Polinice (Alfieri, 1946)/Atto terzo

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Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Eteocle, Creonte.

Eteoc. Visto l’hai tu quel Polinice? estimi

ch’ei, quant’io l’odio, m’odj? Ah! no; ch’io troppo
troppo lo avanzo in ogni cosa.
Creon.   Ei pago
non è di odiarti; a scherno anco ti prende.
Giá suo pensier cangiò; della fraterna
pace, dic’ei, vuol testimonj in Tebe
gli Argivi aver; per piú nostr’onta, io credo.
Né sgombrar li vedrem, s’esul tu pria
di quí non vai. Vedi, riman brev’ora
a prevenir l’un l’altro; e qual dá tempo,
svenato cade. È chiaro omai, ch’ei vuole
i tuoi rifiuti a forza: in alto il brando
fatal ti sta su la cervice; il segno
darai tu stesso di vibrarlo? T’era
util finor soltanto, or ti s’è fatta
necessaria sua morte.
Eteoc.   All’odio, all’ira,
e alla vendetta sospirata tanto,
pur ch’io dia fin ratto e sicuro. In campo,
spento costui, pari alla causa io poscia
il valor mostrerò. — Rimani, o Adrasto,
all’assedio di Tebe; il vedrai tosto
com’io nel campo un tradimento ammendi.
Creon. Stanno in campo gli Argivi appien securi,

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nella tregua fidando: a chi improvviso

gli assal, fia lieve aspro macello farne.
Orrido dubbio a lor timore aggiunga:
nulla sapran di Polinice...
Eteoc.   Nulla?
Tutto sapranno; e in lor cosí ben altro
sará il terror. Si mostri ad Argo in alto
del traditor la testa; atro vessillo,
d’infausto augurio a lor soltanto; a noi,
presagio, e pegno, di compiuta palma.
Creon. Di rimandar l’oste nemica in Argo,
dunque non fargli istanza omai. Sospetto
gli accresceresti, e invan: s’anco ei cedesse,
ch’esser non può, ten torneria piú danno.
Adrasto appena i nostri campi avrebbe
sgombri, che poi, nel risaper la morte
data al genero in Tebe, assai piú fiero
vendicator ritornerebbe, a ferro,
a fuoco, a sangue, il mal difeso regno
tutto mandando. Re, tu ben scegliesti:
dell’una mano al traditor gastigo,
dell’altra arrechi inaspettato, a un tratto,
guerra, terror, confusíon, rovina.
Eteoc. Previsto men, terribil piú fia il colpo.
Disponi tu verace guerra; io finta
pace... Ma vien la madre: andiam; se d’uopo
fu mai sfuggirla, è questo il dí.
Creon.   Si sfugga.


SCENA SECONDA

Giocasta, Antigone.

Gioc. Vedi? ei da me s’invola: or, della madre

anco diffida?...
Antig.   Usurpator diffida

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di tutti sempre.

Gioc.   A noi sfuggire intento
ognor mi par, da che il fratello ei vide:
che mai pensar degg’io?
Antig.   Pensar, pur troppo!
ch’odio ei cova, e rancore, e sangue, e morte,
nel simulato petto.
Gioc.   A mal tu torci
ogni suo moto. Ei non ingiusti patti
in somma chiede: e se a’ miei preghi, e a dritta
ragion (qual dianzi mel promise ei quasi)
oggi il fratello assediator si arrende;
non veggio allor, qual mendicar pretesto
potrebbe il re, per non serbar sua fede.
Antig. Pretesti al re, per non serbar sua fede,
mancaron mai? Se Polinice il seggio
non dá per sempre ad Eteócle, indarno
pace tu speri. Il solo trono omai,
se celar no, può d’Eteócle alquanto
l’animo atroce colorar: quindi egli,
parte di se miglior, vita seconda,
reputa il trono.
Gioc.   Eppur, mostran suoi detti,
che piú di re la maestá gli cale,
che il regno: in somma, le minacce prime
da Polinice usciro.
Antig.   Offeso ei primo. —
Dissimulare invitto cor gli oltraggi
seppe giammai? D’ira, ma regia, pieno,
fervidamente Polinice esala
co’ detti il furor suo: ma l’altro tace;
tace, e dattorno immenso stuol gli veggo
di consiglieri, onde ritrarre al certo
alti non può né generosi sensi.
Iniqui vili havvi quí assai, che solo
aman se stessi; a cui, né il nome è noto

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di patria pur; che al sol pensier, che in trono

salir può un re, che in pregio abbia virtude,
fremono, agghiaccian di terrore: e n’hanno
ben donde in ver; che mal trarrian lor giorni
sotto altro regno. Alla bramata pace,
madre, (tel dico, e fanne omai tuo senno)
invincibili ostacoli non sono
d’Eteócle il lungo odio, o il breve sdegno
di Polinice: ostacol rio, son gli empj
di servil turba menzogneri accenti.


SCENA TERZA

Giocasta, Antigone, Polinice.

Gioc. Figlio, in te spero; in te solo omai spero;

di vera pace (ah! sí) Tebe, la madre,
e la sorella che tant’ami, e tanto
ama ella te, tutti or ne vuoi far lieti.
Parla, non dico io vero? Ottimo figlio,
buon cittadin, miglior fratel non sei?
Adrasto in Argo a ritornar si appresta?
Polin. Eteócle di Tebe a uscir si appresta?
Gioc. Che sento? A danno nostro, ad onta tua
udirti ognor degg’io pace negarmi,
o non volerla primo? Andrá (pur troppo!)
lontano anch’egli il tuo germano; andranne
esule, qual ne andasti: a eterno pianto
dal ciel, da voi, dannata io son; né fia,
che cessi mai. Ten pasci tu del mio
pianto materno? Ah! di’: non eri dianzi
tutto in parole pace?
Polin.   Or dalla pace,
piú assai di pria, son lungi: e non men dei
chieder ragion; tal v’ha ragione orrenda,
che dir non posso; ma la udrai tra breve;

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e scorreratti per l’ossa in udirla

di morte un gelo. Altro per or non dico,
se non che in Argo non ritorna Adrasto;
non parte ei, no. — Ben le superbe mura
della spergiura Tebe adito dargli
forse dovran tra le rovine loro,
tosto, e mal grado mio: ma, s’abbia il danno
chi a forza il vuol. Nel sanguinoso assalto
trovar la tomba anco poss’io; né duolmi;
purch’io non cada invendicato.
Gioc.   Ahi lassa!
E qual vendetta? e contro a chi?
Polin.   Vendetta
d’un traditore.
Gioc.   Il traditor fia quegli,
ch’empio in te nutre con supposte trame
lo sdegno, il diffidar: me sola credi...
Antig. Madre, fratello, al mio terror soltanto
crediate or voi.
Gioc.   Che parli?... Al terror tuo?
A qual terrore?
Antig.   Ah! d’Eteócle al fianco
sta consiglier Creonte; alto terrore
quindi a ragion...
Gioc.   Creonte?
Polin.   Ei sol pur fosse,
che a lui consigli!... Io ben mel so... Creonte...
senz’esso... ah! forse,... a ria vendetta...
Gioc.   Oh cielo!
qual parlar rotto! qual bollor di sdegno!
Che mi nascondi? parla.
Polin.   Io no, nol posso.
Come tacer, cosí obbliar potessi,
cosí ignorar l’infame arcano! Il meglio
fora ciò per noi tutti; un sol delitto
vedriasi allor: meglio è morir tradito,

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che vendicato. Eppur saperlo, e starsi,

chi ’l puote?... Oh qual di sangue scorrer veggio
orribil fiume! oh quali stragi! oh quante!...
L’amistá di Creonte un don mi fea
funesto...
Antig.   Or sí, fratello, or sí davvero
compiango io te. Che di’? nunzia è di morte
del rio Creonte l’amistá.
Gioc.   Finora
per Polinice, è ver, pender nol vidi:
ma che perciò? Figlia, osi tu?...
Polin.   Creonte
pende per me, per la mia giusta causa,
assai piú ch’altri.
Antig.   Ei vi tradisce tutti;
ed io vel giuro: ei si fa giuoco, il crudo,
di voi, de’ dritti vostri.
Gioc.   Onde tai sensi?
Che ardisci tu? Non m’è fratel Creonte?
E a’ suoi nepoti?...
Antig.   Ahi! troppo io tacqui, o madre;
ed or, non parlo a caso. Emon gli è figlio,
a quel Creonte, a cui tu sei sorella;
noto gli è il padre; e pur mi disse ei stesso...
Che val? Di nuovo il giuro, ambi ei v’abborre:
al trono aspira; e qual, qual v’ha misfatto,
che al trono adduca, e non s’imprenda in Tebe?
Gioc. Nol creder, no... Ma pur, chi sa?... Mancava
questo a tant’altri orrori!...
Polin.   Ove l’incauto
piede inoltrai? Qual laberinto infame
di perfidia inaudita! Io quí, tra’ miei
annoverar deggio i piú feri atroci
nemici miei? — Ma voi, ch’io ascolto, voi,
che in amica sembianza a me dintorno
rimiro; oh ciel! chi ’l sa, se in voi si annida

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inganno, o fe? chi ’l sa, se in voi non entra

il pensier di tradirmi? A me tu madre;
sorella tu: ma che perciò? son sacri
tai nomi, è ver; ma son pur troppo in Tebe
tremendi nomi. A me fratel non era
l’usurpator? Creonte, zio non m’era? —
Ahi dura reggia, ov’io (misero!) i lumi
alla odíata luce apría! congiunti,
quanti ne serri infra tue mura infami,
tutti a me son di sangue; ed io di tutti
sono il bersaglio pure. Esul tanti anni,
or mi ritrovo in mezzo a’ miei straniero:
ovunque io giri incerto il guardo, (ahi vista!)
un traditor ravviso. Ogni pietade
è morta quí. Che cerco io quí? che aspetto?
a che rimango? qual piú orribil morte,
che nel sospetto vivermi tra voi? —
Ben io mel sento; al nascer mio voi sole,
voi presiedeste, o Furie; al viver mio
voi presiedete or sole: a qual sventura
me riserbate? a qual delitto?... Oh! forse
me dall’Averno respingete, o Erinni,
perch’io finor men empio son di Edippo?
Gioc. Degno figlio d’Edippo, anco la madre
di tradimento incolpi? Invocar osi
del tuo natal le Furie?...
Polin.   Altri si denno
numi in Tebe invocar?...
Antig.   Fratello...
Gioc.   Figlio...
Polin. Argo, patria mi fia miglior di Tebe:
spenta non è la fede in Argo: io vivo
securo lá, dove nomar non mi odo
fratel, né figlio.
Gioc.   Or va; ritorna, vola
in Argo dunque; e sol ti affida in Tebe
a chi t’inganna.

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Polin.   Al par mi affido in Tebe

a chi mi abborre, ed a chi m’ama... Oh crudo
dubbio, per cui, pur di me stesso incerto,
tremante io vivo! Io non ho regno, e tutte
di re le smanie provo; il rio sospetto,
il vil terror, la snaturata rabbia.
Oh del mio cor non degni, orridi affetti,
cui non conobbi io pria! perché voi tutti
sento in me tutto? In Tebe altro piú vero
tiranno v’ha: l’empio suo petto stanza
miglior vi fia; lui, lui squarciate a gara:
pace non goda ei fra delitti; pace,
che a me si vieta.
Antig.   Placati; ci ascolta:
di madre il cor col tuo parlar trafiggi.
Quanto piú mai figlio e fratel si amasse,
ti amiamo entrambe.
Gioc.   In te rientra; io voglio
pure obliar tuoi rei sospetti. Ah! nulla
tacer mi dei; parla, figliuol; ti stringa
di me pietá. L’orrido arcano svela,
che nel petto rinserri: io forse...
Polin.   Oh madre!...
Custodirlo giurai: sacra ho la fede:
pria che spergiuro, estinto. — In Tebe strana
virtú parrá: tal non mi par: di Tebe
non vo’ i suffragj; i miei vogl’io.
Gioc.   Giurasti
a un tempo il morir mio? Perfido, il voto
adempi; taci; e mille morti e mille
dammi, non ch’una: incerto lascia il core
di palpitante madre; ella non sappia
qual serberá, qual perderá de’ figli:
niegale tu d’ambo salvargli il mezzo.
Antig. Piú antico e sacro è di natura il dritto,
e invíolabil piú.

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Polin.   Chi primo il rompe?

Gioc. Ti assolve il ciel d’ogni tua fe, se rotta
può risparmiar sangue, e delitti.
Polin.   E il sangue
di un traditor perché risparmiar dessi?
Si versi pur, ma in campo: usi gl’inganni
lo ingannator, che ben gli sta: brev’ora
gli avanza a tesser frodi.
Antig.   O fratel mio,
mi amavi un dí; ma, se per me non vale,
per la consorte tua, piú di noi tutti
da te amata, ten prego; e pel tuo dolce
fanciul, cui nomi lagrimando; ah! frena
l’empia vendetta, io ti scongiuro: il trono
lasciargli vuoi di sangue e di delitti
contaminato? ah! non puoi sangue in Tebe
versar, che tuo non sia.
Gioc.   Sovra il tuo capo
ricade in Tebe ogni vendetta: arretra
dal precipizio, a cui sovrasti, il passo;
n’hai tempo ancor: se insidiato sei
dal fratel, (ch’io nol credo) ogni sua trama,
che a me sveli, tu rompi; e cosí togli
il mezzo a te d’ogni vendetta. O figlio,
qual sia il delitto, nel fraterno sangue
mai non si ammenda.
Polin.   E di costui fratello
perché mi festi?
Gioc.   E perché assai piú iniquo
esser di lui vuoi tu?
Polin.   Madre, mi squarci
il core... Udir tu vuoi?... Fors’è menzogna...
Fors’anco è doppio tradimento;... forse...
Chi creder qui?... Vi lascio. — Addio.
Gioc.   T’arresta.
Antig. Ecco Creonte.

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SCENA QUARTA

Creonte, Giocasta, Antigone, Polinice.

Gioc.   Ah! vieni; ah! d’un tremendo

dubbio orribile trammi... Esser può mai?...
Dimmi...
Creon.   Letizia, e vera pace io porto:
donne, asciugate il ciglio. È Polinice
il nostro re. — Primo a prestarten vengo
l’omaggio...
Polin.   A me ne fia lo augurio lieto:
chi, piú di te, vedermi brama in trono?
Gioc. Vero parli?
Creon.   Sgombrate ogni sospetto;
cacciato io pure ogni sospetto ho in bando:
Eteócle cangiossi; e omai...
Polin.   Cangiossi
Eteócle? — Creonte, a me tu il dici?
Creon. Svaní per or la trama.1 — È ver, che vani
a piegarlo pur troppo eran miei sforzi,
s’altra non si aggiungea ragion piú forte.
Mormora in Tebe ogni guerriero, e viene
ritroso all’armi a pro di un re spergiuro.
Il mal talento universal lo stringe;
nol dice ei giá; ma, chi nol vede? è vinto
dalla necessitá; pur d’alti sensi
velarla vuole.
Gioc.   Assai ti udia diverso
giá favellar di lui.
Creon.   Temprare il vero
spesso in molli lusinghe al re mi udisti;
nol niego io, no: ma il favellargli aperto
concede ei mai? Dura, e non nobil arte,

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pur l’adulare oprai; s’io nol facea,

con piú danno di tutti, altri il facea.
Or vedi, a trarlo al dover suo, non poco
giovò l’avermi cattivato io pria
cosí il suo core. — Infra brev’ora ei vuole
voi ragunar quí tutti; e il popol anco
vuol testimonio, e i sacerdoti, e l’are
de’ sommi Dei: quí, tra gran pompa, in trono
riporti ei stesso...
Gioc.   Oh ciel! ch’io debba tanto
sperare? Ah! no: mi lusingò fallace
mille volte la speme, e mille volte
delusa m’ebbe.
Creon.   Omai, che temi? è l’opra
compiuta giá; manca il sol rito: io pure
temer potrei, se in sua virtú dovessi
sol mi affidar; ma in suo timor, mi affido.
De’ Tebani ei non ha, né il cor, né il braccio:
ciò che a lui toglie il susurrar di Tebe,
vuol parer darti; e in ciò il compiaci.
Polin.   — Io ’l voglio.
Antig. Ah! no; diffida. In cor sento un orrendo
presagio...
Polin.   In breve, tornerem quí tutti.
Gioc. Ed io pur tremo...
Antig.   Ahi lassa me!
Polin.   Non io,
non tremo io, no; ch’io mai nol seppi. È giusto,
sacro è il mio dritto: avrò per me gli Dei. —
Questo mio brando, in lor difetto, avrommi.

  1. Sommessamente a Polinice.