Orlando innamorato/Libro primo/Canto quarto

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Libro primo

Canto quarto

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Libro primo - Canto terzo Libro primo - Canto quinto

 
1   L’altro cantar vi contò la travaglia
     Che fu tra’ duo baroni incominciata;
     E forse un altro par di tanta vaglia
     Non vede il sol che ha la terra cercata.
     Orlando con alcun mai fe’ battaglia
     Che al terzo giorno gli avesse durata,
     Se non sol duo, per quanto abbia saputo:
     L’un fu don Chiaro, e l’altro Feraguto.

2   Or se tornano insieme ad afrontare,
     Con vista orrenda e minacciante sguardo.
     Ogniun di lor più se ha a meravigliare
     De aver trovato un baron sì gagliardo.
     Prima credea ciascun non aver pare;
     Ma quando l’uno a l’altro fa riguardo,
     Iudica ben e vede per certanza
     Che non v’è gran vantaggio di possanza.

3   E cominciarno il dispietato gioco,
     Ferendose tra lor con crudeltate.
     Le spade ad ogni colpo gettan foco,
     Rotti hanno i scudi e l’arme dispezzate;
     E ciascadun di loro a poco a poco
     Ambe le braccie se avean disarmate.
     Non pôn tagliarle per la fatasone,
     Ma di color l’han fatte di carbone.

4   Così le cose tra quei duo ne vano,
     Né v’è speranza de vittoria certa.
     Eccoti una donzella per il piano,
     Che de samito negro era coperta.
     La faccia bella se battia con mano;
     Dicea piangendo: - Misera! diserta!
     Qual omo, qual Iddio me darà aiuto,
     Che in questa selva io truovi Feraguto? -

5   E come vide li duo cavallieri,
     Col palafreno in mezo fu venuta.
     Ciascun di lor contiene il suo destrieri;
     Essa con riverenzia li saluta,
     E disse a Orlando: - Cortese guerrieri,
     A benché tu non m’abbi cognosciuta,
     Né io te cognosco, per mercè te prego
     Che alla dimanda mia non facci nego.

6   Quel ch’io te chiedo si è che la battaglia
     Sia mo compiuta, c’hai con Feraguto,
     Perch’io mi trovo in una gran travaglia,
     Né me è mestier d’altrui sperare aiuto.
     Se la fortuna mai vorà ch’io vaglia,
     Forse che un tempo ancor serà venuto
     Che di tal cosa te renderò merto.
     Giamai nol scordarò: questo tien certo. -

7   Il conte a lei rispose: - Io son contento,
     (Come colui che è pien di cortesia),
     E se de oprarme te viene in talento,
     Io te offerisco la persona mia;
     Né me manca per questo valimento.
     Abenché Feragù forse non sia,
     Nulla di manco per questo mistiero
     Farò quel che alcun altro cavalliero. -

8   La damisella ad Orlando se inchina,
     E volta a Feragù disse: - Barone,
     Non me cognosci ch’io son Fiordespina?
     Tu fai battaglia con questo campione,
     E la tua patria va tutta in ruina;
     Né sai, preso è tuo patre e Falsirone;
     Arsa è Valenza e disfatta Aragona,
     Ed è lo assedio intorno a Barcellona.

9   Uno alto re, che è nomato Gradasso;
     Qual signoreggia tutta Sericana,
     Con infinita gente ha fatto il passo
     Contra al re Carlo e la gente pagana.
     Cristiani e Saracin mena a fracasso,
     Né tregua o pace vôl con gente umana.
     Discese a Zebeltaro, arse Sibilia;
     Tutta la Spagna del suo foco impiglia.

10 Il re Marsilio a te solo è rivolto,
     E te piangendo solamente noma;
     Io vidi il vecchio re battersi il volto,
     E trar del capo la canuta chioma.
     Vien; scodi il caro patre che ti è tolto,
     E il superbo Gradasso vinci e doma.
     Mai non avesti e non avrai vittoria
     Che più de ora te acquisti fama e gloria. -

11 Molto fu stupefatto il Saracino,
     Come colui che ascolta cosa nova;
     E volto a Orlando disse: - Paladino,
     Un’altra volta farem nostra prova.
     Ma ben te giuro per Macon divino
     Che alcun simile a te non se ritrova;
     E se io te vinco, io non te mi nascondo,
     Ardisco a dir ch’io sono il fior del mondo. -

12 Or se parton d’ensieme i cavallieri;
     Orlando se dricciò verso Levante,
     Ché tutto il suo disire e il suo pensieri
     È di seguir de Angelica le piante;
     Ma gran fatica li farà mestieri,
     Perché, come se tolse a lor davante
     La damigella, per necromanzia
     Portata fu, che alcun non la vedia.

13 Va Feraguto con molto ardimento
     Per quella selva menando fracasso,
     Ché ciascuna ora li parea ben cento
     Di ritrovarse a fronte con Gradasso;
     Però ne andava ratto come un vento.
     Ma il ragionar di lui ora vi lasso,
     E tornar voglio a Carlo imperatore,
     Che della Spagna sente quel rumore.

14 Il suo consiglio fece radunare:
     Fuvi Ranaldo ed ogni paladino;
     E disse loro: - Io odo ragionare,
     Che, quando egli arde il muro a noi vicino,
     De nostra casa debbiam dubitare.
     Dico che, se Marsilio è saracino,
     Ciò non attendo; egli è nostro cognato,
     Ed ha vicino a Francia gionto il stato.

15 Ed è nostro parere e nostra intenza
     Che si li dona aiuto ad ogni modo,
     Contra alla estrema ed orribil potenza
     Del re Gradasso, il qual, sì come io odo,
     Minaccia ancor di Francia a la eccellenza,
     Né della Spagna sta contento al sodo.
     Ben potemo saper che per nïente
     Non fa per noi vicin tanto potente.

16 Vogliamo adunque per nostra salute
     Mandar cinquanta millia cavallieri;
     E cognoscendo l’inclita virtute
     Del pro’ Ranaldo, e come è buon guerrieri,
     Nostro parer non vogliam che si mute,
     Ché a megliorarlo non faria mestieri:
     In questa impresa nostro capitano
     Sia generale il sir di Montealbano.

17 Vogliam che abbia Bordella e Rosiglione,
     Linguadoca e Guascogna a governare,
     Mentre che durarà questa tenzone;
     E quei segnor con lui debbiano andare. -
     Così dicendo, gli porge il bastone.
     Ranaldo si ebbe in terra a ingenocchiare,
     Dicendo: - Forzaromme, alto segnore,
     Di farme degno di cotanto onore. -

18 Egli avea pien di lacrime la faccia
     Per allegrezza, e più non può parlare;
     Lo imperator strettamente lo abbraccia,
     E dice: - Figlio, io ti vo’ racordare
     Ch’io pono il regno mio nelle tue braccia,
     Il quale è in tutto per pericolare.
     Via se ne è gito, e non so dove, Orlando:
     Il stato mio a te lo racomando. -

19 Questo li disse ne l’orecchia piano.
     Ciascun se va con Ranaldo allegrare:
     Ivone ed Angelin, che con lui vano,
     E gli altri ancor, che seco hanno a passare.
     Ranaldo a tutti con parlare umano
     Proferir si sapeva e ringraziare.
     Subitamente se pose in vïaggio,
     E fu ordinato in Spagna il suo passaggio.

20 Ciascun bon cavallier, ch’è di guerra uso,
     Segue Ranaldo e la Francia abandona.
     Montano l’alpe, sempre andando in suso,
     E già vedon fumar tutta Aragona.
     Essi vargarno al passo del Pertuso,
     In poco tempo gionsero a Sirona.
     Il re Marsilio quivi era fermato;
     Grandonio in Barcelona avea mandato,

21 Per riparare al tenebroso assedio,
     Benché si creda non poter giovare,
     Né lui sa imaginare alcun remedio,
     Che non convenga il regno abandonare;
     E per malanconia e molto atedio
     Sol se ne sta, né si lascia parlare.
     Ora ad un tempo li viene lo aiuto
     Di Carlo Magno, e gionse Feraguto.

22 Era con lui già prima Serpentino,
     Isoliere e Spinella e il re Morgante,
     E Matalista, il franco Saracino,
     Lo Argalifa di Spagna e lo Amirante.
     Ogni altro baron grande e piccolino,
     Che al re Marsilio obediva davante,
     Coi fratel Balugante e Falsirone,
     Tutti son morti, o son nella pregione.

23 Imperoché Gradasso smisurato,
     Da poi che se partì de Sericana,
     Tutto il mar de India avea conquistato,
     E quella isola grande Taprobana,
     La Persia con la Arabia lì da lato,
     Terra de’ negri, che è tanto lontana;
     E mezo il mondo ha circuito in mare,
     Pria che ’l stretto di Spagna abbia intrare.

24 E tanta gente avea seco adunata,
     E tanti re, che adesso non vi naro,
     Che più non ne fu insieme alcuna fiata.
     Discese in terra, e prese Zibeltaro,
     Arse e disfece il regno di Granata;
     Sibilia né Toledo fier’ riparo.
     Venne dapoi a Valenzia meschina;
     Con Aragona la pose in ruina.

25 Sì come io dissi, aveva in sua pregione
     Ogni baron che a Marsilio obedia,
     Tratti coloro de cui fei ragione,
     Che dentro da Sirona seco avia,
     E de Grandonio, che in opinïone
     De esser ben presto preso se vedia:
     Ché Barcellona da sera a matina
     È combattuta, e mai non se rafina.

26 Ora tornamo al re Marsilïone,
     Che riceve Ranaldo a grande onore,
     E molto ne ringrazia il re Carlone.
     Ma Feraguto bacia con amore,
     Dicendo: - Figlio, io tengo opinïone
     Che la tua forza e l’alto tuo valore
     Abbatterà Gradasso, quel malegno,
     A noi servando il nostro antiquo regno. -

27 Ordine dasse, che il giorno seguente
     Se debba verso Barcellona andare,
     Perché Grandonio continuamente
     Con foco aiuto aveva a dimandare.
     Così fôrno ordinate incontinente
     Le schiere, e chi le avesse a governare.
     La prima che se parte al matutino,
     Guida Spinella e il franco Serpentino.

28 Vinti millia guerreri è questa schiera.
     Segue Ranaldo, il franco combattente:
     Cinquanta millia sotto sua bandiera.
     Matalista vien drieto e il re Morgante,
     Con trenta millia di sua gente fiera;
     Ed Isolier da poi con lo Amirante,
     Con vinti millia; e a lor drieto in aiuto
     Trenta milliara mena Feraguto.

29 Il re Marsilio l’ultima guidava,
     Cinquanta millia de bella brigata.
     Ciascuna schiera in ordine ne andava,
     L’una da l’altra alquanto separata.
     Era il sol chiaro e a l’ôra sventillava
     Ogni bandiera, che è ad alto spiegata;
     Sì che al calar del monte fôr vedute
     Dal re Gradasso, e da’ soi cognosciute.

30 Quattro re chiama, e lor così ragiona:
     - Cardon, Francardo, Urnasso e Stracciaberra,
     Combattete alle mura Barcellona,
     E questo giorno ponitele a terra.
     Non vi rimanga viva una persona;
     E quel Grandonio che fa tanta guerra,
     Io voglio averlo vivo nelle mane
     Per farlo far battaglia col mio cane. -

31 Questi son de India sopra nominati.
     Di negra gente seco ne avean tanti,
     Quanti mai non seriano annumerati:
     Ed oltra a questo duo millia elefanti,
     Di torre e di castella tutti armati.
     Ora Gradasso fa venirse avanti
     Un gran gigante, re di Taprobana,
     Che ha una giraffa sotto per alfana.

32 Più brutta cosa non se vide mai
     Che ’l viso di quel re, che ha nome Alfrera.
     A lui disse Gradasso: - Ne anderai,
     Fa che me arrechi la prima bandiera;
     Tutta la gente mena, quanta n’hai. -
     E poi, rivolto con la faccia altiera
     Al re de Arabia, che gli è lì da lato,
     (Faraldo è quel robusto nominato),

33 A questo re comanda a mano a mano
     Che gli meni Ranaldo per presone,
     E la bandiera del re Carlo Mano:
     - Ma guarda che non scampi il suo ronzone
     Ch’io te faria impiccar come un villano;
     Ché quel cavallo è stato la cagione
     Che me ha fatto partir de Sericana,
     Per aver quello e insieme Durindana. -

34 Al re di Persia fa comandamento
     Che prenda Matalista e il re Morgante:
     Framarte è questo, il re di valimento.
     Ecco il re di Macrobia, ch’è gigante,
     Che tutto negro è come un carbon spento:
     Pigliar debbe Isoliere e lo Amirante.
     Destrier non ha, ma sempre va pedone
     Questo gigante, ed ha nome Orïone.

35 Re de Etïopia fu un gigante arguto,
     Che quasi un palmo avea la bocca grossa.
     Davanti al re Gradasso fu venuto
     (Balorza ha nome quel c’ha tanta possa);
     Comandagli che prenda Feraguto.
     Ultimamente pone alla riscossa
     Li Sericani ed ogni suo barone:
     Ma lui non se arma e sta nel paviglione.

36 Diciamo de Marsilio e di sua gente,
     Che sopra al campo vengono arivare,
     Vedendo il piano de sotto patente,
     Che è pien de omini armati insino al mare.
     E’ non credeano già primeramente
     Che tanta gente potesse adunare
     Il mondo tutto, quanto è quivi unita;
     Né la posson stimar, perché è infinita.

37 L’un campo a l’altro più se fa vicino,
     Ché le bandiere a l’incontro se vano.
     Ciascun dalle due parte è saracino,
     Fuor che la gente del re Carlo Mano.
     Spinella de Altamonte e Serpentino
     Con la lor schiera son gionti nel piano;
     Levasi il crido de una e d’altra gente,
     Che par che il cel profondi veramente.

38 Risuona il monte e tutta la rivera
     Di trombe, di tamburi e d’altre voce.
     Serpentin sta davanti alla frontera,
     Sopra a corsier terribile e veloce.
     Ora si move il gran gigante Alfrera:
     Cosa non fu giamai tanto feroce,
     Quanto è colui, che trenta piedi è altano
     Su la zirafa, ed ha un bastone in mano.

39 Di ferro è tutto quanto quel bastone:
     Tre palmi volge intorno per misura.
     Serpentin contra lui va di rondone
     Con l’asta a resta, e già non ha paura.
     Ferì il gigante e ruppe il suo troncone;
     Ma quella contrafatta creatura
     Ha con tal forcia Serpentin ferito,
     Che lo distese in terra tramortito.

40 Nulla ne cura e lascialo disteso;
     Con la zirafa passa entro la schiera.
     Trova Spinella, e nel braccio l’ha preso;
     Via nel portò, come cosa leggiera.
     Tutta la gente, di furore acceso,
     Col baston batte, e branca la bandiera,
     E quella al re Gradasso via mandone,
     Insieme con Spinella, chi è prigione.

41 Ranaldo la sua schiera avea lasciata
     In man de Ivone e del fratello Alardo,
     E la battaglia avea tutta guardata,
     E quanto il grande Alfrera era gagliardo.
     Veggendo quella gente sbarattata,
     Tempo non parve a lui de esser più tardo:
     Manda a dire ad Alardo che si mova;
     Lui con la lancia il gran gigante trova.

42 Or che li potrà far, che quel portava
     Un coi’ di serpa sopra la coraccia?
     Ma pur con tanta furia lo inscontrava,
     Che la ziraffa e lui per terra caccia.
     Poi tra la schiera Bagliardo voltava,
     E ben de intorno con Fusberta spaccia.
     Tutti i Cristiani intanto ve arivaro;
     Non vi fu a’ Saracini alcun riparo.

43 Vanno per la campagna in abandono;
     Rotta, stracciata fu la sua bandiera,
     Benché dugento millia armati sono.
     Or di terra si leva il forte Alfrera,
     Più terribile assai ch’io non ragiono;
     Ma poi che vide in volta la sua schera,
     Con la ziraffa se messe a seguire,
     Non so se per voltarli o per fuggire.

44 Ranaldo è con lor sempre mescolato,
     Ed a destra e sinistra il brando mena;
     Chi mezzo il capo, chi ha un braccio tagliato,
     Le teste in l’elmi cadeno a l’arena.
     Come un branco di capre disturbato,
     Cotal Ranaldo avanti sé li mena:
     Ora convien che ’l faccia maggior prove,
     Ché il re Faraldo la sua schiera move.

45 Era quel re de Arabia incoronato,
     E non aveva fin la sua possanza.
     Or non può suo valore aver mostrato,
     Perché Ranaldo de un contro di lanza
     L’ha per il petto alle spalle passato.
     Tocca Bagliardo, e con molta arroganza
     Dà tra gli Arabi, ché nulla li preza:
     Con l’urto atterra e con la spada speza.

46 Era però Ranaldo accompagnato,
     Per le più volte, de assai buon guerreri;
     Guizardo e Ricciardetto li era a lato,
     E lo re Ivone, Alardo ed Anzolieri;
     Ed ora Serpentino era arivato,
     Chi è risentito e tornato a destrieri.
     Ma de lor tutti è pur Ranaldo il fiore;
     De ogni bel colpo lui solo ha l’onore.

47 Tutta la gente de li Arabi è in piega,
     Gambili e dromendarii a terra vano;
     Ranaldo li cacciò più de una lega.
     Or vien Framarte, il gran re persïano,
     La sua bandiera d’oro al vento spiega,
     Ben lo adocchia il segnor di Montealbano.
     Adosso a lui con la lancia se caccia;
     Dopo le spalle il passa ben tre braccia.

48 Quel gran re cade morto alla pianura,
     Fuggeno i suoi per la campagna aperta.
     Ranaldo mena colpi a dismisura:
     Non dimandar se ’l frappa con Fusberta.
     Ecco Orïone, la sozza figura;
     Mai non fu visto cosa più deserta:
     Negro fra tutti, e nulla porta indosso,
     Ma la sua pelle è dura più che un osso.

49 Venne il gigante nudo alla battaglia,
     Uno arbor avea in mano il maledetto;
     Tutta la schiera de’ Cristian sbaraglia,
     Non ve ha diffesa scudo o bacinetto.
     Avea d’intorno a sé tanta canaglia,
     Che per forza Ranaldo fu costretto
     Ritrarsi alquanto e suonare a ricolta,
     Per ritornar più stretto l’altra volta.

50 Ma mentre con li altri se consiglia,
     Ed halli il suo partito dimostrato,
     E già la lancia su la cossa piglia,
     Giunse l’Alfrera, quello ismisurato,
     Con tanta gente, che è una meraviglia.
     Ed eccoti arivar da l’altro lato
     L’alto Balorza; e tanta gente viene,
     Che in ogni verso sette miglia tiene.

51 Venian cridando con tanto rumore,
     Che la terra tremava e il celo e il mare.
     Ivone e Serpentino e ogni segnore
     Dicean che aiuto si vôl domandare.
     Dicea Ranaldo: - E’ non serebbe onore.
     Voi vi potete adietro retirare:
     Ed io soletto, come io son, mi vanto
     Metter quel campo in rotta tutto quanto. -

52 Né più parole disse il cavalliero,
     Ma strenge i denti e tra color se caccia;
     Rompe la lancia lo ardito guerriero,
     Poi con Fusberta se fa far tal piaccia,
     Che aiuto de altri non li fa mestiero;
     E con voce arrogante li minaccia:
     - Via! populaccio vil, senza governo!
     Che tutti ancòi vi metto nello inferno. -

53 Il re Marsilio da il monte ha veduto
     Movere a un tratto cotanta canaglia;
     Per un suo messo dice a Ferraguto
     Che ogni sua schiera meni alla battaglia.
     Ranaldo già de vista era perduto:
     Lui tra la gente saracina taglia,
     Tutta la sua persona è sanguinosa;
     Mai non se vide più terribil cosa.

54 Or si comincia la battaglia grossa.
     A tutti Feraguto vien davante:
     Giamai non fu pagan di tanta possa.
     Isolier, Matalista e il re Morgante,
     Ciascuno è ben gagliardo e dura ha l’ossa.
     L’Argalifa vien drieto e lo Amirante;
     Prima entrato era Alardo e Serpentino,
     Ivone e Ricciardetto ed Angelino.

55 Il re Balorza, con la faccia scura,
     Ne porta sotto il braccio Ricciardetto;
     Combatte tutta fiata, e non ha cura
     De aver nel braccio manco il giovanetto.
     Ogniun ben de aiutarlo se procura,
     Ma il gigante il porta al lor dispetto.
     Alardo, Ivone ed Angelin li è intorno:
     Esso de tutti fa gran beffe e scorno.

56 Il terribile Alfrera avea levato,
     Al suo dispetto, Isolier dello arcione.
     Feraguto li è sempre nel costato,
     Né vôl che ’l porta senza questïone.
     Vero è che ’l suo destriero è spaventato,
     Né può accostarse con nulla ragione:
     Per la ziraffa, lo animal diverso,
     Fugge il cavallo indrieto ed a traverso.

57 Il crudel Orïone alcun non piglia,
     Ma con l’arbore occide molta gente,
     E petto e faccia ha di sangue vermiglia;
     Lancie, né spade non cura nïente,
     Ché la sua pelle a uno osso se assomiglia.
     Ora tornamo a Ranaldo valente,
     Che forte se conturba nello aspetto,
     Perché Balorza porta Ricciardetto.

58 Se or non mostra Ranaldo il suo valore,
     Giamai nol mostrarà il barone accorto;
     Ché a Ricciardetto porta tanto amore,
     Che per camparlo quasi serìa morto.
     Dente con dente batte a gran furore,
     L’uno e l’altro occhio nella fronte ha torto.
     Ma al presente io lascio sua battaglia,
     Per ricontarvi un’altra gran travaglia.

59 Io ve contai pur mo che in Barcellona
     Stava Grandonio, e facea gran diffesa;
     Come a quei de India e soi re de corona
     Fo comandato che l’avesser presa.
     Turpin di questa cosa assai ragiona,
     Perché non fu giamai più cruda impresa.
     Forte è la terra, intorno ben murata;
     Or se è la gran battaglia incominciata.

60 Da mezodì, dove la batte il mare,
     Era ordinato un naviglio infinito;
     Da terra gli elefanti hanno a menare,
     Di torre e di beltresche ogniom guarnito.
     Fanno quei Negri sì gran saettare,
     Che ciascun nella terra è sbigottito;
     Ogni om s’asconde e fugge per paura,
     Grandonio solo appar sopra alle mura.

61 Comincia il crido orribile e diverso,
     Ed alle mura s’accosta la gente.
     Non è Grandonio già per questo perso,
     Ma se diffende nequitosamente;
     Tira gran travi dritto ed a traverso;
     Pezzi di torre e merli veramente,
     Colonne integre lancia quel gigante;
     Ad ogni colpo atterra uno elefante.

62 E va d’intorno facendo gran passo,
     Salta per tutto quasi in un momento;
     Di ciò che gli è davanti, fa fraccasso,
     Getta gran foco con molto spavento;
     Perché la gente, che era gioso al basso,
     Che e soi fatti vedea e suo ardimento,
     Solfo gli dànno con pegola accesa;
     Lui tra’ la vampa fuora alla distesa.

63 Lasciam costoro, e torniamo a Ranaldo,
     Che nella mente tutto se rodia;
     Tanto è di scoter Ricciardetto caldo,
     Che se dispera e non trova la via.
     Quel gran gigante sta lì fermo e saldo,
     E un gran baston di ferro in man tenìa;
     Armato è tutto da capo alle piante,
     E per destriero ha sotto uno elefante.

64 Or non gli vale il furïoso assalto,
     Non vale a quel barone esser gagliardo,
     Però che non puotea gionger tanto alto.
     Subitamente smonta di Baiardo,
     E nella croppa se gitta d’un salto
     A quel gigante, che non gli ha riguardo;
     L’elmo gli spezza e d’acciaro una scoffia,
     Né pone indugia che ’l colpo ridoppia.

65 Par che si batta un ferro alla fucina;
     Quella gran testa in due parte disserra.
     Cadde ’l gigante con tanta roina,
     Che a sé d’intorno fie’ tremar le terra.
     Or ne fugge la gente saracina,
     Che è dinanzi a Ranaldo in quella guerra,
     Come la lepre fugge avanti al pardo:
     Stretti gli caccia quel baron gagliardo.

66 Aveva Feraguto tuttavia
     Più de quattro ore cacciato l’Alfrera;
     Ardea ne gli occhi pien de bizaria,
     Perché non trova modo, né maniera
     Per la quale Isolier riscosso sia.
     Quella ziraffa, contraffatta fera,
     Via ne lo porta, correndo il trapasso;
     E giunse al pavaglion, nanti a Gradasso.

67 Ferragù segue dentro al paviglione.
     L’Alfrera, che se vide al ponto stretto,
     Getta Isoliero e mena del bastone,
     Ed ebbel gionto sopra al bacinetto,
     E sbalordito il fe’ cader de arcione:
     Quel gran gigante li fu presto al petto.
     Così fu preso l’ardito guerreri.
     Torna l’Alfrera, e prese anco Isolieri.

68 Dicea l’Alfrera: - Io ti so dir, segnore,
     Che nostra gente è rotta ad ogni modo,
     Ché quel Ranaldo è di troppo valore.
     Mal volentiera un tuo nemico lodo;
     Ma, senza dir d’altrui, lui si fa onore,
     E poco d’ora fa, sì come io odo,
     Partì la testa al gigante Balorza;
     Or pôi pensar, segnor, se egli ha gran forza.

69 A chi te piace de’ tuoi ne dimanda,
     Benché anch’io sappia della sua possanza,
     Ché ’l re Faraldo d’una ad altra banda
     Vidi io passato d’un scontro de lanza.
     Il re di Persia a Macon racomanda,
     Che fu pur gionto a simigliante danza.
     Debb’io tacer di me, che andai per terra,
     Che mai non mi intervenne in altra guerra? -

70 Dicea Gradasso: - Può questo Iddio fare,
     Che quel Ranaldo sia tanto potente?
     Chi me volesse del cel coronare
     (Perché la terra io non stimo nïente),
     Non me potrebbe al tutto contentare,
     S’io non facessi prova de presente,
     Se quel barone è cotanto gagliardo
     Che mi diffenda il suo destrier Baiardo. -

71 Così dicendo chiede l’armatura,
     Quella che prima già portò Sansone.
     Non ebbe il mondo mai la più sicura;
     Da capo a piedi se arma il campïone.
     Ecco la gente fugge con paura,
     Dietro gli caccia quel figlio d’Amone.
     Non pô Gradasso star sì poco saldo,
     Che dentro al pavaglion serà Ranaldo.

72 Più non aspetta, e salta su l’alfana.
     Questa era una cavalla smisurata:
     Mai non fu bestia al mondo più soprana;
     Come Baiardo proprio era intagliata.
     Ecco Ranaldo, che gionge alla piana,
     In mezo della gente sbaratata.
     Oh quanto ben d’intorno il camin spaza,
     Troncando busti e spalle e teste e braza!

73 Ora se move il forte re Gradasso
     Sopra l’alfana, con tanta baldanza,
     Che tutto il mondo non stimava un asso.
     Verso Ranaldo bassava la lanza,
     E nel venir menava tal fraccasso,
     Che Baiardo il destrier n’ebbe temanza.
     Sedeci piedi salì suso ad alto;
     Non fo mai visto il più mirabil salto.

74 Il re Gradasso assai si meraviglia,
     Ma mostra non curare, e passa avante;
     Tutta la gente sparpaglia e scombiglia,
     Per terra abbatte Ivone e il re Morgante.
     L’Alfrera, che gli è dietro, questi piglia,
     Ché sempre lo seguiva quel gigante.
     Trova Spinella, Guizardo e Angelino:
     Tutti gli abbatte il forte Saracino.

75 Ranaldo se ebbe indietro a rivoltare,
     E vide quel pagan tanto gagliardo.
     Una grossa asta in man se fece dare,
     E poi dicea: - O destrier mio Baiardo,
     A questa volta, per Dio! non fallare,
     Ché qui conviensi avere un gran riguardo.
     Non già, per Dio! ch’io mi senta paura;
     Ma quest’è un omo forte oltra misura. -

76 Così dicendo serra la visiera,
     E contra al re ne vien con ardimento.
     Videl Gradasso, la persona altiera:
     Mai, da che nacque, fo tanto contento;
     Ché a lui par cosa facile e leggiera
     Trar de l’arcion quel sir de valimento.
     Ma nella prova l’effetto si vede:
     Più fatica li avrà ch’el non si crede.

77 Fo questo scontro il più dismisurato
     Che un’altra volta forse abbiate udito.
     Baiardo le sue croppe misse al prato,
     Che non fu più giamai a tal partito,
     Benché se fo de subito levato.
     Ma Ranaldo rimase tramortito;
     L’alfana trabuccò con gran fracasso:
     Nulla ne cura il potente Gradasso.

78 Spronando forte la facea levare,
     Tra l’altra gente dà senza paura.
     Dice a l’Alfrera che debba pigliare
     Ranaldo, e che ’l destrier mena con cura.
     Ma certo e’ gli lasciò troppo che fare,
     Perché Baiardo per quella pianura
     Via ne portava il cavalliero ardito;
     In poco de ora se fo risentito.

79 Credendosi ancora esser là dove era
     Il re Gradasso, prende il brando in mano;
     Con la zirafa lo seguia l’Alfrera,
     Che quasi ancora l’ha seguìto in vano.
     Sopra Baiardo, la bestia leggiera,
     Ranaldo va correndo per il piano;
     Per tutto va cercando, e piano e monte,
     Sol per trovarse con Gradasso a fronte.

80 Ed eccoti davanti, ed ha abbattuto
     Fuor de l’arcione il suo fratello Alardo.
     Esso non ha Ranaldo ancor veduto,
     Ché in quella parte non facea riguardo.
     Ma de improviso li è sopra venuto,
     E punto nel ferir non fu già tardo.
     A due man mena con tanta flagella,
     Che sel crede partir fin su la sella.

81 Non fu il gran colpo a quel re cosa nova,
     Ché di valor portava la ghirlanda;
     Né crediati per questo che si mova,
     Né arma si spezzi, né sangue si spanda.
     Disse a Ranaldo: - Or vederem la prova,
     E dir potrai, se alcun te ne dimanda,
     Qual sia di noi più franco feritore.
     Se ora mi campi, io te dono l’onore. -

82 Così ragiona il forte saracino,
     E mena della spada tutta fiata;
     Cade Ranaldo tramortito e chino,
     Ché mai tal botta non ha lui provata.
     Lo elmo affatato, che fu de Mambrino,
     Gli ha questa volta la vita campata.
     Presto Baiardo adietro si è voltato,
     Stavi Ranaldo in sul collo abbracciato.

83 Gradasso quasi un miglio l’ha seguìto,
     Ché ad ogni modo lo volea pigliare;
     Ma poi che for di vista gli fu uscito,
     È delibrato adrieto ritornare.
     Ora Ranaldo se fu risentito,
     E ben destina de se vendicare.
     Non è Gradasso rivoltato apena,
     Ranaldo un colpo ad ambe man li mena

84 Sopra de l’elmo con tanto furore,
     Che ben li fece batter dente a dente.
     Tra sé ridendo, quel re di valore
     Dicea: "Questo è un demonio veramente.
     Quando egli ha il peggio e quando egli ha il megliore,
     Ognior cerca la briga parimente.
     Ma sempre mai non li andarà ben còlta:
     Se non adesso, il giongo un’altra volta."

85 Così parlando quel Gradasso altiero
     Li viene adosso con gli occhi infiammati.
     Ranaldo tenìa l’occhio al tavoliero:
     Se ’l bisogna, segnor, non dimandati.
     Un colpo mena quel gigante fiero
     Ad ambe mani, ed ha i denti serrati.
     Il baron nostro sta su la vedetta:
     Trista sua vita se quel colpo aspetta!

86 Ma certamente e’ n’ebbe poca voglia;
     Con un gran salto via se fu levato.
     Radoppia il colpo il gigante con doglia;
     Baiardo se gittò da l’altro lato.
     - Può fare Iddio ch’una volta non coglia? -
     Diceva il re Gradasso disperato;
     E mena ’l terzo; ma nulla li vale:
     Sempre Baiardo par che metta l’ale.

87 Poi che assai se ebbe indarno affaticato,
     Delibra altrove sua forza mostrare,
     E nella schiera de’ nemici entrato
     Cavagli e cavallier fa trabuccare.
     Ma cento passi non è dislongato,
     Che Ranaldo lo vene a travagliare;
     E benché molto stretto non lo offenda,
     Forza li è pur che ad altro non attenda.

88 Tornati sono alla cruda tenzone:
     Bisogna che Ranaldo giochi netto.
     Ecco venire il gigante Orïone,
     Che se ne porta preso Ricciardetto.
     Per li piedi il tenìa quel can fellone:
     Forte cridava aiuto il giovanetto.
     Quando Ranaldo a tal partito il vede,
     Della compassïon morir si crede.

89 Così nel viso li abondava il pianto,
     Che veder non poteva alcuna cosa;
     Mai fu turbato alla sua vita tanto.
     Or li monta la colora orgogliosa.
     Ed io vi narrarò ne l’altro canto
     Il fin della battaglia dubitosa,
     Che, come io dissi, cominciò a l’aurora,
     E durò tutto il giorno, e dura ancora.