò Visconti, che da essi Guelfi venne ucciso presso di Caprino. La parentela de burgensibus de Brippio trovasi noverata fra le guelfe cui Giovanni Galeazzo concedette perdonanza nel 1335.

I Veneti, collegati con Francesco Sforza a danno dell’Aurea Repubblica Ambrosiana, nel 1445 presero il castello di Brivio, dove fabbricarono un ponte, e ristorarono il forte che poi resero al duca di Milano nella pace del 1454.

Allora già cominciavansi le batterie a fuoco; laonde alle antiche fortificazioni s’aggiunse una torre angolosa sul fianco nord-est: e probabilmente allora fu fatta una gran diga, poco disotto, traverso al fiume non ancor navigabile, acciocchè le acque rifluissero nell’ampia fossa del castello. Nel 1527 v’era governatore don Giovanni Guasco, a nome di Carlo V. Questo imperatore, ne’ continui suoi bisogni di denaro, infeudò quel castello al conte Girolamo Brebbia nella cui casa rimase fin testè.

Divenuto il fiume confine tra il Veneto e il Milanese, tutte le abitazioni portaronsi sulla destra; ed è notevole la differenza di dialetto, di vestire, d’agricoltura, di consuetudini che oggi corre fra terre così vicine e di così continua comunicazione. Fin alle ultime vicende, una dogana (la Sostra) e un dazio esistevano sulle due rive, pei diritti dei due dominj.

Nella peste del 1630 la terra restò desolata sì, che solo ne camparono tre famiglie, Mandelli, Lavelli De Capitanei e Canturj.

[p. 146 modifica]Nuova vita diede al paese la grand’opera del naviglio di Paderno, che pose in comunicazione il lago di Como con Milano. Nel 1777 l’arciduca Ferdinando, il conte Firmian governatore ed altri magnati s’imbarcarono a Brivio, per passar essi primi sul nuovo canale fino a Trezzo. Allora Brivio divenne centro di tale navigazione, e vi si collocarono molte famiglie di barcajuoli e paroni, cioè guide, che conducono le navi cariche da Lecco fino a Trezzo.

Nel triennio dopo il 1796, un grosso corpo di Francesi vi stanziò, ed essendo cessato il dominio veneto, si costruì un ponte di piatte che congiungesse le due rive. Al ritornare degli Austro-Russi nel 1799, i Francesi disertarono questo posto, senz’altro che affogare tutte le barche; ma erra il Botta nel dar colpa a Serrurier di avervi lasciato un ponte di piatte. Mentre si combatteva al ponte di Lecco, un corpo di Cosacchi delle bande di Wucassovich e Bagration, si presentò davanti al borgo, intimando, O barche, o cannoni. Di che sgomentati i terrazzani, e trovandosi abbandonati da’ Francesi, rialzarono le barche e tragittarono i vincitori. Ne seguì il saccheggio, dopo il quale s’avviarono alla battaglia di Verderio (Vedi la novella seguente).

Dalle inondazioni cui la terra andava soggetta, ora la schermiscono le utilissime opere intrapese nell’Adda, mercè delle quali è agevolato il defluvio del lago di Como e la navigazione.

Il castello, come in tempi pacifici avviene, fu vôlto a’ servigi privati: camere, prigioni, manifatture; la fossa occupata da case ed orti; gli spalti da giardini. Ma nel 1846, volendosi allargar una piazza tra esso e il lago per uso del mercato, si stimò bene far la colmata colle pietre della fortezza medesima, togliendo così in gran parte il carattere pittoresco di questo borgo, e mascherandone la veduta con folte piante. Nella demolizione uscirono lapidi e rovine e frammenti curiosi, di cui qui non è luogo di ragionare.

Il patrio castello ispirava all’autore la seguente romanza nel 1834: