Per la storia della circolazione monetaria nell'Italia nord-occidentale tra l'XI e la prima metà del XII secolo/Introduzione

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Introduzione

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Per la storia della circolazione monetaria nell'Italia nord-occidentale tra l'XI e la prima metà del XII secolo Vercelli e il Vercellese - fine XI secolo
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La tavola delle abbreviazioni e la carta dei luoghi citati nel testo si trovano in calce all’articolo.


1. Introduzione

Tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo le tensioni che avevano percorso per decenni l’economia dell’Italia centro settentrionale giunsero a un punto critico. La moneta, che del processo economico era componente secondaria ma che è documentata meglio di altre, entrò in una nuova fase di mutamenti. I notai, alle prese con le pressioni di una società in fase espansiva che chiedeva l’adeguamento del loro strumentario professionale, non furono sordi alle novità che incalzavano sul fronte monetario. Questa loro sensibilità non era, del resto, una novità: redattori delle cartule e dei brevia che costituiscono le fonti principali di questo contributo, essi operavano nel solco di una tradizione da sempre attenta alle sottigliezze delle transazioni finanziarie e alle connesse esigenze di rappresentazione documentaria1. Proprio l’osservazione dei loro comportamenti redazionali, nel campo specifico delle espressioni formulari relative alle definizioni monetarie, consente di riflettere sul senso delle costanti e delle variazioni che emergono con speciale evidenza all’occhio di un diplomatista abituato all’esame della materialità [p. 2 modifica]linguistica del documento notarile. Così, per esempio, nella fascia settentrionale della marca di Torino, ai lembi occidentali del Regnum Italiae, i professionisti al servizio della contessa Adelaide e degli enti religiosi che gravitavano intorno agli ultimi membri della dinastia arduinica si risolsero a dare un nome preciso alla moneta che menzionavano nei loro documenti, cosa che in precedenza non risulta avessero mai fatto.

Uno dei più interessanti fra costoro, Aldeprando, precisò che Adelaide e la sua nuora Agnese, vedova del marchese Pietro, avrebbero dovuto pagare alla canonica di San Lorenzo di Oulx cento lire di buoni denari pavesi come pena nel caso in cui avessero violato i termini di una importante concessione fatta alla canonica; alcuni anni prima, nel 1079, Giselberto, altro personaggio chiave dell’entourage adelaidino, nella clausola penale di un documento per il monastero di Santa Maria di Pinerolo aveva segnato la stessa moneta e la medesima cosa avrebbe fatto più tardi, al limite estremo dell’età arduinica, in un documento che attesta, unico nel suo genere, gli interessi finanziari della marchesa di Torino2. La precisione in questo genere di determinazioni era divenuta importante. Da occidente premeva già da alcuni anni un circolante di provenienza transalpina, il denaro del Poitou: le carte della canonica di Oulx, purtroppo non sempre ben databili, cominciano a menzionarlo almeno dal 1075. La ragione della sua fortuna è spiegata in un documento pinerolese del 1096, dove il suo valore rispetto al denaro pavese venne indicato in ragione di due contro uno: rapporto di valore tra specie monetarie concorrenti che, come si vedrà, torna altre volte nella storia monetaria del territorio prescelto. Con la forza del suo basso valore dilagò negli spazi del Torinese e dell’Eporediese; nel 1095 lo si trova menzionato a Vercelli, al principio del secolo successivo nei pressi di Biella. I conti di Moriana e Savoia, nel quadro dei tentativi che andavano compiendo per raccogliere quella parte dell’eredità arduinica che sembrava più alla loro portata, tentarono di proporre una loro propria emissione per contrastare l’onda della moneta pittavina. Non sembra che l’iniziativa, nella sua prima fase, riscuotesse successi significativi, ma è interessante notare che, almeno sotto questo profilo, i conti mostrarono di muoversi nel solco di una tradizione signorile prettamente transalpina3. Nelle zone più vicine alle fonti della monetazione italiana del tempo, [p. 3 modifica]invece, la capacità di penetrazione della specie oltralpina fu frenata: la zecche di Pavia e di Milano provvidero a prendere atto di una situazione alla quale di là dalle Alpi ci si era già adeguati da tempo4.

Di queste e altre congeneri vicende ci si occuperà nelle pagine successive. Esse intendono costituire un contributo alla storia della circolazione monetaria nell’area dell’attuale Piemonte settentrionale e dell’Astigiano nei centocinquant’anni che vanno, con qualche approssimazione, dal Mille alla metà del XII secolo. L’interferenza tra spazio e moneta sarà quindi fondamentale, e da essa proverranno alcuni degli elementi di maggiore interesse di questa ricerca. Altrettanto importante sarà tuttavia la dimensione diacronica, perché i momenti di tensione negli scambi monetari, i momenti in cui si fece ricorso, come si è già veduto e si vedrà meglio più avanti, all’“etichettamento”5 della moneta o al rinnovo totale o parziale di tale etichettamento sono distribuiti lungo tutto l’arco cronologico prescelto e non sono mai privi di significato.

Riguardo ai problemi della circolazione monetaria l’area dell’attuale Piemonte presenta evidenti analogie (e interessanti differenze) con il Lazio, studiato da Pierre Toubert nel suo libro del 19736. Se da una parte Roma non [p. 4 modifica]ha avuto officine monetarie proprie tra la fine del X e l’ultimo quarto del XII secolo, il Piemonte, dopo l’effimera comparsa della moneta di Susa al principo del XII secolo, ha tardato ad avere circolanti autoctoni fino al quarto-quinto decennio di quel secolo, quando la moneta segusina prima, poi la nuova moneta comunale di Asti riuscirono a ritagliarsi ambiti di sicura preminenza locale. In ogni caso se, proprio come il Lazio, il Piemonte si presta bene allo studio di quei «mécanismes de circulation concomitante d’espèces différentes et de relève d’une espèce par une autre» individuati da Toubert, occorre anche considerare che l’area che qui si studia fu priva di un centro capace di orientare nel suo complesso la circolazione monetaria regionale, quale fu Roma per il Lazio medievale. Di conseguenza il quadro geografico delle dinamiche monetarie, per quello che si può cogliere dalle fonti scritte, a partire almeno dalla fine dell’XI secolo si presenta in Piemonte con caratteri di notevole complessità, diviso com’è, sia pure in modo non rigido, in aree dotate di una individualità derivante dall’affermazione in esse di circolanti specifici, in primo luogo con la funzione di monete di conto, irradiantisi da centri esterni al Piemonte stesso, quali la moneta pavese, la moneta milanese e la moneta pittavina. Nelle considerazioni finali si vedrà come un semplice confronto con situazioni coeve di altri ambiti territoriali di dimensione regionale, compresi entro il Regnum Italiae, mostri la peculiarità del caso trattato in questo contributo.

In riferimento alle specie monetarie appena citate, per avere chiaro quanto si dirà nelle pagine che seguono, va ancora aggiunto che i movimenti delle monete emesse tra XI e XII secolo dalle due zecche di antica tradizione di Pavia e Milano7 (per le emissioni della zecca o delle zecche del Poitou l’essenziale è offerto da alcuni documenti studiati più avanti, nel quinto paragrafo)8 sono abbastanza ben noti, nonostante i limiti delle fonti archeologiche (le [p. 5 modifica]monete stesse) e delle fonti scritte. Tra queste ultime di capitale importanza sono, come è noto, alcuni passaggi relativi al corso del denaro pavese contenute negli Annali genovesi di Caffaro, i cui particolari sono stati ben studiati da numismatici e storici della moneta tra Otto- e Novecento9. Caffaro ricordò che la moneta pavese, che ebbe corso a Genova fino al 1138, anno della concessione imperiale alla città del diritto di battere moneta, aveva subito nei primi due decenni del XII secolo due successivi indebolimenti10; riguardo al corso della moneta milanese, per il quale non si dispone di fonti cronachistiche, è certo che un indebolimento analogo a quello subito dal denaro pavese al principio del secolo XII dovette avvenire nello stesso torno di tempo11.

Naturalmente, ciò che più conta per la mia indagine è stabilire la dinamica dell’affermazione e della sostituzione delle singole monete in ambito locale e regionale e, insieme, il significato storico di questi processi. Questo per quel tanto almeno – che, come si vedrà, non è davvero poco – che è consentito dallo studio delle fonti scritte e per i livelli di scambio che tali fonti testimoniano12. Nel corso di questo lavoro traccerò prima, in una serie di paragrafi dedicati a singole realtà territoriali, un profilo particolareggiato della [p. 6 modifica]circolazione monetaria nel periodo considerato, poi in un paragrafo conclusivo proverò a tirare le fila del discorso.

Ora, prima di entrare nel vivo della ricerca, occorre spendere alcune parole sia intorno alla costituzione del campo di indagine sia sui problemi di metodo connessi con le ricerche di storia della moneta medievale. Riguardo alla delimitazione del campo di indagine sono state compiute scelte nette, decidendo, in primo luogo, di privilegiare le testimonianze offerte dalle fonti d’archivio, vale a dire soprattutto, anche se non esclusivamente, le carte notarili; in secondo luogo si è operato un taglio territoriale e cronologico connesso, per l’essenziale, con l’esigenza pratica di operare in un quadro abbastanza vasto da consentire sia il confronto tra un gruppo significativo di situazioni diverse sia l’osservazione di sviluppi diacronici di respiro più che secolare. Allo stesso tempo, però, nell’operare le scelte cui si è appena accennato, si è badato a far sì che la vastità del materiale da indagare non eccedesse i limiti imposti dall’esigenza di un approccio analitico alle fonti.

Queste ultime, d’altra parte, per la loro natura e per i caratteri della tradizione archivistica subalpina, costituiscono di per sé un quadro condizionante sia sotto un profilo cronologico sia dal punto di vista spaziale. Mentre per i secoli IX e X gli unici aggregati documentari quantitativamente significativi sono costituiti dalle carte astigiane e novaresi, per il periodo successivo il quadro regionale, che si può deliberatamente far coincidere con gli spazi geografico-amministrativi dell’attuale Piemonte13, si presenta fortemente diseguale per quel che riguarda le fonti documentarie disponibili, soprattutto quando le si esamini dal punto di vista che qui si assume. Se infatti è vero che nell’ambito regionale è dato riscontrare per il periodo prescelto la presenza di vaste aree nettamente sottodocumentate, quello che più importa è che nella documentazione in largo senso privata le carte attestanti passaggi di denaro all’atto della stipula (il prezzo nelle compravendite, l’entratura in certe con cessioni di beni immobili, ecc.) o l’imposizione di pagamenti unilaterali differiti, periodici o meno (censi e canoni, restituzioni, penalità, ecc.)14, non sempre sono presenti in quantità significative nell’XI secolo e persino nei decenni immediatamente successivi15. È il caso di tutto il Piemonte [p. 7 modifica]meridionale, vasta area nella quale la documentazione che qui interessa è assente per tutto il periodo prescelto16; del Vercellese, per il quale essa inizia solo negli anni finali dell’XI secolo, e del vicino Monferrato, l’area collinare posta sul l’altra riva del Po, per il quale le carte della canonica di Sant’Evasio di Casale (oggi Casale Monferrato) restituiscono una situazione sotto questo riguardo del tutto simile17.

Un quadro completo dei caratteri della tradizione documentaria subalpina, pur limitato al periodo e alle aree prescelte, è fuori dalla portata di questo contributo. D’altra parte alcuni aspetti strutturali di tale tradizione si possono ricavare dalle pagine che seguono. Qui sarà utile piuttosto tentare di trarre subito alcune conseguenze da quanto sin’ora detto: il corpus delle fonti studiate in questa ricerca è costituito, come si accennava, dalla documentazione di acquisizioni onerose di beni immobili e dalle carte che attestano il diritto a ricevere (o il dovere di pagare, come nel caso delle clausole penali) prestazioni future in denaro. Carte di quest’ultimo tipo costituiscono, almeno in certi periodi, un genere tipico di produzione documentaria ecclesiastica: per restare a ciò che costituisce oggetto di questo studio, un gruppo significativo di concessioni di terre in censo lo si ha soltanto per Torino e il suo territorio, con l’importante serie di documenti del monastero di San Solutore e con la serie più limitata numericamente, ma interessante, di carte della chiesa urbana di San Benedetto. Documenti consimili sotto il profilo tipologico restituiscono gli archivi delle chiese urbane e rurali del novarese, sia pure in numero limitato; qualche carta dello stesso genere hanno conservato la cattedrale di Santa Maria e il monastero di Santo Stefano di Ivrea. Fatta eccezione per qualche pezzo sparso, non si ha nulla di paragonabile per altri enti religiosi dell’area subalpina, e ciò naturalmente condiziona i risultati della ricerca. Per ciò che riguarda invece i trasferimenti onerosi di immobili il discorso è ancora diverso. Nel periodo considerato gli enti religiosi, come è persino troppo noto, hanno raramente acquisito beni fondiari a titolo oneroso; più spesso li hanno alienati in modo mascherato, concedendoli a lungo termine o anche in perpetuo per censi tenui, ma facendo pagare un’entratura che non sempre è documentata. Eppure i loro archivi non sono in genere privi di carte di vendita, anzi [p. 8 modifica]in alcuni casi – in particolare quello della cattedrale di Santa Maria di Novara e del monastero suburbano di San Lorenzo, le cui carte fanno parte dell’archivio della cattedrale – sono caratterizzati da una notevole ricchezza di pergamene contenenti la documentazione di compravendite stipulate tra privati, acquisite nel momento in cui i beni di cui documentavano le vicende entrarono a far parte del patrimonio dell’ente in questione.

Si tratta di meccanismi ben noti18, sui quali tuttavia è bene qui richiamare l’attenzione perché alcuni aspetti importanti della circolazione monetaria del secolo XI vengono alla luce proprio grazie a carte di questo tipo; dove invece documenti di questo genere mancano, questi medesimi aspetti restano del tutto oscuri. I motivi di tali assenze sono talvolta intuibili (penso soprattutto alle travagliate vicende vercellesi ed eporediesi nell’età di Arduino e alle pesanti ripercussioni sui patrimoni ecclesiastici che esse ebbero19), altre volte restano oscuri. In ogni caso, non tutto va attribuito agli accidenti della tradizione archivistica: la vivacità della società e dell’economia novaresi dell’XI secolo non trovano sicuri riscontri nelle altre zone studiate. In queste ultime gli scambi che comportano passaggi di numerario sembrano acquisire un certo dinamismo solo a partire degli ultimi decenni del secolo.

Quanto ai problemi di metodo posti dalle ricerche di storia monetaria medievale cui prima accennavo, dati i caratteri del mio contributo non riprenderò la discussione sulle cautele da adottare nell’esame delle fonti archeologiche (le monete stesse)20. Resta, è vero, una certa differenza di comportamento da parte dei numismatici riguardo alle tecniche di costituzione del quadro delle fonti su cui vengono effettuate le ricerche. In ogni caso è il rapporto tra i dati che emergono dall’analisi delle fonti scritte e i risultati delle indagini numismatiche, talvolta in apparenza contraddittorio, a essere occasione di vivaci dissensi tra gli storici e alcuni numismatici21. Sembra [p. 9 modifica]emergere, in particolare, una tendenza, forse non del tutto nuova, a svalutare il contributo che le fonti scritte possono recare alla conoscenza dei caratteri della circolazione monetaria medievale e della nozione che di essa avevano i contemporanei: aspetto, quest’ultimo, di cui mi sembra difficile sopravvalutare il rilievo. Le obiezioni di maggiore rilievo sono in sostanza due, la prima delle quali investe la grande questione della moneta di conto e della sua natura, l’altra quella della “legge di Gresham”. Riguardo alla moneta di conto, misura di valore per i pagamenti e dunque anche strumento di ragguaglio tra circolanti concorrenti di valore ineguale, gli storici hanno da tempo espresso sfiducia verso l’ipotesi che tale moneta potesse in certi casi essere un termine di riferimento del tutto sganciato da una moneta reale corrente o in corso in un passato più o meno recente22. La moneta di conto non è, insomma, mai stata «some kind of a standard suspended in mid-air like Rodilard, the cat, in one of the fables of La Fontaine»23. Qui occorre restringere il discorso al periodo e all’area che interessa, e quindi alle particolari condizioni della circolazione monetaria nell’Italia centro-settentrionale tra l’XI e la metà circa del XII secolo. Esse, come si è in parte già detto, differenziano in modo marcato quest’area sia rispetto alle situazioni coeve che è dato riscontrare oltralpe (in particolare nei territori delle attuali Francia e Germania) sia rispetto alla situazione italiana posteriore, caratterizzata prima dal fiorire delle zecche comunali e poi dalla coniazione della moneta “grossa” argentea. Per l’area e il periodo di cui ci si occupa in questo [p. 10 modifica]contributo la situazione è relativamente semplice: basti ripetere che l’accentuato polimorfismo del denaro d’argento, dovuto in Francia e Germania al fiorire delle zecche signorili, nell’Italia centro-settentrionale non esistette, dato che essa rimase sostanzialmente fedele, per ripetere la formulazione di Pierre Toubert, ai quadri tecnici e istituzionali della moneta publica di tradizione carolingia, con le sue poche zecche di tradizione regia e imperiale24. Come si vedrà, fino all’irruzione del denaro del Poitou e ai successivi indebolimenti dei denari battuti dalle zecche di Pavia e di Milano, in Piemonte le monete circolanti al livello degli scambi testimoniati dalle carte notarili furono soltanto quelle coniate nelle due città appena menzionate. Questo non significa che non si sentisse il bisogno di standard monetari di riferimento e quindi che le menzioni di una determinata moneta non potessero rimandare, oltre e più che ai denari sonanti provenienti da una certa officina monetaria, anche al numerario prodotto dalla stessa officina in quanto misura di valore25. Chi sa in che modo venivano effettuati i grossi pagamenti? Doveva certo trattarsi di operazioni lunghe nel corso delle quali, se venivano effettuate in sola moneta, non è improbabile che si ricorresse anche alla pesatura delle specie, che potevano non essere del tutto omogenee tra loro. Inutile moltiplicare le ipotesi. D’altra parte, pur essendo le fonti scritte in genere avare di informazioni, alcuni fatti risaltano con sufficiente evidenza: nel terzo paragrafo di questo contributo si vedrà come le menzioni di moneta etichettata nelle carte della prima metà dell’XI secolo novarese costituiscano chiara testimonianza non solo del disallineamento dei denari battuti dalle due zecche di Pavia e Milano26, già altrimenti noto, ma anche, dato l’alternarsi delle indicazioni di provenienza, del fatto che a livello locale non fosse ancora stato individuato uno stabile standard monetario. Va aggiunto che in genere quest’ultimo, data la sua funzione, tende a fissarsi sulla moneta più debole tra quelle concorrenti: l’abbassamento del valore (la diminuzione del contenuto di fino) della moneta che funge da standard reca con sé un raffinamento delle sue potenzialità di strumento di misura del valore, come avevano compreso gli esperti della moneta già nei secoli passati27. Per questa ragione il carattere di misura [p. 11 modifica]di valore si adattò bene alla fine dell’XI secolo e primi due decenni del XII al denaro pittavino, al denaro nuovo di Pavia o al denaro bruno di Milano – se ne parlerà ampiamente in questo lavoro. E tuttavia bisogna ritenere che queste stesse monete dovettero avere la funzione di monete di conto anche, ma in modo più complesso, poco più avanti nel tempo, quando è noto che il composito insieme degli scambi – composito perché da ricondurre a livelli della vita economica assai diversi tra loro – poté giovarsi di circolanti ulteriormente indeboliti nell’intrinseco, che le fonti oggetto di questo studio continuarono a ignorare.

La moneta di conto è insomma, dal punto di vista concettuale, uno strumento assai delicato, mai documentato in modo chiaro dalle fonti del periodo che qui interessa, ma di cui tenere sempre conto28, anche se, naturalmente, non è una chiave che possa aprire tutte le porte. Fatto, quest’ultimo, che vale a maggior ragione per la “legge di Gresham” – e vengo così alla seconda obiezione – che nella sua formulazione vulgata corre sulla bocca di tutti. In quest’ultima forma, «la moneta cattiva espelle la moneta buona», vale presso alcuni interpreti come fattore che determina in modo unilaterale e, per così dire, automatico un intero fascio di relazioni umane pertinenti all’ambito dell’economia. Il ricorso in chiave esplicativa a questo deus ex machina è assai rischioso. Il periodo qui studiato fu completamente estraneo al regime di cambi fissi o gridati, come li definì un economista italiano, che venne stabilito solo più tardi negli stati europei, nei quali poteva accadere che a una moneta venisse imposto un corso sopravvalutato o sottovalutato rispetto ad altre specie concorrenti, e che quindi la moneta sottovalutata venisse tesaurizzata o emigrasse lì dove veniva meglio stimata29. Insomma, quello di cui mi occuperò fu un periodo estraneo al sistema in cui agivano i meccanismi che diedero occasione alle riflessioni di Thomas Gresham e di molti altri prima e dopo di lui30. Nei secoli del cosiddetto monometallismo argenteo l’espulsione [p. 12 modifica]dal mercato della moneta “buona” si verificava quando due monete dello stesso valore nominale avevano un valore reale leggermente diseguale, vale a dire una differenza di valore reale modesta ma apprezzabile dagli operatori economici31. Di tale meccanismo ha offerto un esempio Pierre Toubert alcuni decenni or sono, studiando la circolazione monetaria a Roma e nel Lazio nel trentennio che va dal 1180 circa agli anni intorno al 1210, caratterizzata dalla concorrenza di due monete molto simili per tipo, peso e contenuto di fino32.

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Note

  1. Si veda, per esempio, F. Bougard, La justice dans le royaume d’Italie de la fin du VIIIe siècle au début du XIe siècle, Rome 1995 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 291), pp. 323 sgg. Ricordo subito che nel periodo e nell’area che interessano questo studio (ma più in generale in tutta l’Europa carolingia e postcarolingia) l’unica moneta effettivamente coniata fu il denaro d’argento (insieme con una sua frazione, l’obolo, la cui produzione da parte delle zecche italiane è stata revocata in dubbio) al quale nella documentazione scritta si affiancano come suoi multipli delle pure unità di conto non coniate, vale a dire il soldo (in ragione di dodici denari per soldo) e la lira (in ragione di venti soldi per lira o duecentoquaranta denari): si veda, tra gli altri, L. Travaini, Monete e storia nell’Italia medievale, Roma 2007, pp. 40 sgg., 94 sg., 209 sgg.
  2. Per i documenti citati qui e oltre in questo primo capoverso si vedano i parr. 5 e 2. Cfr. G. Sergi, I confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Torino 1995, pp. 127 sgg. (in particolare p. 129 per l’appellativo marchesa, mai usato nelle fonti diplomatiche cisalpine). Per le vicende relative alla zecca abusiva di Aiguebelle, in Moriana, in cui Adelaide fu coinvolta in quanto vedova di Oddone I e madre dei suoi figli cfr. C.W. Previté Orton, The Early History of the House of Savoy (1000-1023), Cambridge 1912, pp. 98, 123, 224 sg.
  3. Per le coniazioni signorili transalpine nei secoli X e XI e per il conseguente accentuato frazionamento della monetazione nei territori francesi e tedeschi, da confrontare con la continuità della tradizione della moneta publica nel Regnum Italiae fino almeno ai primi decenni del XII secolo, si veda P. Spufford, Money and its use in medieval Europe, Cambridge 1988, pp. 55 sgg.; per il solo X secolo, ma con un efficace quadro comparativo che comprende il Regnum Italiae, F. Dumas, La monnaie au Xe siècle, in Il secolo di ferro: mito e realtà del secolo X, Spoleto 1991 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 28), pp. 565-609; per la sola Francia, ma con considerazioni di ordine generale, è ancora utile la lettura di J. Lafaurie, Numismatique: des Carolingiens aux Capétiens, in «Cahiers de civilisation médiévale», 13 (1970), pp. 117-137, in particolare pp. 132 sgg. Una chiara sintesi della situazione italiana nel periodo in esame paragonata con gli sviluppi oltralpini in P. Toubert, Il sistema curtense: la produzione e lo scambio interno in Italia nei secoli VIII, IX e X, in Storia d’Italia, Annali 6, Economia naturale, economia monetaria, a cura di R. Romano e U. Tucci, Torino 1983, pp. 5-63: pp. 50 sg. (ripubblicato in P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, a cura di G. Sergi, Torino 1995, pp. 183-245; qui citerò dall’edizione originale).
  4. Si vedano oltre i parr. 3 e 6.
  5. Cfr. Spufford, Money and its use cit., pp. 101 sgg. Si veda anche, per esempio, D. Herlihy, Treasure Hoards in the italian economy, 960-1139, in «The Economic History Review», second series, 10 (1957), p. 7, che si esprime invece (come Pierre Toubert nell’opera indicata alla nota seguente) in termini di “indicazione di provenienza”.
  6. P. Toubert, Les structures du Latium médieval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle, I-II, Rome 1973, ha dedicato a L’instrument monétaire la prima parte del capitolo VI (consacrato nel suo complesso a Les structures d’échanges), pp. 551-624 con le illustrazioni alle pp. 689-692. Altro caso interessante per le analogie con il territorio qui studiato (assenza di officine monetarie interne) è quello della porzione sud orientale del ducato di Spoleto: L. Feller, Les conditions de la circulation monétaire dans la périphérie du royaume d’Italie (Sabine et Abruzzes, IXe-XIIe siècle), in L’argent au Moyen Âge, XXVIIe Congrès de la S.H.M.E.S. (Clermond Ferrand, 30 mai-1er juin 1997), Paris 1998, pp. 61-75. Alcuni aspetti dell’analisi toubertiana sono stati oggetto in anni recenti, soprattutto per ciò che riguarda il periodo anteriore all’XI secolo, di tentativi di revisione: cfr. A. Rovelli, La funzione della moneta tra l’VIII e il X secolo. Un’analisi della documentazione archeologica, in La storia dell’alto medioevo italiano (VI X secolo) alla luce dell’archeologia, Convegno internazionale (Siena, 2-6 dicembre 1992) a cura di R. Francovich e G. Noyé, Firenze 1994, pp. 521-537; A Rovelli, Le monete nella documentazione altomedievale di Roma e del Lazio, in La storia economica di Roma nell’alto medioevo alla luce dei recenti scavi archeologici, Firenze 1993, pp. 333-352 (anche per l’XI secolo); A. Rovelli, Circolazione monetaria e formulari notarili nell’Italia altomedievale, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 98 (1992), pp. 109-144; ma si veda soprattutto il recente A. Rovelli, Coins and trade in early medieval Italy, in «Early Medieval Europe», 17 (2009), pp. 45-76
  7. Sul denaro pavese A. Rovelli, Il denaro di Pavia nell’alto medioevo (VII-XI secolo), in «Bollettino della Società pavese di storia patria», 95 (1995), pp. 71-90; si veda anche il lavoro di M. Matzke cit. oltre, nota 35; per il denaro milanese si vedano gli interventi di C. Brühl, M. Metcalf e O. Murari in La Zecca di Milano, Atti del Convegno internazionale di studio (Milano 9-14 maggio 1983), a cura di G. Gorini, Milano 1984, pp. 247 sgg.; L. Travaini, La moneta milanese tra X e XII secolo. Zecche e monete in Lombardia da Ottone I alla riforma monetaria di Federico Barbarossa, in Atti dell’11° Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo (Milano, 26 30 ottobre 1987), I, Spoleto 1989, pp. 223-243
  8. Allo stato attuale non sono in grado di stabilire la provenienza precisa del denaro del Poitou, testimoniato dalle fonti oggetto di questa ricerca a partire dalla fine dell’XI secolo. Certo è che l’atelier monetario di Melle, presso le celebri miniere d’argento, ebbe una grande importanza per tutto l’alto medioevo: cfr. Spufford, Money and its use cit., pp. 32 sg., 44, e in particolare 55 sg.; M. C. Bailly-Maître - P. Benoit, Le mines d’argent de la France médiévale, in L’argent au Moyen Âge, XXVIIe Congrès de la S.H.M.E.S. (Clermond-Ferrand, 30 mai 1er juin 1997), Paris 1998, pp. 17-45, in particolare pp. 21 25; per le coniazioni di Melle dei secoli X e XI si veda F. Dumas Dubourg, Le trésor de Fécamp et le monnayage en Francie occidentale pendant la seconde moitié du Xe siècle, Paris 1971 (Comité de travaux historiques et scientifiques, Mémoires de la section d’archéologie, 1), pp. 241-244; non ho potuto consultare O. Jeanne-Rose, La monnaie en Poitou au début de l’époque féodale (fin IXe-début XIe siècle), in «Bulletin de la Société des antiquaires de l’Ouest», 5 ser., 9 (1995), pp. 163-235 citato in M. Bompaire - F. Dumas, Numismatique médiévale, Turnhout 2000 (L’atelier du médiéviste, 7), p. 199 (e cfr. p. 106).
  9. Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori dal MXCIX al MCCXCIII, nuova edizione a cura di L.T. Belgrano, I, Genova 1890 (Fonti per la storia d’Italia, 11). Si vedano in particolare V. Capobianchi, Il denaro pavese e il suo corso in Italia nel XII secolo, in «Rivista italiana di numismatica», 11 (1896), pp. 21-60, in particolare pp. 28-47; M. Chiaudano, La moneta in Genova nel secolo XII, in Studi in onore di Armando Sapori, I, Milano 1957, pp. 189-214; C.M. Cipolla, Le avventure della lira, Bologna 1975 (ed. or. Milano 1958), pp. 22-24.
  10. Fissò al 1102 (in realtà, come si vedrà, la data va anticipata di almeno due anni) la fine della moneta denariorum Papiensium veterum e il conseguente inizio della nova moneta brunitorum, all’ottobre del 1115 la fine dei denarii bruni prioris nove monete e l’inizio della battitura dell’alia moneta minorum brunitorum: Annali genovesi di Caffaro cit., pp. 13, 15, 29. Come si vedrà nei paragrafi successivi, i dati documentari qui studiati, pur nelle loro specificità linguistiche, coincidono e talvolta anticipano le notizie relative ai mutamenti monetari ricordati dalle fonti cronachistiche: si vedano le interessanti considerazioni di P. Grillo, La moneta coniata nella documentazione privata del XIII secolo in area lombarda. Fra città e campagna (1200-1260), in La moneta in ambiente rurale nell’Italia tardomedioevale, Atti dell’Incontro di studio (Roma, 21 22 settembre 2000), a cura di P. Delogu e S. Sorda, Roma 2002, pp. 37-57.
  11. Cfr. Capobianchi, Il denaro pavese cit., pp 30-33. Una dinamica di indebolimenti molto simile, anche sotto il profilo cronologico, a quella del denaro pavese conobbe anche il denaro lucchese: M. Matzke, Der Denar von Lucca als Kreuzfahrermünze, in «Schweizer Münzblätter», 43 (1993), pp. 36-44; ma soprattutto M. Matzke, Vom Ottolinus zum Grossus: Münzprägung in der Toskana vom 10. bis zum 13. Jahrhudert, in «Schweizerische Numismatische Rundschau», 72 (1993), pp. 135-200.
  12. Per quel che riguarda le fonti numismatiche, è nota la rarità dei rinvenimenti di denari carolingi e postcarolingi; i ritrovamenti monetali riprendono con i denari d’età ottoniana, ma soprattutto poi con i cosiddetti denari enriciani, a partire dall’XI secolo: Rovelli, La funzione della moneta tra l’VIII e il X secolo cit., che ritiene, contro le tesi toubertiane (vedi il lavoro cit. sopra, nota 3), che tale rarità vada ricondotta all’alto potere liberatorio del denaro dei secoli IX-X che l’avrebbero reso adatto solo per la fascia medio alta degli scambi. La studiosa è tornata di recente sull’argomento con un ampio contributo (Coins and trade in early medieval Italy cit.) in cui ribadisce con chiarezza le sue posizioni: «The picture resulting from the archaeological evidence should (…) be seen not simply as a chance ‘absence of evidence’, but rather as negative evidence, which has to be taken into account when determining the level of monetization of Italian society in the Carolingian period» (pp. 48 e cfr. pp. 66 sgg.). Si veda in proposito Feller, Les conditions de la circulation monétaire cit., pp. 73 sgg.
  13. Cfr. Premessa degli autori in Piemonte medievale. Forme del potere e della società. Studi per Giovanni Tabacco, Torino 1985, pp. XI-XV.
  14. Per questo si veda C.M. Cipolla, Moneta e civiltà mediterranea, Venezia 1957 (traduzione italiana, con modifiche e aggiunte, dell’edizione americana del 1953), pp. 13 sgg. che rimanda alla chiara distinzione operata da Hans von Werveke nella sua recensione al libro di Alfons Dopsch, Naturalwirtschaft und Geldwirtschaft in der Weltgeschichte uscito a Vienna nel 1930, in «Annales d’histoire économique et sociale», 3 (1931), pp. 428-435.
  15. Dal campo di ricerca restano esclusi quindi tutti i documenti in cui la moneta non è menzionata o è menzionata soltanto nelle fomulazioni cristallizzate delle clausole penali altomedievali (diverso è il discorso, come si vedrà, per le penali a partire all’incirca dalla fine dell’XI secolo), che spesso non menzionano neppure moneta vera e propria ma quantità di metallo non monetato («multa quod est pena auro obtimo uncias tres, argenti ponderas sex»: per fare un esempio tra i tanti possibili: BSSS 78, p. 92, doc. 59 del 966). Resteranno esclusi quindi i diplomi imperiali, le donazioni e le permute, che sono anche i documenti più numerosi per buona parte dell’XI secolo.
  16. Fa eccezione una vendita del 1018, di tradizione peraltro assai incerta, sulla quale si veda P. Guglielmotti, I signori di Morozzo nei secoli X-XIV. Un percorso politico del piemonte meridionale, Torino 1990 (BSS, 206), pp. 36, 39 sgg.
  17. Si è scelto deliberatamente di escludere dalla ricerca Tortona e Voghera, entrambe saldamente comprese nell’area monetaria pavese. Per quanto riguarda la superstite documentazione tortonese, che non reca indicazioni di origine della moneta prima del 1114, si vedano BSSS 29, pp. 44 sgg., docc. 31, 34, 38, 44, 46, 48, 49; BSSS 31, pp. 5 sgg., docc. 2, 62, 63; BSSS 47, pp. 78 sgg., docc. 48, 50. Pur essendo indubitabile che all’interno del territorio vogherese la moneta pavese circolò in assenza di concorrenze significative, occorre notare che le diverse raccolte di documenti relativi a Voghera pubblicate dagli editori della Biblioteca della Società storica subalpina sono costituite quasi esclusivamente di documenti prodotti per enti o persone esterne a Voghera (nella grande maggioranza dei casi si tratta di enti e persone pavesi) che per qualche particolare, spesso la posizione del bene fondiario oggetto del negozio, si riferiscono a Voghera: si vedano BSSS 46 e BSSS 47.
  18. Cfr. P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991, pp. 49 sgg., in particolare p. 55.
  19. Cfr. C. Violante, La società milanese nell’età precomunale, Roma-Bari 1981 (prima ed. Bari 1953), pp. 194 sgg., 272 sg.; G. Arnaldi, Arduino, re d’Italia, in Dizionario biografico degli italiani, 4, Roma 1962, pp. 53-60; Sergi, I confini del potere cit., pp. 189 sgg.; per il Vercellese in particolare F. Panero, Una signoria vescovile nel cuore dell’Impero. Funzioni pubbliche, diritti signorili e proprietà della Chiesa di Vercelli dell’età tardocarolingia all’età sveva, Vercelli 2004, pp. 77 sgg.
  20. Un quadro aggiornato sulla questione in Bompaire - Dumas, Numismatique médiévale cit., pp. 233-285. Per i problemi generali di metodo relativi ai tesori monetari o ai pezzi dispersi rinvenuti per caso o nel corso di scavi archeologici si veda la bibliografia cit. da Rovelli, Coins and trade cit., p. 46; in particolare per il territorio italiano le considerazioni di E.A. Arslan nel suo intervento in La moneta in ambiente rurale nell’Italia tardomedioevale cit., pp. 119 sgg.
  21. Si vedano per esempio gli atti del convegno del 1992 sulla circolazione della moneta battuta a Friesach, in Carinzia: Die Friesacher Münze im Alpen-Adria-Raum, Akten der Friesacher Sommerakademie Friesach (Kärnten), 14. bis 18. September 1992, in Verbindung mit M.J. Wenninger herausgegeben von R. Härtel, Graz 1996. Rimando, in particolare, a R. Härtel, Der Münzlauf im Patriarchat Aquileia aufgrund der Schriftquellen, pp. 405-443 a proposito della circolazione del denaro frisiacense nel patriarcato di Aquileia e al notevole saggio di A. Saccocci, La monetazione dell’Italia nord orientale nel XII secolo, pp. 285-306: per la posizione di questo autore, che limita drasticamente il valore delle testimonianze scritte, si veda più in generale A. Saccocci, Ritrovamenti monetali e fonti scritte in epoca medievale: problemi di interpretazione, in Ritrovamenti monetali nel mondo antico: problemi e metodi, Atti del Congresso Internazionale (Padova, 31 marzo-2 aprile 2000), a cura di G. Gorini, Padova 2002, pp. 284-294. Sul problema della apparente contraddittorietà dei risultati delle indagini sulle fonti d’archivio e delle indagini archeologiche si vedano le considerazioni, vertenti sui diversi livelli di scambio testimoniati da fonti di diversa natura, di A. Rovelli, La funzione della moneta tra l’VIII e il X secolo. Un’analisi della documentazione archeologica, in La storia dell’alto medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia cit., pp. 521-537. Una sintesi ragionata e ricca di esempi sui rapporti tra indagini basate su fonti archeologiche e ricerche basate su fonti scritte in Ch. Wickham, Fonti archeologiche e fonti storiche: un dialogo complesso, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, diretta da A. Barbero, IV, Il Medioevo (secoli V-XV), a cura di S. Carocci, IX, Strutture, preminenze, lessici comuni, Roma 2007, pp. 15-49, in particolare pp. 34-40.
  22. Rimando qui, scegliendo all’interno di una bibliografia vasta e comprensiva di opere di grande valore, ad alcune recenti messe a punto sull’argomento: oltre al quadro aggiornato (al 2000), comprensivo di una bibliografia selettiva, offerto da Bompaire - Dumas, Numismatique médiévale cit., pp. 318-336, si veda la chiara messa a punto di Spufford, Money and its use cit., pp. 411-414 (dove si legge, a proposito della «misnomer ‘imaginary money’», che «on closer inspection an historical explanation may be found for the existence of each money of account and that such an historical explanation will indicate to which real coin the system continued to be attached», pp. 413 sg.), e l’ampia sintesi problematica di J. Day, The problem of the standard in preindustrial Europe (Thirteenth-Eighteenth centuries), in Fra spazio e tempo. Studi in onore di Luigi De Rosa, a cura di I. Zilli, I, Napoli 1995, pp. 309-359. Per un punto di vista diverso A. Saccocci, Una storia senza fine: le monete di conto in Italia durante l’alto medioevo, in «Annali dell’Istituto italiano di numismatica», 54 (2008), pp. 47-85.
  23. R. De Roover, Money, Banking and Credit in Mediaeval Bruges — Italian Merchant-Bankers Lombards and Money-Changers. A Study in the Origins of Banking, Cambridge (Mass.) 1948, p. 220.
  24. Cfr. sopra, nota 3.
  25. Cfr. del resto Spufford, Money and its use cit., p. 411. Per la tendenza a interpretare in modo sistematico le attestazioni di moneta etichettata soprattutto come testimonianze relative all’adozione di un certo standard valutario si veda Matzke, Vom Ottolinus zum Grossus cit., p. 137 («So erlaubt die reiche Überlieferung von Immobiliengeschäften in den italienischen Archiven, meist mit Zahlungsangaben in spezifierten Münzsorten, spätestens ab dem 12. Jahrhundert eine recht genaue Umschreibung von Währungsgebieten (nicht Verbreitungsgebieten!) von Münzsorten») e un esempio a p. 147.
  26. Il rapporto tra le due monete è noto per il principio dell’XI secolo: un diploma del 1013 di Enrico II per il monastero di Sant’Abbondio di Como – Die Urkunden Heinrichs II. und Arduins, Hannover 1900-1903 (Monumenta Germaniae Historica, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, III), doc. 275, pp. 324 sg. – indica un rapporto di equivalenza di undici lire di denari milanesi con dieci lire di denari pavesi: C. Brühl - C. Violante, Die “Honorantie Civitatis Papie”. Transkription, Edition, Kommentar, Köln-Wien 1983, pp. 52 sg.
  27. Si vedano, per esempio, le osservazioni dell’economista settecentesco Pompeo Neri: essendosi «il grado del valore dinotato sotto il nome di lira (...) col decorso dei tempi sempre diminuito, è bisognato un maggior numero di questi gradi per valutare una costante quantità di metallo» (da P. Neri, Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete, in Scrittori classici italiani di economia politica, Parte antica, VI, Milano 1804, pp. 155 sg., citato in L. Einaudi, Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese, in «Rivista di storia economica», 1, 1936, pp. 4 sg.).
  28. Si vedano a proposito le costanti cautele adottate nel recente J. Le Goff, Le Moyen Âge et l’argent, Paris 2010 (trad. it. Roma-Bari 2010).
  29. È appena il caso di rilevare che il concetto di corso legale di una moneta (legal tender) è assai diverso da quello di valore nominale (nominal value).
  30. Cfr. C. Crisafulli, Legge di MacLeod? Comprensione e teorizzazione della c. d. legge di Gresham, in I ritrovamenti monetali e la Legge di Gresham, Atti del III Congresso internazionale di numismatica e di storia monetaria (Padova, 28-29 ottobre 2005), a cura di M. Asolati e G. Gorini, Padova 2006 (Numismatica Patavina 8), pp. 177-192 (con molti esempi di operatività della legge di Gresham tratti da fonti tardomedievali) ma soprattutto, nello stesso volume, il luminoso saggio di R. Mundell, Uses and Abuses of Gresham’s Law in the History of Money, pp. 195-222 (distribuito in formato digitale dalla Columbia University: <http://www.columbia.edu/~ram15/grash.html>) da cui traggo la seguente citazione: «The usual expression of the law, “bad money drives out good” is a mistake. Schumpeter refers to this common definition as “not quite correct”. But as the statement stands, it is not just “not quite correct”; it is quite false. The opposite is true!» (con quel che segue) (p. 200). Il passo di Schumpeter cui Mundell si riferisce è – il «not quite correct» a parte – una ottima definizione della legge di Gresham: «se monete che contengono metallo di valore differente hanno la stessa capacità liberatoria legale, allora quelle “cattive” [nell’orig. inglese «the ‘cheapest’ ones»] saranno adoperate per i pagamenti mentre quelle buone tenderanno a sparire dalla circolazione: ovvero, per usare la frase solita ma non del tutto esatta, la moneta cattiva scaccia la buona» (J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, I, Torino 1990 – ed. or. Oxford-New York 1954 –, p. 419). Per gli scopi che qui ci si propone si può trascurare il fatto, illustrato da Robert Mundell, che sul piano teorico la legge di Gresham si attiva soltanto se la situazione della domanda e offerta di moneta è squilibrata. Aggiungo che nello stesso volume sopra citato (I ritrovamenti monetali e la Legge di Gresham) l’articolo di A. Saccocci, Il ruolo della cosiddetta legge di Gresham nello sviluppo monetario dell’Italia medievale, pp. 155-175 è concepito sulla base di criteri completamente differenti da quelli qui richiamati.
  31. Modesta nei termini in cui poteva esserlo in un’epoca di sviluppo tecnologico e scientifico quale era quella medievale, nella quale le differenze ponderali apprezzabili non si misuravano in termini di centesimi o, meno ancora, millesimi: cfr. C.M. Cipolla, Il governo della moneta a Firenze e a Milano nei secoli XIV-XVI, Bologna 1990, pp. 7 sg., ma soprattutto C.M. Cipolla, Argento tedesco e monete genovesi alla fine del Quattrocento, in C.M. Cipolla, Le tre rivoluzioni e altri saggi di storia economica e sociale, Bologna 1989, pp. 117-123 (l’edizione originale del saggio è del 1956).
  32. Tali due monete erano costituite da un circolante oltralpino, il denaro provisino, che aveva conquistato la fascia superiore degli scambi economici laziali a partire dagli anni cinquanta del XII secolo, e il cosiddetto provisino del Senato, coniato a stretta imitazione del precedente da una officina monetaria locale, la zecca del Senato romano, che aveva inaugurato le sue attività dopo quasi due secoli di assenza dal mercato laziale di una moneta locale. Benché il vecchio provisino di Champagne avesse un valore intrinseco solo leggermente superiore al provisino del Senato (la differenza si aggirava intorno al 4% circa), esso venne ampiamente sopravvalutato sul mercato, divenendo assai raro (per tesaurizzazione) per poi sparire: cfr. Toubert, Les structures du Latium médieval cit., pp. 592-600 (dove viene anche affrontata la questione fondamentale del «bi-métallisme argent»), ripreso in P. Toubert, Une de premières vérifications de la loi de Gresham: la circulation monétaire dans l’État pontifical vers 1200, in P. Toubert, Études sur l’Italie médiévale (IXe-XIVe s.), London 1976, III. Negli stessi anni a Venezia – sembrerebbe a partire dal 1194, al tempo del doge Enrico Dandolo, o poco più tardi – la coniazione del grosso e la di poco successiva, e conseguente, cessazione della coniazione del denaro d’argento da parte della stessa zecca veneziana, consentono già di osservare, per le complesse ragioni spiegate da Luise Buenger Robbert, un tipico esempio di esclusione dal mercato di una moneta “buona” in un regime di cambio imposto: L. Buenger Robbert, The Venetian Money Market, 1150 to 1229, in «Studi veneziani», 13 (1971), pp. 3 94, in particolare pp. 38 46, 54 sg., 71; cfr. anche L. Buenger Robbert, Il sistema monetario, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, II, L’età del Comune, a cura di G. Cracco e G. Ortalli, Roma 1995. pp. 409-436, in particolare pp. 415-417 (con bibliografia aggiornata).