Occhi e nasi/Gli ultimi fiorentini/Il fiorentino viaggiatore

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Il fiorentino viaggiatore

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Il fiorentino viaggiatore.


Il fiorentino d’una volta, visto a occhio nudo, pareva un mammifero come tutti gli altri: ma poi, osservandolo bene con la lente d’ingrandimento, si capiva invece che era un vegetabile, [p. 187 modifica]concimato e potato per conto dei granduca: un vegetabile, che nasceva e fioriva abbarbicato tenacemente fra le fessure del lastrico e dei marciapiedi della sua città.

Per toglierlo da Firenze e portarlo un chilometro più in là, bisognava svellerlo dalle radici; sbarbarlo addirittura.

Tutto il suo mondo finiva alle mura cittadine. Fuori delle mura quattro passi, cominciava per lui l’ignoto, il maraviglioso, il paese della favola e della leggenda.

La sua vita era monotona e regolata come un cronometro inglese. Durante il giorno lavorava, o stava a veder lavorare, le due sole maniere conosciute fin qui per guadagnarsi onestamente il pane. Venuta la sera, andava al Teatro o al Caffè: alle otto pigliava un poncino: dalle otto e mezzo alle dieci diceva male del Governo e del Municipio; e sonate le undici il Granduca gli spengeva i lumi nelle strade e lo mandava a dormire, perchè così avesse tutto il comodo di sognare a benefizio della I. e R. Amministrazione del lotto.

Il segno più caratteristico del vero fiorentino era la sua tradizionale antipatia per i viaggi, e in particolare per i lunghi viaggi.

Il fiorentino, bisogna rendergli questa giustizia, non è stato mai una rondine: anzi si può dire a suo onore, che non ha mai avuto nulla di comune con le rondini; nemmeno la passione per le mosche. Basterebbe a provarlo quell’antichissimo proverbio, giunto fino a noi, che cantava [p. 188 modifica]così: «Il viaggio dei fiorentini arriva fino alla Madonna della Tosse» — vale a dire, venticinque o trenta metri distante dalla città.

I viaggiatori più audaci, di cui possa vantarsi Firenze, sono quei primi argonauti che tentarono risalire il fiume Arno fino alle falde ciclopiche e inospitali dell’ultima Compiobbi, e quei pochi avventurieri di terraferma, che, nella seconda metà del secolo scorso, per una folle ambizione di scoprire nuovi continenti e nuovi arcipelaghi, non esitarono a spingersi arditamente fino all’estremo lembo di quelle regioni iperboree, chiamate dai geografi «le Cascine».

Un solo fiorentino, da quanto racconta la storia, rinnegando gli usi e le costumanze sedentarie del suo paese, osò avventurarsi in un lunghissimo viaggio al di là dei mari! e lo sciagurato non aveva nemmeno la scusa di essere un cassiere!

Le cronache del tempo ci conservarono il nome di questo grande imprudente; si chiamava Amerigo Vespucci. Per altro, il giusto Iddio non volle lasciare impunita tanta temerità, e condannò il Vespucci a essere cantato in ottava rima dalla signora Amalia Paladini. Speriamo che questo segno manifesto della collera divina possa servire di lezione ai nostri figli e ai figli dei nostri figli!

Il viaggio più lungo e più pericoloso, che si trovi rammentato nelle effemeridi fiorentine di quarant’anni fa, era il viaggio da Firenze a Livorno. [p. 189 modifica]

In quel tempo, quando un fiorentino sentiva per caso in sè tanta forza da dire addio con ciglio asciutto alla patria diletta, al dolce tetto natìo e alla cara e tenera famigliuola, la prima cosa che si attentava a fare era quella di muovere, in carovana, verso la mille volte sospirata labronica spiaggia.

Tre ragioni potentissime, imperiose, irresistibili lo spingevano a questo passo:

— vedere il mare;

— fare degli studj comparativi fra il pane dell’istruzione e i maccheroni dei cavallegeri, e

— contemplare da vicino la nave ammiraglia «il Giglio», nave formidabile, che sotto le mentite apparenze di una scatola di pasta sfoglia dorata, rappresentava da sè sola tutta la marina militare etrusca; preistorica nave, sulla quale i nostri archeologi avevano rintracciato alcune penne benissimo conservate, cadute probabilmente alla colomba del diluvio, quando tornò colla ciocca d’ulivo nel becco, per far capire a Noè che oramai era spiovuto e che lui poteva chiudere l’ombrello e scendere a terra.

Appena il fiorentino, reduce dal suo pellegrinaggio a Livorno, rimetteva i piedi sulla soglia domestica, tutti gli amici gli si affollavano dintorno domandandogli com’è naturale, fra le prime cose:

— Da’ retta Nanni, che è bello dimolto il mare? [p. 190 modifica]

— Io non vi dirò che sia brutto: ma gira e rigira, alla fine l’è tutt’acqua; e per me l’acqua l’ha saputo sempre di poco, anche quando l’è salata.

— O per noi? noi s’è detto sempre piuttosto un bicchier di vino, che tutto il Mediterraneo. A proposito, Nanni; tu che da ragazzo hai studiato geometria, perchè il mare a Livorno lo chiamano il Mediterraneo?

— Gli è un soprannome che gli hanno messo i livornesi. I livornesi sono famosi per queste burlette. Figuratevi che loro le «Cascine», invece di chiamarle come noi, le chiamano «l’Ardenza».