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ugo foscolo 95

naturale che questa prosa sintetica e scultoria che è non la vita in atto, ma un formulario della vita e presso che non dissi la sua astrazione rettorica. Perché Foscolo, volendo combattere la rettorica, non può fuggire alle sue strette, rappresentando sentimenti cosí esaltati e cosí protratti. Situazioni cosí ideali, cosí superiori alla vita comune, vogliono il verso per loro espressione. Mettetemi la storia di Lauretta o di Gliceria in verso, con quelle stesse immagini, e ne uscirá una storia eterna, come Ofelia o Nerina. La prosa non può rendere ciò che di aereo e di fuggitivo si stacca da queste fragili creature, se non per virtú di analisi, individuando e realizzando, come è in quella immortale Cecilia del Manzoni. Ma è appunto l’analisi che manca a Foscolo, la pienezza e la varietá della vita reale. Senti una sola corda; manca l’orchestra; manca soprattutto la grazia, la delicatezza, la soavitá, quella certa interna misura e pacatezza, dov’è il segreto della vita. E non mi maraviglio che, comprendendo cosí finamente Omero, lo abbia reso cosí infelicemente.

Questo mondo di Foscolo, cosí com’è, rimane una vuota idealitá, a cui manca il naturale nutrimento della vita reale, e che si nutre di sé fino alla consunzione. Questa vuota idealitá giá la senti in Alfieri, che si edifica essa il suo mondo e se lo figura e atteggia a sua guisa, senza trovarvi riposo o soddisfazione, perché quel mondo è sempre lei, e piú vi si dimena e grida, piú scopre la sua generalitá. Gli è che Alfieri non riassume un mondo, come Omero, o Dante, ma sta all’ingresso di un mondo da venire. La realtá che vagheggia, è ancora vuota idealitá, ma vogliosa, impaziente, credula confidente, che, non potendo ancora avere un corpo, se ne forma uno di sé stessa, e concepisce la vita come un suo vapore. Questo carattere di generalitá vuota era giá la malattia della letteratura italiana, ed esprimeva meglio che ogni altra cosa quell’assoluta separazione della idea dalla vita, che era la fisonomia di una societá arcadica. L’idea ci stava come idea, in piena soddisfazione di sé; era Cesare e Catone nelle ariette di Metastasio, con tante belle massime sulla bocca fragorosa