Prato e suoi dintorni/Dintorni di Prato

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Dintorni di Prato

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DINTORNI DI PRATO


montemurlo - campi - poggio a cajano


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DINTORNI DI PRATO



MM
ONTEMURLO è fra i contorni di Prato uno de’ più vaghi e notevoli.

Dell’antico fortilizio, che fu dei conti Guidi e risaliva intorno al mille, ora avanza un palazzo merlato e quadrato.

Il cortile interno ha un bel portico. E nel centro sorge una torre. Davanti è l’oratorio, e attigua al palazzo l’antica chiesa plebana.

Delle mura distrutte, che inghirlandavano un tempo il vago poggetto, ultimo risalto meridionale del Monte Giavello, restano a stento le tracce di due porte. La Signoria di Firenze acquistò il castello di Montemurlo il 15 aprile 1254; e ogni sei mesi vi andava un Potestà e un Castellano. La fama e la popolarità del nome di questo castello superarono sempre di gran lunga la importanza e la grandezzapanorama di montemurlo.
(Fot. Marchese Ant. della Stufa).
[p. 60 modifica]effettiva del luogo; che veramente ora suona come l’ultimo baluardo della libertà fiorentina.

Quando nel 1537 Cosimo I proscrisse i suoi più fieri nemici, questi con una mano di armati si raccolsero sul castello nella speranza di ravvivare montemurlo — il campanile.
(Fot. Marchese Ant. della Stufa).
la sepolta indipendenza fiorentina. E però si dissero restauratori e riconobbero come loro capi Baccio Valori e Pietro Strozzi.

Le forze dei fuorusciti sommavano a 4000 fanti e 300 cavalli; ma o pel tradimento di Nicola Bracciolini pistoiese o per la poca compattezza delle forze o per l’ardimento impetuoso di Pietro Strozzi, la fortuna non rise; e nell’improvviso as[p. 61 modifica]salto dato dalle milizie di Cosimo (31 luglio, 1 agosto 1537) il castello fu facilmente occupato e quindi smantellato e sprovvisto del Potestà. I Nerli di Firenze lo ridussero da prima a una buona casa di campagna, e i successivi proprietari non hanno trascurato di modificare e di riattare!

montemurlo — una porta dell’antica fortezza.
(Fot. Marchese Ant. della Stufa).

Nell’oratorio dei Nerli è una tavola con la Vergine fra il Battista e S. Niccolò. Essa porta scritto: «Questa tavola hanno fatta fare Chorso di Giunta e Antonio di Giunta Operari anno Domini 1390, mensis Settembris». E più sotto: «Senator et Marchio Philippus Nerlius restauravit anno Domini 1684». Da un lato l’artefice si segnò: «Johannes Bartolomei de Pistoio fecit». [p. 62 modifica]

E questo Giovanni da Pistoia, anche ricordato dal Vasari, pare al Cavalcaselle che sia da identificare con Giovanni di Bartolomeo Cristiani, che lavorò anche a Pisa con Antonio Viti. L’altar maggiore della Pieve è ornato da una delle più belle tele di Francesco Granacci (1520); ma l’interesse principale converge in alto sulle storie affrescate del miracolo della Croce. Questa era la bella Croce bizantina che tutt’ora vi si conserva. Ma quattro secoli fa alcuni ladri l’asportarono sacrilegamente e, non potendo traversare il torrente Agna subitamente ingrossato, o per timore o per superstizione la seppellirono in un campo. E prima che potessero tornare sul posto avvenne che due bovi, arando, s’inginocchiarono; e il bifolco scavò e rinvenne la Croce che fu restituita alla chiesa e celebrata nelle storie attribuite vagamente a un Giovanni da Prato. montemurlo — la pieve.
(Fot. Marchese Ant. della Stufa).
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A G. A. Borgese dobbiamo queste ultime pagine:


Il Bisenzio e l’Ombrone sono le miti divinità fluviali protettrici della piana pratese vasta, verde, solatia. L’uno lambisce le antiche fortificazioni di Campi, ora fatte ruderi solenni o fattorie laboriose, l’altro cinge i silenzii funebri della villa medicea di Poggio a Cajano.

I Campigiani son celebri presso i Fiorentini maldicenti per la loro oltracotanza litigiosa e per la violenta rozzezza del loro linguaggio. Vivono intorno a varie pievi che occupano buona parte della piana, accudendo a opere alacri insieme alle loro donne agili e forti, use ad andar discinte e col piè nudo nello zoccolo. Sono pieni d’una devozione fanatica ai lor santi ed ai lor parroci, e sanno bene a niente la storia delle preziose reliquie di cui si gloria la pieve. Vi narrano del grande campi bisenzio — municipio e chiesa della pieve. [p. 64 modifica] Crocifisso dei Flagellanti, antico di più che cinque secoli (1399), che i Lucchesi portarono a Campi in processione, ma non poterono più riportare entro le mura di S. Frediano, perchè tutte le volte che si provarono al ritorno grandi rovesci d’acqua li arrestarono campi bisenzio — le mura.
(Fot. I. I. d’Arti Grafiche).
sul ponte, finchè non compresero esser volontà divina che il Crocifisso si restasse a Campi. Vi narrano del voto per una processione solenne all’ottava di Pentecoste che i Campigiani di S. Martino, di S. Lorenzo e di Santa Maria fecero all’epoca della peste di Firenze. Ed il parroco vi mostra un ingenuo S. Rocco policromo in legno, il [p. 65 modifica]S. Rocco pellegrino con la fiasca e col cane e col baculo fiorito, con la tunicella breve e i calzari a mezza gamba, placido e ridente nella testa puerile coronata dall’aureola. Era prima in un tabernacolo; poi fu trasportato in chiesa, e gli fu dedicato l’altare e la compagnia. Ma non si mette in mostra che nell'epidemie o per sciagure ed allegrezze grandi; lo custodisce il parroco, e non l'espone ai fedeli neanche il dì del 16 agosto.

Questi ed altri vestigi di una religiosità di sapore stranamente misto tra la fede [p. 66 modifica]attiva del dugento e la devozione secentesca attraggono la nostra fantasia più che non s’impongano all’occhio le tracce scolorite o, che è peggio, ricolorite delle antiche pitture. V’è in Santa Maria a Campi una cappella giottesca, nell’angolo più oscuro della chiesa; la Madonna del Carmine tra S. Lorenzo e il Battista, l’Annunciazione della Vergine, i miracoli di Cristo sembrano svanire nell’ombra; ed è gran fortuna, perchè rimangono insieme alle fronti austere ed alle bocche dolorose coperte da un velo di silenzio e di tenebra le scelleratezze che i restauratori consumarono su quella pallida purità. E v’è un’Annunciazione, anch’essa di sapore giottesco, tristamente ritinta di un putrido rosso pomodoro; e v’è una Madonna quattrocentesca coi santi Lorenzo, Bartolommeo, Giovanni Battista e Antonio; e in sagrestia una ricca pianeta e un dolcissimo S. Giovannino in terra cotta ed un candelabro trecentesco, alto, semplice, diritto. E v’è a Campi un palazzetto pretorio, umile e rusticano alquanto, ma gradevole per la sua fresca architettura e per i molti stemmi che ne avvivano la [p. 67 modifica]facciata e per le pitture che si vedono e s’intravedono nella corte. Molte ne ricopre ancora l’intonaco, nè vorremmo affrettarne lo scoprimento, fino a che i fanciulli campigiani non diverranno più riguardosi per le opere d’arte che ora non siano.

Tuttavia ben poco delle opere d'arte di Campi ci dà nell’occhio, mentre rimangono dolci nell’udito alcune iscrizioni semplici e leggiadre che leggonsi nella pieve di S. Maria; iscrizioni che ricordano la fondazione d’un altare, o che rivolgono preghiere alla Vergine in un latino tra idillico e puerile:

O Maria, flos virginum,
velut rosa velut lilium,
tuum pro nobis deprecare filium.

L’arcadia religiosa dovrebbe predisporci all’arcadia principesca; ma l’arcadia principesca è tragica a Poggio a Cajano. Forse non c’è villa reale triste e solitaria [p. 68 modifica]come questa è; e sembra non sia favorita dagli odierni sovrani d’Italia, che non mai vi fanno soggiorno od anzi buona parte delle suppellettili hanno trasferite a San Rossore e dei quadri e delle tappezzerie a Firenze. Lungamente vi dimorò Vittorio Emanuele II, ed ancora si mostra la sua camera, ove sorride una Madonna correggesca ed un pastore di Andrea del Sarto guarda taciturno. Ma sugli ozii liberali che illustrarono la villa ed il parco sontuoso nell’età polizianesca predominano nella memoria nostra le cene e lo lascivie funebri di Francesco e di Bianca Cappello e la lor morte repentina, mistero fra il tragico ed il lugubremente grottesco. La stanza, ove un’iscrizione consacra la fosca leggenda, è ricca di pietra grigia. [p. 69 modifica]adorna di un grande camino e di un balcone sontuoso, di soffitto eccelso e di pareti anguste, bella come un bel sepolcro.

Si giunge alla grande sala, dopo aver visitato le stanze spoglie dei secolari ornamenti e piene di ricordi tristi o gravate dai cupi e fastosi ritratti medicei del Sustermans, come dopo una escursione mineraria si giunge ad una radura assolata. Qui tutto è grande e luminoso come nella regal facciata, ove lasciò suoi segni la mano di Giuliano da San Gallo usa ad imitare, architettando, i gesti dei pontefici e dei sovrani cui obbediva. Il soffitto del Feltrini sembra ricco di luce solare; gli affreschi, noi quali Leon decimo volle celebrato il padre suo Lorenzo, sembrano illuminar la sala come grandi finestre aperte sull’azzurro.

Ma alcuni sontuosi candelabri son di cartapesta dipinta nel color del bronzo, e falso è l’ardore, con cui i pittori esaltarono gesta obliate quasi e virtù tramontate.

Una delle menti più retoriche e tronfie del cinquecento, il Giovio, suggerì i soggetti; Andrea del Sarto, Franciabigio, il Pontormo si accinsero all’opera che condussero [p. 70 modifica]alla stracca, forse vinti da tedio e da sonnolenza nel dar forma e colore a quel vasto ma inane poema retorico. I lavori furono interrotti dalla morte di Leon decimo: li riprese per alcun poco il Pontormo undici anni dopo; li condusse a termine l’Allori nel 580.

Le imprese di Lorenzo sono adombrate in oziose allegorie. Veniva allora di moda un classicismo quasi più inerte di quello che doveva trionfar tre secoli più tardi, nell’epoca napoleonica; e ad esso indulgevano il letterato e i pittori rappresentando i doni del Sultano d’Egitto a Lorenzo nel tributo degli animali offerto a Cesare, la rientrata dei Medici a Firenze nel trionfo popolare di Cicerone, ed in Flaminio che guadagna a Roma la lega Achea il fortunato tentativo di Lorenzo presso Alfonso il Magnanimo. Le Esperidi, Vertunno, Diana, Pomona, frigidi e solenni panneggiamenti, sormontano la vasta coreografia. E sono, insieme, effigiate le Virtù, pleonasmo decorativo: Fortitudo, Vigilantia, Fama, Gloria, Honor, Magnanimitas, Liberalitas, Virtus, Pietas, Iustitia. — Sillabe armoniose, echeggianti nel vuoto.

E il giardino è più triste della villa: è tetro e muto come sono i giardini senz’acque. Cantano sulle fontane i versi con voce amica all’acque:

Qui a fronde e fior che brillano
ai rai di bell’Aurora
sei’ban Vertunno e Flora
il cristallino umor;

ma non cantano l’acque. Vertunno e Flora esularono. Giungiamo alla riva, ove il bel torrente lorenzesco tocca la sua villa prediletta.

Udiamo antiche parole:

Ombron pel corso faticato e lasso,
per la speranza della cara preda,
prende nuovo vigore e stringe il passo,
e par che quasi in braccio averla creda.
Crescer veggendo innanzi agli occhi un sasso,
ignaro ancor non sa donde proceda:
ma poi, veggendo vana ogni sua voglia,
si ferma pien di meraviglia e doglia.

Così è. Sembra che anche l’Ombrone si fermi pien di meraviglia e doglia. Ristagna vecchio e pigro fra l’erbe giallicce il bel fiume faunesco che pensavamo pieno d’impeto e di flutti. Sul palazzo e sulle piante, sulle pitture e sulle acque, sugli uomini e sui ricordi impose la sua mano la morte. E tace Poggio a Cajano, sulla riva di un fiumicello acheronteo, come il magnifico sepolcro ove un gran morto dorme: il Rinascimento.