Poesie varie (Maffei)/V. A istanza de la Colonia Arcadica di Napoli nel 1703

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V. A istanza de la Colonia Arcadica di Napoli nel 1703

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V. A istanza de la Colonia Arcadica di Napoli nel 1703
IV. Nell'anno 1700, poco prima della morte del re di Spagna VI. Nella prima radunanza della Colonia Arcadica Veronese

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V

A istanza de la Colonia Arcadica di Napoli nel 1703,

in occasione d’acclamare in essa il Viceré
e di doversi lodare Filippo V.

     O erbosa e fiorita, o fresca e morbida
sebezia riva, e qual nume dai patrii
colli mi tolse e ’n te mi pose? Apolline
fu egli forse o ’l nostro Pan capripede?
Ma che lodato e’sia, qual egli fossesi,
se in così lieta piaggia e così florida
mi trasse, e dove i miei compagni amabili,
de’ quali il nome si da lunge intendesi,
veder potrò, coni’io bramava. Or eccogli,
eccogli, s’io non erro, in un bel cerchio;
io piú non erro, ecco la nostra arcadica
famosa insegna: a la bel l’ombra stannosi
degli arboscelli e cantando addolciscono
le molli aurette che d’intorno aggiransi.
Che dolce suon quelle sampogne rendono,
che giá dal gran Sincero a lor passarono!
O felice colui ch’a solitario
boschetto i giorni mena e canta e medita
e tutto ha, perché nulla desidera.
     Or qual vegg’io da la cittá con lucide
vesti pensoso e solo a noi venirsene,
qual chi gran cose nella mente rumina,
uom grande, d’occhio grave e di magnanimo
sembiante? Ei giunge a lento passo, e illustrasi
da lui l’ombrosa selva; a lui rivolgonsi
tutti i pastori ed il suono interrompono.

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Mira che, ad ambe man le canne armoniche
tenendo in alto ancora e da le labbia
poco disgiunte, attoniti riguardano.
Egli depone il manto aurato e appendelo
a un verde ramo, di lontano il mirano
le Driadi e allegre l’una a l’altra additanlo.
Candida pelle a l’uso nostro or cingesi,
poi siede anch’egli in giro e del Parrasio
bosco si dice abitator. Ripigliasi
l’usato canto; ma che sento! Simili
non son piú a voi le vostre voci. A l’ètere
qual suon s’inalza? E come mai le querule
siringhe in un balen trombe divennero?
Gli augelletti al rumore i nidi lasciano,
rimbomba il colle e Pane al nuovo strepito
corre fuor de la grotta e guarda e stupido
alza le mani aperte e inarca il ciglio.
Or qual sent’io spirto nel sen che m’agita?
     Che ninfe o selve? Oltra le vie del sole
spinger mi sento; eccelse in guerra imprese
splendon d’intorno e su la gloria han regno.
Suoi denti in sé per disperato sdegno
rivolga il tempo, un inno alto sonante
di mano a Febo io vo a rapir, e allora
a lui mi volgerò che in un istante
ben cento regni ancor fanciullo ottenne;
dirò com’ei sostenne
ben cento assalti de l’Europa armata,
come ardito gravò di ferree spoglie
le membra molli, come aspra e gelata
sprezzò la notte e sprezzò il giorno ardente.
Tu non temesti di Nettun fremente
’orribi 1 faccia. Tu, P’ilippo invitto,
i gioghi carchi di perpetuo verno
varcasti e i fiumi di fatai tragitto.
Te vide il Tago in su destrier spumante

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dissipar schiere, il Po te vide agli atri
di morte orror mostrar secura fronte.
L’ire per te, per te le destre han pronte
genti infinite, immense schiere. Or vivi,
vivi per sempre: e doni il braccio eterno
a’ voti nostri ed a’ consigli tuoi
i regni a te, la bella pace a noi.