Osservazioni sulla morale cattolica/Capitolo I

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Al lettore Capitolo II


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OSSERVAZIONI


SULLA MORALE CATTOLICA





CAPITOLO PRIMO


SULLA UNITÀ DELLA FEDE.


L’unité de foi, qui ne peut résulter que d’un asservissement absolu de la raison à la croyance, et qui en conséquence ne se trouve dans aucune autre religion au même degré que dans la catholique, lie bien tous les membres de cette Église à recevoir les mêmes dogmes, à se soumettre aux mêmes décisions, à se former par les mêmes enseignemens.

(Hist. des Répub. It., t. XVI, p. 410)



Che l’unità della fede si trovi nel più alto grado, o piuttosto assolutamente, nella Chiesa cattolica, è questo un carattere evangelico di cui essa si vanta; poichè non ha inventata quest’unità, ma l’ha ricevuta; e, tralasciando tanti luoghi delle Scritture dov’essa è insegnata, ne riporterò due, in cui si trova non solo la cosa, ma la parola. San Paolo nell’Epistola agli Efesi, dice espressamente: Una è la fede1; e dopo avere enumerati vari doni e ufizi che sono nella Chiesa, stabilisce per fine di essi l’unità della fede, e della cognizione del Figliuolo di Dio2.

L’illustre autore non adduce gli argomenti per cui l’unità della fede non deva poter resultare che dalla schiavitù assoluta della ragione alla credenza. Se la cosa fosse così, non si potrebbero conciliare i passi citati dianzi, con quell’altre parole del medesimo apostolo: il razionale vostro culto3. Ma non solo si conciliano; si spiegano anzi, e si confermano a vicenda.

Certo, la fede include la sommissione della ragione: questa sommissione è voluta dalla ragione stessa, la quale riconoscendo incontrastabili certi princìpi, è posta nell’alternativa, o di credere alcune [p. 430 modifica]conseguenze necessarie, che non comprende, o di rinunziare ai principi. Avendo riconosciuto che la Religione Cristiana è rivelata da Dio, non può più mettere in dubbio alcuna parte della rivelazione; il dubbio sarebbe non solo irreligioso, ma assurdo. Supponendo, per un momento, che l’unità della fede non fosse espressa nelle Scritture, la ragione che ha ricevuta la fede deve adottarne l’unità: non ha più bisogno per questo di sottomettersi alla credenza; ci deve arrivare per una necessità logica.

La fede sta nell’assentimento dato alle cose rivelate, come rivelate da Dio. Suppongo che l’autore scrivendo questa parola fede, le ha applicata quest’idea, perchè è impossibile applicargliene un’altra. Ora, repugna alla ragione che Dio riveli cose contrarie tra di loro; se la verità è una, la fede dev’esserlo ugualmente, perchè sia fondata sulla verità. La connessione di quest’idee è chiaramente accennata nel testo già citato in parte: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Dall’unità di Dio resulta necessariamente l’unità della fede, e da questa l’unità del culto essenziale. Bacone mostrò di tenere questa per una verità fondamentale, dove disse: Tra gli attributi del vero Dio si pone che è un Dio geloso onde il suo culto non soffre nè mescolanza, nè compagnia4.

L’idee di fede e di pluralità sono così contradittorie, che il linguaggio stesso pare che repugni a significare la loro unione; poichè si dirà bene le diverse religioni, opinioni, credenze religiose, ma non già le diverse fedi. Per religione s’intende un corpo di tradizioni, di precetti, di riti; e si vede assai bene come ce ne possa essere più d’una. Così nelle opinioni si considera piuttosto la persuasione di chi crede, che la verità delle cose credute. Ma per fede s’intende persuasione fondata sulla rivelazione divina; e benchè popoli di vario culto credano che l’opinione loro abbia questo fondamento, il linguaggio ricusa l’espressione che significherebbe la coesistenza di rivelazioni diverse, perchè la ragione la riconosce impossibile. Molti di diversa religione possono credere di posseder la fede; ma un uomo non può ammettere che questi molti la possiedano. Se questa fosse una sofisticheria grammaticale, vaglia per tale, bastando l’argomento semplicissimo col quale s’è provato che l’unità della fede non suppone altro assoggettamento della ragione, che alle leggi del raziocinio.

Non voglio certamente dire con ciò, che la fede stessa consista in una semplice persuasione della mente: essa è anche un’adesione dell’animo; e perciò dalla Chiesa è chiamata virtù. Questa qualità le è contrastata dal Voltaire5, in un breve dialogo dove la bassa e iraconda scurrilità del titolo stesso indica tutt’altro che quella tranquillità d’animo con cui si devono pure esaminare le questioni filosofiche. Un honnéte homme sostiene, contro un excrément de théologie che la fede non è punto una virtù, con questo argomento: Est.ce vertu de croire ? ou ce que tu crois te semble vrai, et en ce cas il n’y a nul mérite à le croire; ou il te semble faux, et alors il est impossible que tu le croyes.

È difficile d’osservare più superficialmente di quello che abbia qui fatto il Voltaire. Per escludere dalla fede ogni cooperazione della volontà, egli non considera nel credere se non l’operazione della mente, che riconosce vera o non vera una cosa; riguarda quest’operazione come necessitata dalle prove, non ammettendo altro a determinarla, che le prove stesse; considera insomma la mente come un istrumento, per così dire, passivo, [p. 431 modifica]su di cui le probabilità operano la persuasione o la non credenza come se la Chiesa dicesse che la fede è una virtù dell’intelletto. È una virtù nell’uomo; e per vedere come sia tale, bisogna osservare la parte che hanno tutte le facoltà dell’uomo nel riceverla o nel rigettarla. Il Voltaire lascia fuori due elementi importantissimi: l’atto della volontà, che determina la mente all’esame, e la disposizione del core, che influisce tanto nell’ammettere o nel rigettare i motivi di credibilità, e quindi nel credere. In quanto al primo, le verità della fede sono in tante parti così opposte all’orgoglio e agli appetiti sensuali, che l’animo sente un certo timore e una certa avversione per esse, e cerca di distrarsene; tende insomma ad allontanarsi da quelle ricerche che lo condurrebbero a scoperte che non desidera. Ognuno può riconoscere in sè questa disposizione, riflettendo all’estrema attività della mente nell’andare in cerca d’oggetti diversi, per occupare l’attenzione, quando un’idea tormentosa se ne sia impadronita. La volontà di metter l’animo in uno stato piacevole influisce su queste operazioni in una maniera così manifesta, che quando ci si presenta un’idea che riconosciamo importante, ma sulla quale non ci piace di fermarci, ci accade spesso di dire a noi stessi: non ci voglio pensare; e lo diciamo, quantunque convinti che questo non pensarci ci potrà cagionar de’ guai nell’avvenire; tanto è allora in noi il desiderio di schivare un sentimento penoso nel momento presente. Questa mi pare una delle ragioni della voga che hanno avuta, e hanno in parte ancora, gli scritti che combattono la religione col ridicolo. Secondano una disposizione comune degli uomini, associando a idee gravi e importune una serie d’idee opposte e svaganti. Posta quest’inclinazione dell’animo, la volontà esercita un atto difficile di virtù, applicandolo all’esame delle verità religiose; e il solo determinarsi a un tale esame suppone non solo un’impressione ricevuta di probabilità, ma un timore santo de’ giudizi divini, e un amore di quelle verità, il quale superi o combatta almeno l’inclinazioni terrestri.

Che poi l’amore o l’avversione alle cose proposte da credersi influisca potentemente sulla maniera d’esaminarle, sull’ammetterne o sul rigettarne le prove, è una verità attestata dall’esperienza più comune. Si sparga una notizia in una città che abbia la disgrazia d’esser divisa in partiti; essa è creduta da alcuni, discreduta da altri, a norma degl’interessi e delle passioni. Il timore opera, al pari del desiderio, sulla credenza, portando talvolta a negar fede alle cose minacciate, e talvolta a prestargliene più di quello che si meritino; la qual cosa avviene spesso quando si presenti un mezzo di sfuggirle6. Quindi sono così comuni quell’espressioni: [p. 432 modifica]esaminare di bona fede, giudicare senza prevenzione, spassionatamente, non farsi illusione, e altre simili, le quali significano la libertà del giudizio dalle passioni. La forza d’animo, che mantiene questa libertà, è senza dubbio una disposizione virtuosa: essa nasce da un amore della verità, independente dal piacere, o dal dispiacere che ne può venire al senso. Si vede quindi quanto sapientemente alla fede sia dato il nome di virtù. Siccome poi la mente umana non sarebbe arrivata da sè a scoprire molte verità della religione, se Dio non le avesse rivelate; e siccome la nostra volontà corrotta non ha da sè quella forza di cui s’è parlato; così la fede è chiamata dalla Chiesa e una virtù e un dono di Dio.

Tornando da questa lunga digressione al passo che stiamo esaminando, confesso di non intendere chiaramente il senso di quella proposizione che l’unità di fede non si trova in alcun’altra religione allo stesso grado che nella cattolica. Come ci possono essere diversi gradi nell’unità di fede, il più e il meno in un’unità qualunque? O quest’altre religioni propongono come vera la loro fede, e devono insegnare che è vera essa sola; o ammettono che qualche altra lo possa essere; e come possono chiamar fede la loro, che in fatto è un vero dubbio? Ogni volta che una di queste religioni s’avvicina al principio dell’unità, cioè quando esclude ogni dottrina opposta alla sua, ciò accade perchè in quella religione si sente allora vivamente che è assurdo il dir vera una proposizione, e non rigettare ciò che la contradice. E ogni volta che s’allontana da quel principio, ciò accade perchè, non sentendosi certi della propria fede, s’accorda agli altri ciò che si chiede per sè, la facoltà di chiamar fede ciò che non importa la condizione del credere. È la transazione della falsa madre del giudizio di Salomone: Non sia nè tuo, nè mio; ma si divida7. Ma non ci sono mezze fedi vere, più di quello che ci siano mezzi bambini vivi.

Infatti, nè l’illustre autore indica quale sia il grado dell’unità di fede, fino al quale la ragione deva arrivare; nè è possibile l’indicarlo, giacchè l’assunto sarebbe contradittorio. Dire che la ragione deva assoggettarsi alla fede, ma in un certo grado, qualunque sia, è dichiarare la fede infallibile insieme, e bugiarda. Infallibile, in quanto, per sé, e come fede, può legittimamente richiedere un assoggettamento qualunque della ragione: bugiarda, in quanto, richiedendo un assoggettamento che la ragione può legittimamente limitare, ridurre a un certo grado, e fargli, dirò così, la tara, afferma più di quello che gli si deva credere.

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Il non essere la Chiesa cattolica soggetta alle fluttuazioni accennate sopra; il trovarsi in essa, non un maggiore o minor grado d’unità di fede, ma l’unità della fede; questo dirsi e poter essere immutabile, è un carattere doppiamente essenziale della verità de’ suoi insegnamenti. È la condizione necessaria della ragione, come della fede; due doni d’un solo e stesso Dio; la distinzione e la concordia de’ quali è divinamente espressa nelle parole già citate dell’Apostolo: il razionale vostro culto.


Note

  1. "Unus Dominus, una fides, unum baptisma.", Ad Ephes. IV, 5
  2. "Donec occurramus omnes in unitatem fidei, et agnitionis Filii Dei.", Ibid. 13.
  3. Rationabile obsequium vestrum., Ad Rom. XII, 1
  4. Inter attributa autem veri Dei ponitur quod sit Deus zelotypus; itaque cultus ejus non fert mixturam, nec consortium., Franc. Baconis, Sermones Fideles III: De unitate Ecclesiae.
  5. Dictionn. philosoph., art. Vertu
  6. Mi pare che a torto J. J. Rousseau (Émile, liv. II) rida di coloro che ammirano il coraggio d’Alessandro nel bere la medicina presentatagli dal medico Filippo, dopo d’aver ricevuta una lettera di Parmenione, che l’avvertiva di guardarsi dal medico, come indotto, con doni e con promesse, da Dario a levargli la vita. Racconta che, essendo questa storia detta su da un ragazzo, a un desinare di molte persone, e i più biasimando quell’azione come temeraria, altri ammirandola invece come coraggiosa, lui aveva detto che se ci fosse entrata anche un’ombra di coraggio, essa non sarebbe stata, al parer suo, altro che una stravaganza. Concordando tutti ch’era una stravaganza, egli stava per riscaldarsi e per rispondere, quando una donna, che gli era vicina, gli disse all’orecchio:Tais-toi, Jean-Jacques; ils ne t’entendront pas. Que’ signori non ebbero dunque la spiegazione: Rousseau la dà ai lettori, ma con quel tono sdegnoso e enfatico, che prende troppo spesso, principalmente in quel libro, dove alle volte pare che voglia persuadere i lettori, che non ne crede alcuno degno di sentire la verità, nè capace d’intenderla, e ostenta di voler far indovinare quello che poteva esser detto bonamente e amichevolmente. Ecco le sue parole: Quelques lecteurs, mécontents du tais.toi, Jean.Jacques, demanderont, je le prévois, ce que je trouve enfin de si beau dans l’action d’Alexandre. Infortunés! s’il faut vous le dire, comment le comprendrez-vous? C’est qu’Alexandre croyoit àla vertu; c’est qu’il y croyoit sur sa tête, sur sa propre vie; c’est que sa grande âme étoit faite pour y croire. Ô que cette médecine avalée étoit une belle profession de foi! Non, jamais mortel n’en fit une si sublime. Con tutto ciò mi pare che il coraggio sia appunto ciò che spicca in quell’azione. Credere alla virtù non bastava in un tal caso; bisognava credere alla virtù del medico Filippo; e, per crederci in quel momento, senza esitare, bisognava richiamare alla mente, e rivedere in compendio e pacatamente, le prove della sua fedeltà, e rimaner convinto che bastavano a levare ogni probabilità all’attentato; bisognava avere un animo tale, che l’idea d’un possibile avvelenamento non lo disturbasse dal fare, in una tal maniera, un tale giudizio; in somma aver coraggio. Il sentimento che porta il timoroso a ingrandire o a immaginarsi il pericolo, è quello stesso che lo fa fuggire dal pericolo reale, cioè un’apprensione della morte e del dolore corporale, che s’impadronisce delle sue facoltà, e leva la tranquillità alla mente. Il conservare questa tranquillità in faccia al pericolo o vero o supponibile, è l’effetto del coraggio. Se Alessandro avesse creduto probabile che Filippo volesse avvelenarlo nella medicina, sarebbe stata senza dubbio una stravagante temerità il prenderla; ma quella lettera venuta alle mani d’un uomo pusillanime, fosse pure stato fino allora persuasissimo della virtù del medico, l’avrebbe messo in una tale angustia e perplessità, che non avrebbe ragionato, ma sarebbe stato con violenza portato a schivare il rischio a ogni modo: avrebbe prese informazioni, fatto arrestare a bon conto il medico, e esaminare la medicina; avrebbe in somma fatto tutt’altro che inghiottirsela.
  7. "Nec mihi, nec tibi sit; sed dividatur.", III Reg. III, 26.