Orlando innamorato/Libro secondo/Canto ventesimosesto

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Libro secondo

Canto ventesimosesto

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Libro secondo - Canto ventesimoquinto Libro secondo - Canto ventesimosettimo

 
1   Il vago amor che a sue dame soprane
     Portarno al tempo antico e cavallieri,
     E le battaglie e le venture istrane,
     E l’armeggiar per giostre e per tornieri,
     Fa che il suo nome al mondo anco rimane,
     E ciascadun lo ascolti volentieri;
     E chi più l’uno, e chi più l’altro onora,
     Come vivi tra noi fossero ancora.

2   E qual fia quel che, odendo de Tristano
     E de sua dama ciò che se ne dice,
     Che non mova ad amarli il cor umano,
     Reputando il suo fin dolce e felice,
     Che, viso a viso essendo e mano a mano
     E il cor col cor più stretto alla radice,
     Ne le braccia l’un l’altro a tal conforto
     Ciascun di lor rimase a un ponto morto?

3   E Lancilotto e sua regina bella
     Mostrarno l’un per l’altro un tal valore,
     Che dove de’ soi gesti se favella,
     Par che de intorno il celo arda de amore.
     Traggase avanti adunque ogni donzella,
     Ogni baron che vôl portare onore,
     Ed oda nel mio canto quel ch’io dico
     De dame e cavallier del tempo antico.

4   Ma dove io vi lasciai, voglio seguire,
     Di Brandimarte e sua forte aventura,
     Qual quella dama di cui vi ebbi a dire,
     Avea condotto a quella sepoltura,
     Dicendo: - Questa converrai aprire,
     Ma poi non ti bisogna aver paura.
     Conviente essere ardito in questo caso:
     A ciò che indi uscirà, darai un baso. -

5   - Come! Un baso? - rispose il cavalliero.
     - È questo il tutto? Ora èvvi altro che fare?
     Non ha lo inferno un demonio sì fiero,
     Che io non gli ardisca il viso de accostare.
     Di queste cose non aver pensiero,
     Che dece volte lo averò a basare,
     Non che una sola, e sia quello che voglia;
     Orsù! Che quella pietra indi si toglia. -

6   Così dicendo prende uno annel d’oro,
     Che avea il coperchio de la sepoltura,
     E, riguardando quel gentil lavoro,
     Vide intagliata al marmo una scrittura,
     La qual dicea: ’ Fortezza, né tesoro,
     Né la beltate, che sì poco dura,
     Né senno, né lo ardir può far riparo,
     Ch’io non sia gionta a questo caso amaro.’

7   Poi che ebbe Brandimarte questo letto,
     La sepoltura a forza disserrava,
     Ed uscinne una serpe insino al petto,
     La qual forte stridendo zuffelava;
     Ne gli occhi accesa e d’orribil aspetto,
     Aprendo il muso gran denti mostrava.
     Il cavalliero, a tal cosa mirando,
     Se trasse adietro e pose mano al brando.

8   Ma quella dama cridava: - Non fare!
     Non facesti, per Dio, baron giocondo!
     Ché tutti ci farai pericolare,
     E caderemo a un tratto in quel profondo.
     Or quella serpe ti convien baciare,
     O far pensier de non essere al mondo:
     Accostar la tua bocca a quella un poco,
     O morir ti conviene in questo loco. -

9   - Come? Non vedi che e denti digrigna? -
     Disse il barone - e tu vôi che io la basi?
     Ed ha una guardatura sì maligna,
     Che de la vista io mi spavento quasi. -
     - Anci - disse la dama - ella t’insigna
     Come dèi fare; e molti altri rimasi
     Son per viltate in quella sepoltura:
     Or via te accosta e non aver paura. -

10 Il cavallier se accosta, e pur di passo,
     Ché molto non gli andava volentiera;
     Chinandosi alla serpe tutto basso,
     Gli parve tanto terribile e fiera,
     Che venne in viso morto come un sasso,
     E disse: - Se fortuna vôl ch’io pèra,
     Tanto fia un’altra fiata come adesso,
     Ma dar cagion non voglio per me stesso.

11 Così certo fossi io del paradiso,
     Come io son certo, chinandomi un poco,
     Che quella serpe me trarà nel viso,
     O pigliarami a’ denti in altro loco.
     Egli è proprio così come io diviso!
     Altri che me fia gionto a questo gioco,
     E dàmmi quella falsa tal conforto
     Per vendicare il suo baron che è morto. -

12 Dicendo questo indietro se retira,
     E destinato è più non se accostare.
     Or ben forte la dama se martira,
     E dice: - Ahi vil baron! che credi fare?
     Tanta tristezza entro il tuo cor se agira,
     Che in grave stento te farà mancare.
     Del suo scampo lo aviso, e non mi crede!
     Così fa ciascadun che ha poca fede. -

13 Or Brandimarte per queste parole
     Pur tornò ancora a quella sepoltura,
     Benché è pallido in faccia, come suole,
     E vergognosse de la sua paura.
     L’un pensier gli disdice, e l’altro vôle,
     Quello il spaventa, e questo lo assicura;
     Infin tra l’animoso e il disperato
     A lei se accosta, e un baso gli ebbe dato.

14 Sì come l’ebbe alla bocca baciata,
     Proprio gli parve de toccare un giaccio;
     La serpe, a poco a poco tramutata,
     Divenne una donzella in breve spaccio.
     Questa era Febosilla, quella fata
     Che edificato avea l’alto palaccio
     E il bel giardino e quella sepoltura
     Ove un gran tempo è stata in pena dura.

15 Perché una fata non può morir mai,
     Sin che non gionge il giorno del iudicio,
     Ma ben nella sua forma dura assai,
     Mille anni, o più, sì come io aggio indicio
     Poi (sì come di questa io ve contai,
     Qual fabricata avea il bello edificio)
     In serpe si tramuta e stavi tanto
     Che di basarla alcun se doni il vanto.

16 Questa, tornata in forma de donzella,
     Tutta de bianco se mostra vestita,
     Coi capei d’oro, a meraviglia bella:
     Gli occhi avea neri e faccia colorita.
     Con Brandimarte più cose favella,
     E proferendo a dimandar lo invita
     Quel che ella possa de incantazïone,
     De affatar l’arme o vero il suo ronzone.

17 E molto il prega che quell’altra dama
     Che quivi era presente tuttavia,
     Qual Doristella per nome se chiama,
     Voglia condur su il mar de la Soria,
     Perché il suo vecchio patre altro non brama,
     Che più filiol né figlia non avia.
     Re de la Liza è quel gran barbasoro,
     Ricco de stato e de arme e de tesoro.

18 Brandimarte accettò la prima offerta
     De aver l’arme e il destrier con fatasone,
     Poi Doristella, sì come ella merta,
     Condurre al patre con salvazïone.
     La porta del palagio ora era aperta,
     Batoldo avanti a quello era, il ronzone:
     Quando del drago il gigante il percosse,
     Cadde alla terra, e più mai non se mosse.

19 E morto là serìa veracemente,
     Se Febosilla, quella bella fata,
     Soccorso non l’avesse incontinente
     Con succi de erbe ed acqua lavorata.
     Poscia l’usbergo e la maglia lucente
     Ed ogni piastra ancora ebbe incantata.
     Da poi ch’ebbe fornita ogni dimanda,
     Da lei se parte e a Dio la ricomanda.

20 In mezo alle due dame il cavalliero
     Via tacito cavalca e non favella,
     Però che forse aveva altro pensiero;
     Onde, ridendo alquanto, Doristella
     Disse: - Io me avedo ben che egli è mestiero
     Che io sia colei che con qualche novella
     Faccia trovar lo albergo più vicino,
     Perché parlando se ascurta il camino.

21 E più ancor tanto volentier lo faccio,
     Che io vi dimostrarò per qual maniera
     Fosse condotta dentro a quel palaccio,
     Ove son stata un tempo pregioniera;
     Ed a voi credo che serà solaccio,
     Ed odireti molto volentiera
     Come a un zeloso mai scrimir non vale,
     E ben gli sta, ché è degno d’ogni male.

22 Due figlie ebbe mio patre Dolistone.
     La prima, essendo ancora fanciullina,
     Fu rapita per forza da un ladrone,
     Nel litto de la Liza alla marina.
     Per sposa era promessa ad un barone,
     Filiol del re d’Armenia, la tapina,
     Né novella di lei se seppe mai,
     Benché cercata sia nel mondo assai. -

23 Or Fiordelisa, interrompendo il dire,
     Il nome de la matre adimandava:
     Ma Brandimarte, che ha voglia de odire,
     Un poco sorridendo se voltava,
     - Per Dio! - dicendo - lasciala seguire,
     Ché voglia ho de ascoltar, se non ti grava. -
     E Fiordelisa, che lo amava assai,
     Queta si stette e non parlò più mai.

24 E Doristella segue: - Il damigello
     Nel quale era promessa mia germana,
     Dapoi crescette, fatto molto bello;
     Né sendo una sua terra assai lontana
     Ove stava il mio patre ad un castello,
     Spesso veniva la persona umana
     A visitarlo, sì come parente,
     Ben che non sia per quello inconveniente.

25 Andando e ritornando a tutte l’ore
     Di quanto dimorammo in quel paese,
     Mi piacque sì, ch’io fui presa d’amore,
     Veggendol sì ligiadro e sì cortese.
     Lui de altra parte ancor me avea nel core;
     Forse perché io l’amava se raccese,
     Ché quello è ben di ferro ed ostinato
     Il qual non ama essendo ponto amato.

26 Lui pur spesso ritorna a quel girone,
     E sempre il patre mio molto lo onora;
     In fin gli aperse la sua intenzïone,
     Credendo che io non sia promessa ancora;
     Ma quel malvaggio, perfido, bricone,
     Che occidesti al palazo in sua malora,
     Me avea richiesta proprio il giorno istesso,
     E ’l vecchio patre me gli avea promesso.

27 Quando ciò seppi, tu debbi pensare
     S’io biastemavo il celo e la natura;
     E diceva: "Macon non potria fare
     Che mai segua sua legge e sua misura,
     Poi che mi volse femina creare,
     Ché nasciemo nel mondo a tal sciagura,
     Che occelli e fiere ed ogni altro animale
     Vive più franco ed ha di noi men male.

28 E ben ne vedo lo esempio verace:
     La cerva e la colomba tuttavia
     Ama a diletto e segue chi gli piace,
     Ed io son data a non so chi se sia.
     Crudel Fortuna, perfida e fallace!
     Goderà adunque la persona mia
     Questo barbuto, e terrammi suggetta,
     Né vedrò mai colui che mi diletta?

29 Ma non serà così, sazo di certo,
     Ché ben vi saprò io prender riparo.
     Se ogni proverbio è veramente esperto,
     L’un pensa il giotto e l’altro il tavernaro.
     Se lo amor mio potrò tenir coperto
     Che non lo intenda alcuno, io lo avrò caro,
     E non potendo, io lo farò palese;
     Per un bon giorno io non stimo un mal mese."

30 Io faceva tra me questo pensiero
     Che io te ragiono; ma il termine ariva
     Che andarne sposa mi facea mestiero.
     Io non rimasi né morta né viva,
     Ché Teodoro, il mio bel cavalliero,
     Si resta a casa, ed io di lui son priva.
     A Bursa andar convengo, in Natollia,
     Ove mi mena la fortuna ria.

31 Sobasso era di Bursa il mio marito,
     E turcomano fo de nazïone;
     Gagliardo era tenuto e molto ardito,
     Ma certo che nel letto era un poltrone,
     Abenché a questo avria preso partito,
     Pur che io gli avessi avuto occasïone;
     Ma tanto sospettoso era quel fello,
     Che me guardava a guisa de un castello.

32 E giorno e notte mai non me abandona,
     Ma sol de basi me tenea pasciuta,
     Né il matino, o la sera, ni di nona
     Concede che dal sole io sia veduta,
     Perché non se fidava di persona.
     Ma sempre a’ bisognosi il celo aiuta,
     Ché al mio marito fo forza di andare
     Con gli altri Turchi che han passato il mare.

33 Passarno i Turchi contra Avatarone,
     Che avea de’ Greci il dominio e l’imperio,
     E mio marito con molte persone
     Convenne andar, non già per disiderio.
     Avea egli un schiavo chiamato Gambone,
     Che a riguardar proprio era un vituperio;
     L’uno occhio ha guerzo e l’altro lacrimoso,
     Troncato ha il naso, ed è tutto rognoso.

34 A questo schiavo me ricomandava,
     Che de la mia persona avesse cura,
     E con aspre parole il minacciava
     De ogni tormento e de ogni pena dura,
     Se dal mio lato mai se discostava
     Né tutto il giorno, né la notte oscura.
     Or pensa, cavallier, come io rimase;
     De la padella io caddi nelle brase.

35 Venne de Armenia in Bursa Teodoro,
     Quale io te dissi che cotanto amava,
     Per dare a l’amor nostro alcun ristoro;
     Ed alla via più presto se attaccava,
     Ché portato avea seco assai tesoro,
     Onde Gambone in tal modo acquetava,
     Che ciascaduna notte a suo diletto
     L’uscio gli aperse e meco il pose in letto.

36 Ora intervenne fuor di nostra stima
     Che ’l mio marito gionse avanti al giorno,
     Ed alla nostra porta picchiò, prima
     Che in Bursa se sapesse il suo ritorno.
     Or per te stesso, cavalliero, estima
     Se ciascadun de noi ebbe gran scorno,
     Io, dico, e Teodoro, il caro amante,
     Quale era gionto forse una ora avante.

37 Incontinente il cognobbe Gambone
     Alla sua voce, ché l’aveva in uso,
     E disse: "Noi siam morti! Ecco il patrone!’
     E Teodoro ancor esso era confuso.
     Ma io mostrai del scampo la ragione,
     E pianamente lo condussi giuso,
     Dicendo a lui: "Come entra il mio marito,
     Così di botto fuor serai uscito.

38 Come sei fuora e ch’èn calati i panni,
     Chi avria giamai di questo fatto prova?
     Se mio marito ben crida mille anni,
     A confessar non creder che io me muova.
     Lui dirà brontolando: ’ Tu me inganni ’.
     Trista la musa che scusa non trova!
     Se giuramento ce può dare aiuto,
     Alla barba l’avrai, becco cornuto!"

39 Or mio marito alla porta cridava,
     Di tanta indugia avendo già sospetto;
     E Gambone adirato biastemava
     E diceva: "Macon sia maledetto!
     Ché de la chiave in mal ponto cercava,
     Quale ho smarito alla paglia del letto.
     Ecco, pur l’ho trovata in sua malora;
     A voi ne vengo senza altra dimora."

40 Così dicendo alla porta callava,
     E quella con romore in fretta apriva;
     E, come Usbego, il mio marito, entrava,
     Alle sue spalle Teodoro usciva.
     Or, mentre che la porta si serrava,
     Il mio marito in camera saliva,
     Ed io queta mi stava come sposa,
     Mostrandomi adormita e sonocchiosa.

41 E mio marito prese un lume in mano,
     Cercando sotto al letto in ogni canto;
     Ed io tra me dicea: "Tu cerchi invano,
     Ché pur le corne a mio piacer ti pianto."
     Di qua di là cercando quel villano
     Ebbe veduto ai piè del letto un manto;
     Da Teodoro il manto era portato:
     Per fretta poi l’avea dimenticato.

42 Ma come Usbego il manto ebbe veduto,
     Grandi oltraggi me disse e diverse onte;
     Per ciò non ebbi io l’animo perduto,
     Ma sempre li negai con bona fronte.
     Ora a Gambone bisognava aiuto,
     Il qual mercè chiedea con le man gionte,
     E credo che la cosa volea dire;
     Ma lui turbato mai nol volse odire.

43 E già per tutto essendo chiaro il giorno,
     Agli altri schiavi lo fece legare,
     E a lor commesse che, suonando il corno,
     Sì come alla iustizia si suol fare,
     Poi che lo avean condotto alquanto intorno
     Sopra alla forche il debbano impiccare;
     E tutti quei sergenti a mano a mano,
     Per far ciò che è comesso, se ne vano.

44 Ma quel zeloso accolta avia tant’ira,
     Che desïava de vederlo impeso;
     Tanto l’orgoglio e ’l sdegno lo martira,
     Che nol vedendo mai non avria creso,
     E ratto a quei sergenti dietro tira;
     Ma prima in dosso un tabarone ha preso
     E un capellaccio de un feltron crinuto,
     Perché dagli altri non sia cognosciuto.

45 Ora Teodoro, essendo già scappato
     E per questo cessata la paura,
     Del manto se amentò che avia lasciato,
     E cominciò di questo ad aver cura.
     Cercando de Gambone in ogni lato,
     Lo ritrovò con tal disaventura
     Che pegio non può star, se non è morto;
     Ma de Usbego ancor fu presto accorto,

46 Qual dietro gli veniva a passo lento,
     Nascoso e inviluppato al tabarone.
     Il giovanetto fu de ciò contento,
     E con gran furia va verso Gambone;
     Un pugno dette al naso e un altro al mento,
     E mena gli altri, e diceva: "Giottone!
     Ladro! ribaldo! Or va, ché a questo ponto,
     Come tu mtrti, alla forca sei gionto.

47 Ove è il mio manto, di’, falso strepone,
     Qual me involasti iersera a l’osteria?
     Or fusse qua vicino il tuo patrone,
     Che ben de l’altre cose gli diria,
     E pur voria saper se di ragione
     Tu debbi satisfar la roba mia;
     E quando io non ne possa aver più merto,
     De pugni vo’ pagarmi, io te fo certo."

48 Né avea compite le parole apena,
     Che un altro pugno gli pose su il viso,
     Sempre dicendo: "Ladro da catena!
     Ben ti smacarò gli occhi, io te ne aviso";
     E tutta fiata pugni e calci mena,
     Sì che la cosa non andò da riso
     Per questa fiata al tristo de Gambone,
     Benché ciò fusse sua salvazïone.

49 Perché Usbego, mirando alla apparenza
     Del giovinetto che mostrava fero,
     Alle parole sue dette credenza,
     Come avrian fatto molti de ligiero;
     Però che non avea sua cognoscenza,
     Né avria stimato mai che un forestiero
     Fusse venuto tanto di lontano
     Per quello amor che lui stimava vano.

50 Senza altramente palesarse ad esso,
     Fece Gambone adietro ritornare,
     E poi secreto il dimandò lui stesso
     Ciò che con quel garzone avesse a fare.
     Il schiavo, che era un giotto molto espresso,
     Seppe la cosa in tal modo narrare,
     Che per un dito fo creduto un braccio,
     E campò lui, e me trasse de impaccio.

51 Non creder già che per questa paura
     Che era incontrata, io me fossi smarita,
     Ma più volte me posi alla ventura
     Dicendo: "Agli animosi il celo aita."
     E benché sempre uscisse alla sicura,
     Non fu la zelosia giamai partita
     Dal mio marito, e crebber sempre sdegni,
     E pur comprese al fin de’ brutti segni.

52 E di guardarme quasi disperato,
     Se consumava misero e dolente,
     Sempre cercando un loco sì serrato
     Che non se apresse ad anima vivente;
     E trovò al fine il palazo incantato,
     Ma non vi era il gigante, né il serpente,
     Qual ritrovasti alla porta davante:
     Questo a sua posta fece un negromante. -

53 Ragionava in tal modo Doristella
     Ed altre cose assai volea seguire,
     Ché non era compita sua novella,
     Quando vide de un bosco gente uscire,
     Ch’è parte a piedi e parte in su la sella:
     Tutti erano ladroni, a non mentire.
     Ciascaduno di lor crida più forte:
     - Colui s’affermi, che non vôl la morte! -

54 - Stative adunque fermi in su quel prato, -
     Rispose a quei ladroni il cavalliero
     - Ché, se alcun passa qua dal nostro lato,
     De aver bone arme gli farà mestiero! -
     Un che tra lor Barbotta è nominato,
     Senza ragione e dispietato e fiero,
     Gli vien cridando adosso con orgoglio:
     - Se Dio te vôl campare, ed io non voglio. -

55 Quel vien correndo e ponto non se arresta,
     Ma verso lui se affronta Brandimarte,
     E tocca de Tranchera in su la testa,
     E sino al petto tutto quanto il parte.
     Ma gli altri a lui ferirno con tempesta,
     E se quelle arme non fosser per arte
     Tutte affatate, quanto ne avea intorno,
     Campato non serìa giamai quel giorno;

56 Ché tutti quei ladroni aveva adosso.
     Non fo mai gente tanto maledetta;
     Chi lo ha davante e chi dietro percosso,
     E più de colpeggiar ciascuno affretta;
     Ma sopra a tutti gli altri un grande e grosso:
     Questo era Fugiforca dalla cetta,
     Qual, da che nacque, è degno di capestro,
     Ma non se può toccar, tanto era adestro.

57 Costui girando intorno al cavalliero
     Con quella cetta spesso lo molesta;
     E poi se volta e via va sì legiero,
     Che cosa non fo mai cotanto presta.
     Salta più volte in groppa del destriero,
     E prese Brandimarte nella testa;
     Ma come vede che gli volta il brando,
     Salta alla terra e via fugge cridando.

58 Già il cavalliero a lui più non attende,
     E sopra a gli altri fa la sua vendetta,
     E chi per lungo e chi per largo fende:
     Ormai non vi è di lor pezzo né fetta.
     Poi dietro a Fugiforca se distende;
     Ma quel ribaldo ponto non aspetta,
     E de quel corso ben serìa scampato;
     Ma fortuna lo gionse e il suo peccato.

59 Perché, saltando sopra ad una macchia,
     Lo prese ad ambo e piedi una berbena,
     Come se prende al laccio una cornacchia,
     E lei battendo l’ale se dimena,
     E tra’ del becco e se dispera e gracchia.
     Ma Fugiforca non è preso a pena,
     Che Brandimarte, qual correndo il caccia,
     Gli gionse adosso e ben stretto lo abraccia.

60 E non lo volse de brando ferire,
     Parendo a lui che fosse una viltate,
     Ma ben diceva: - Io te farò morire,
     Sì come tu sei degno in veritate.
     Meco legato converrai venire,
     Tanto che io trovi o castello o citate;
     E là per la iustizia del segnore
     Serai posto alle forche a grande onore. -

61 E Fugiforca piangendo dicia:
     - Quel che ti piace ormai pôi di me fare;
     Ma ben ti prego per tua cortesia,
     Che non mi mena alla Liza in sul mare. -
     Ora, segnori e bella compagnia,
     Finito è nel presente il mio cantare.
     A l’altro racontar non serò lento;
     Dio faccia ciascadun lieto e contento.