Prato e suoi dintorni/Prato

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Prato

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Indice delle illustrazioni Dintorni di Prato

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PRATO

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PP
RATO ci saluta co’ putti di Donatello. L’infanzia e la danza sono due motivi di gioia come due fiamme che si uniscono in una. La gioia dell’alba sorgente è nei fanciulli, il desiderio della gioia e della felicità si esprime nella danza. Donatello, spirito rude ma aperto a tutte le armonie della vita, ha sentito questa potentemente.

Occorrevano quattro secoli perché un poeta d’Italia inneggiasse al pulpito marmoreo, come a un nido mirabile: occorrevano quattro secoli perché la dorata sinfonia dei sette compartimenti, quale sfavilla nei pomeriggi dai toni più intensi dell’alabastro e dell’ambra, alla delicatezza della cera bianca con una più viva nota di bronzo nel mezzo, fosse sentita e magnificata nel verso; e allo spirito animatore dell’artefice venisse fatta giustizia contro le sottigliezze della critica dommatica. Sono pur troppo recenti le osservazioni fatte su «la poca convenienza di un baccanale prescelto ad ornare un pergamo, destinato alla predicazione ed ai più severi riti del culto religioso». Ora, il pergamo non servì mai alla predicazione, sì bene soltanto alla ostensione di una reliquia di Maria Vergine. Per questa reliquia della Cintola i Pratesi ebbero grande venerazione sin dal sec. XI: onde la consuetudine di mostrarla al popolo da un pergamo esterno, che fu da prima di legno e di pietra e poi nel 1330 fu decretato di marmo bianco con istorie sculte della Reliquia e di S. Stefano patrono della terra. Se non che, il candido pergamo fu eseguito fra il 1357 e il 1360 dal senese Nicolò di Cecco del Mercia: e con bassorilievi, pare, riferentisi largamente alla vita della Vergine. [p. 10 modifica]

Negli ultimi anni del trecento, Niccolò di Piero (il Pela) da Firenze costrusse l’attuale facciata del Duomo parallela all’antica; e nel 1428 Donatello e Michelozzo ebbero l’incarico di costruire il nuovo pergamo. Ma tutto il lavoro non fu compiuto e adattato sul posto che dieci anni dopo. Nell’indugio molto influì il carattere stesso di Donatello, il suo bisogno di denaro non sempre sollecitamente soddisfatto dagli operai del Cingolo pratese, la sua andata a Roma nel 1433. Certo quest’ultimo fatto non fu estraneo alla bellezza organica dell’opera decantata dal Vasari e dal Borghini, alla trasformazione sapiente ottenuta dall’artista negli antichi motivi di bambocciate, allo sfondo di mosaici d’oro su cui i gruppi de’ putti balzano vivi come di tra bagliori di spighe mature e si tengono per mano e s’intrecciano e si snodano in pose tutte diverse, mentre i loro piedi grassocci si sollevano ritmicamente al suono del tamburo e del corno, e nelle loro facce piene e vigorose, più che graziose, il fervore della danza prorompe. Ma non di veri e semplici putti è la ridda: corte ali sono appuntate su le loro scapole.

Donatello comprese e sentì la vigoria dei genietti classici, ma seppe trasformarli [p. 11 modifica] [p. 12 modifica]in angioli. Onde la sconvenienza dommatica manca pur di una base di fatto; questi "amori" in figura di angeli ben si addicono idealmente a festeggiare la Madonna. Nella storia dell’arte l’importanza del pulpito pratese è molto grande, perché Donatello ripeté lo stesso motivo de’ putti danzanti nella cantoria pel Duomo di Firenze. Ora questa sonnecchia nel Museo dell’Opera, e il pulpito di Prato canta al sole e riluce alla pioggia. E pure il pulpito del Cingolo cede alla cantoria per magistero d’arte. Nella cantoria Donatello era nel perfetto svolgimento architettonico e scultorio delle sue immagini, poiché è da credere che la più vaga decorazione musiva, e l’organismo de’ ripartimenti siano in essa tutta opera donatelliana, per quel sentimento di vigoria che traspira da’ putti e da ogni altro motivo. Nel pulpito di Prato, la collaborazione di Michelozzo non ci è attestata che dalla allogazione; e vi ha chi crede che l'opera sua dovè essere molto limitata, se si pensi all’intima amicizia di Filippo Brunelleschi con Donatello. Ma l’influenza spirituale del Brunelleschi potè egualmente su Michelozzo e su Donatello; e sottilizzare è ozioso.

La robusta colonna su cui si appoggia la tettoia circolare è come la vertebra di questo pulpito che si offre all’occhio in un’armonia di severa robustezza. Dai rosoni che s’inquadran nei cassettoni della tettoia ai pilastrini scanalati che distinguono i gruppi degli angeli, alle mensole ornate di acanto, lo spirito severo della Rinascita fiorentina si riafferma equilibratissimo. Solo di una maggior vaghezza decorativa è lo splendido capitello bronzeo che sostiene il ballatoio. Di questi capitelli ve ne dovevano essere due; e poiché non pare che l’altro ora mancante sia stato rubato dagli Spagnuoli nel sacco di Prato, si ritiene che uno solo ne fu gettato dall’artista. La cera fu somministrata a Donatello e a Michelozzo; ma i mattoni solo al secondo, e nel febbraio del 1435 è ricordata «l’armatura dei ferri del capitello del bronzo che fe’ Michelozzo di Bartolomeo». Certo se vogliamo anche tener conto che il carattere de’ putti non corrisponde a quella espressione quasi selvatica del mirabile parapetto, ma che le loro forme si accordano coi putti di Michelozzo nel portico di Ragusa, possiamo piegare per Michelozzo. Ma nelle botteghe del quattrocento la collaborazione era un segreto di vita; e noi ammiriamo la vaghissima compostezza dei fregi e con quanta novità il genietto di sopra sporga la testa ed appoggi le manine [p. 13 modifica]come per sorridere ai due fratelli che ristanno giù composti e seduti a sostenere il festone.

Incidentalmente abbiamo detto della facciata rifatta. Per la Cattedrale di Prato è pur avvenuto quello che altrove: sul romanico della decadenza si sono innestati anzi sovrapposti elementi puramente gotici. Pure i maestri furono così accorti che la chiesa offre tuttavia una visione armonica e semplice, tranne certamente nelle parti più moderne.

E la chiesa tutta, col piano meridionale scoperto e ricco di quella doratura che la pietra albarese prende al sole, emerge semplice ed agile sul colmo della piazza. Lo stelo della torre, egualmente a strie bianche e verdi, sorge all’angolo formato dal braccio destro della crociera. Che la chiesa sia anteriore al secolo X lo dimostra lo stesso fianco meridionale, nella cui porta ornata d’intagli e di simboli il tempo e la mano dell’uomo si sono congiunti a ricavare effetti bellissimi dagl’intrecci di marmo verde, il cui delizioso colore non cede certo di vaghezza al capitello bronzeo del pulpito. E lo dimostrano gli avanzi nascosti della vecchia facciata; i due terzi inferiori della torre; e l’armonia severa delle cinque arcate interne sostenuta dai pilastri circolari, fatti di bozze di serpentino, sormontate da capitelli di macigno in cui sono scolpite larghe foglie di acanto. Di chiesa basilicale fu trasformata in croce latina, per l’opera, come si crede, di Giovanni Pisano; e l’impulso dell’alto artefice o di chi ne continuò i disegni s’impone. Sembra che l’occasione fu data dal sacrilego furto del Cingolo della Vergine, che un ladro dello stesso paese tentò nel 1312. Giovanni Pisano aveva imaginato un vasto edificio di forma rettangolare che attestato alle tre navate dell’antica chiesa ne formasse non già il supplemento, ma, come espone il Baldanzi, la parte principale.

Così la tribuna fu demolita con la parete orientale e le tre navate furono ampliate con una sesta arcata, impostata su un piano più elevato; e sveltissimi pilastri poligonali sorsero a distinguere le cappelle della crociera, chiuse da grandi archi [p. 14 modifica]a sesto acuto. Onde veramente si resta ammirati e dall’ardimento con cui sopra le due colonne che sono alla testa delle tre navate, nel punto in cui elle sboccano nella crociata supriore, egli, il Pisano, ha fatto posare per la massima parte il carico delle volte, che coprono l'arco maggiore del tempio. Ma il grand’arco circolare che sale su le arcate minori fu veramente il mezzo architettonico per distribuire ed [p. 15 modifica]accordare la vecchia prospettiva del tempio con gli ardimenti gotici e pensosi della prima metà del trecento.

Il compimento della evoluzione stilistica fu segnato dalla facciata, che intrapresa parallela all’antica nel 1365 fu scoperta solo nel 1457, per dare un posto definitivo e speciale alla cappella del Cingolo, che dalla parte centrale del coro fu trasferita a sinistra della porta principale, dov’è tuttavia.

Il sole del tramonto non ha ancora fuso col pergamo e col fianco meridionale la nuova facciata de’ maestri senesi; e ancor freddo è rimasto il bianco delle pietrecalcaree quasi per avere migliore rapporto con la candida lunetta di Andrea della Robbia che corona la porta. Nel ritessere largamente la storia artistica della Cattedrale Pratese bisogna notare da un lato uno zelo sempre crescente da parte de’ devoti per accrescere lustro e pompa alla loro miracolosa reliquia; dall’altro le difficoltà materiali di carestie e di miserie che costringono a stornare per più diretti beneficii le somme lasciate da pietosi mecenati, e speciali difficoltà provenienti dagli artisti stessi. Per riuscire ad inaugurare il pergamo di Donatello abbisognarono dieci anni; per gli affreschi nella cappella maggiore del coro Fra Filippo non indugiò menu di dodici anni.

Con Frate Angelico avrebbero avuto più fortuna i quattro deputati che s’intesero col Proposto per la decorazione del coro; ma con Filippo Lippi essi dovettero acconciarsi a un temperamento estremamente passionato e irrequieto, a' suoi ritorni a Firenze, [p. 16 modifica]alle sue liti, a tutte le divagazioni e vicissitudini de’ suoi amici. Certo se nell’aprile del 1464 non si fossero risoluti a fissare per la fine di agosto l’estremo limite della loro pazienza, essi avrebbero avuto ancora da aspettare.

Ma la cappella a noi lontani di quattro secoli rifulge de’ pregi dell’arte intrinseci. E con la visione caldamente umana della monaca amata anzi redenta dalla schiavitù del chiostro (poiché Lucrezia Buti non aveva spontaneamente professato fede nel chiostro di S. Margherita a Prato) essa si avviva di un ardore mistico e voluttuoso insieme. Quando nelle ore antimeridiane il sole rende gemmea l’alta vetrata di Lorenzo Pelago prete fiorentino (1459), le calde note porporine fiammeggiano di vita e di sangue. E anche le parti che più vaniscono per la incuria degli uomini e le altre di suprema bellezza che il più stupido e ciarlatanesco baldacchino nasconde per quasi quattro mesi dell'inverno, rispondono alla animazione della luce; come nei giorni febbrili in cui il frate mal dominatore del suo cuore col povero Fra Diamante rispondeva a’ suggerimenti della sua donna col trasfigurarla e perpetuarla nella vaghissima figura di Salome. Poiché certamente nella Danza di Salome tutta l’anima di Fra Filippo vibra e si esalta. [p. 17 modifica]Nella fanciulla che si libra a danzare e col gesto ampio del braccio destro accompagna la gamba sollevata, mentre con l’altra mano pudicamente regge i veli che ben lascian intravedere la tornitura delle forme, è tutta l’espressione del suo carattere. Masaccio gli era entrato come un diavolo nel corpo, e il partito architettonico e la ricerca del carattere e la distribuzione delle tavole e la stessa atmosfera gravido di vapori accesi ce lo ripetono abbastanza. Ma a Masaccio mancò il profumo carnale della donna; ma a Giotto la danzatrice Salome apparve piuttosto come un simbolo ideale: e a Masolino in Castiglion d’Olona la figura si eterizzò anche peggio per la insufficienza formale. Nella Salome di Fra Filippo la donna comincia a vivere per l’arte con tutta la seduzione che può essere in lei, finché la passione non la travolga.

Era lei, era lei il mirabile daimon: la imagine di Lucrezia Buti, la bella monaca dagli occhi chiari e dalla bocca di fragoletta. Perchè nella stessa composizione, triplice e pure così magicamente unificata dal significato del dramma ne’ suoi tre momenti essenziali, ella può riconoscersi nella regal donna fiorita di diadema che siede sulla tavola a destra e [p. 18 modifica]nel cui animo la recisa testa offertale non desta che il più olimpico soddisfacimento d’ambizione e di volontà.

Nelle altre due storie che sulla stessa parete meridionale soprastanno, la vita di S. Giovanni Battista è espressa nei momenti precipui, che molto si accostano a quelli tradizionali per la vita di Cristo. Nella lunetta è finta la nascita da una [p. 19 modifica]parte con un sobrio interno fiorentino; e dall'altra la imposizione del nome. Non vi è un personaggio di troppo. La intimità familiare vi trova ogni suo appagamento. E così pure nella scena della partenza del Battista adolescente la madre lo abbraccia con santa tenerezza, il padre lo benedire con gravità apostolare; solo un servo [p. 20 modifica]dietro mostra qualche sorpresa. In tutto il paesaggio il tempo esercita le unghie feroci; e con molti stenti si può intendere come potè essere molto lodata la composizione del Battista che predica: e se vogliamo dire che la organica intimità desunta da Masaccio fu propria di Fra Filippo, noi dobbiamo quasi rendere all’amato discepolo, a Fra Damiano, che non poco soffrì delle colpe del maestro anche col carcere, molto del disegno o della esecuzione di questa scena.

I principali fatti del Precursore furono scelti dagli ordinatori per rendere omaggio al santo contitolare della chiesa; ma il patrono del municipio pratese è S. Stefano e alla sua vita si riferisce tutta l’ampia parete di sinistra, o settentrionale, del coro. La lunetta che rappresenta la nascita del santo è molto affine a quella prospiciente non solo pel taglio ma anche per certe figure; ed è increscioso che le condizioni della pittura non permettano di gustare la ingenua sostituzione del fanciullo, che secondo una leggenda sarebbe seguita per opera diabolica, e che il pittore ha voluto rendere in certo modo esplicita ed evidente. Molto densa ed equilibrata è l’altra storia, dove è la benedizione di S. Stefano Levita; e un miracolo del santo, e la [p. 21 modifica]sua calorosa disputa nella sinagoga. La prima scena è ben efficace per la diretta rappresentazione del vero; mentre nel miracolo che segue su la scala di un vago tempio la realtà si trasumana per la aspettazione del personaggio che accompagna il Protomartire e il cui viso rivolto al cielo è combattuto dal dolore e dalla fede. La disputa è per verità troppo ristretta da un canto; e la espressione della collera, dell’odio e dello sdegno che trovò tante lodi nel Vasari, in noi non può trovar eco concorde; perchè poco e male si vede.

Paragonando queste pitture di S. Stefano con quella di cui l'Angelico decorò la cappella del Vaticano, è facile notare la grande differenza e di stile e di carattere. Il Lippi non mancò di sentimento religioso, come troppo facilmente si ripete senza guardare; ma veramente intese la religione ne’ suoi aspetti più umani. Non altrimenti si può comprendere come abbia dato così poca parte nel grandioso affresco sottostante alla lapidazione del santo, per quanto forse la bestialità dei lanciatori faccia mirabile contrasto con la serenità del lapidato. Il suo ingegno si profuse tutto nell’ampiezza decorativa delle esequie. La pompa della acconcia prospettiva di una [p. 22 modifica]bella chiesa del Rinascimento vale la pompa del festino macabro d’Erode. Ma forse mancano carattere, espressione, dramma anche in questa solenne composizione? No. Il pianto della donna è straziante; il prete officiante preludia al Vescovo del Ghirlandaio nella cappella Sassetti; e il mirabile gruppo a destra è di uomini vivi e veri in tutta la dignitosa compostezza dei loro vestimenti. È un insegnamento di Masaccio che il Frate lasciò in bellissimo retaggio ed esempio alla più sicura e libera mano del Ghirlandaio per S. Maria Novella a Firenze.

Sotto questo compartimento il pittore segnò il suo nome; e segnando il suo nome volle certo indicare la propria soddisfazione. Egli aveva dipinto la danza di una giovine con la leggerezza spirituale che un innamorato ardente può riuscire a trasfondere nella sua bella vagheggiata; ma dipingendo una magnifica chiesa con sereni prelati, con chierici officianti, con buone donne lacrimose a piè del cataletto su cui il santo dolcissimamente riposa del suo martirio, egli sentiva di essere rientrato nel dominio del suo dovere di uomo religioso. E si segnò; e si ritrasse col suo Fra Diamante e col proposto Carlo Medici e con altri uomini insigni: poichè sentiva d’aver reso un tributo d’espiazione, senza nulla rinunziare delle gioie godute, doveva pur essere soddisfatto.

Se la morte di S. Stefano, per l’ampiezza decorativa della scena, perde la suggestione di quella potenza drammatica che pur non vi manca, la tavola a destra della crociera può mostrare meglio questa virtù di Fra Filippo. La tavola, che non è la tavolina del Vasari, gli fu commessa nel 1440 dal proposto Inghirami, che genuflesso e a mani giunte prega a piè di S. Girolamo ed è veramente ritratto con larghezza masaccesca. Uno storpiato si avanza a toccare il cataletto per guarire; i [p. 23 modifica]frati dall’altro lato dolorosamente si stringono intorno al maestro, con più affanno ancora che non si veda nella morte di S. Francesco di Giotto; ond’è «cosa mirabile — questo si può ripetere col Vasari — a vedere le belle arie di teste nella mestizia del pianto, con artificio e naturale similitudine contraffatte. La tavola è dipinta onestamente, forse anche troppo; poiché la gloria celeste e le piccole scenette del fondo non aggiungono nulla alla compattezza della visione funebre.

Ora bisogna dire di tre altre cappelle tutte affrescate. E due sono laterali al coro. Quella di destra, già detta dell’Assunta, è dalla tradizione attribuita ad [p. 24 modifica]Antonio Viti; non è certamente di un solo pittore. Da una parte è la Nascita della Vergine e la Presentazione e lo Sposalizio. Sull'altro muro, la disputa di S. Stefano, la lapidazione e il seppellimento del Santo.

Nella volta, la Fortezza, la Speranza, la Fede e la Carità; nell’arco, quattro mezze figure di Santi. Ora queste figure della volta e dell’arco, con la disputa del Protomartire e la nascita e presentazione della Vergine, rivelano un’eccellenza di forme, quale poteva essere espressa da un buon artefice della prima metà del quattrocento. Si è pensato allo Starnina; ma il Cavalcaselle non lo afferma nettamente; e si è pensato anche per una certa gravità delle mosse e per il portamento delle figure e la distribuzione delle scene a Domenico Veneziano, il compagno di Andrea del Castagno. In tutti i modi, vi è del buon realismo in queste pitture, e Santo Stefano che predica alla folla turbolenta è una scena di largo trattamento e di efficacia drammatica. Le altre storie possono giustificare la tradizione: e se pur non vogliamo dirle del Viti (ripensando agli affreschi di Pistoia) dobbiamo assegnarle [p. 25 modifica]alla sua scuola. Ma per darle a Tommaso del Mazza, come vuole il Milanesi, non abbiamo nessun punto di appoggio. Le pitture di questa cappella sono state inoltre confuse con quelle della cappella Manassei; onde si è potuto dire su la traccia di note ritrovate che vi dipinsero Lorenzo e Niccolò Gerini; i quali vi avranno magari lavorato, o si saranno accordati per dipingervi; ma non vi hanno lasciato pitture che noi ci vediamo. Se mai, la maniera dei Gerini, ossia una spiccata maniera spinellesca, è nella cappella Manassei, nelle storie di S. Giacomo e di S. Margherita ben conservate e non prive di movimento e di equilibrio, per ciuanto sembri impossibile che sieno state eseguite in seguito al testamento di Filippo Manassei che risale al 1442. Per queste pitture si fa il nome dei Bicci: e dei Bicci furono fatti molti bisticci. Pare fossero tre: un Lorenzo Bicci padre, un Bicci di Lorenzo figlio e un Neri di Bicci nipote. Il carattere degli affreschi può stare con quanto si seguitò a concepire e a eseguire sulla fine del trecento; e però diamoli a Lorenzo Bicci, capostipite della famiglia e alunno di Spinello, come vuole il Vasari. [p. 26 modifica]La costruzione e decorazione della nuova cappella del Sacro Cingolo (a sinistra della porta principale, come si è narrato) si trascinò per trent'anni dal 1365 al '95. Affrescatore ne fu Agnolo Gaddi: scultore dell'altare marmoreo lo stesso architetto Giovanni Pisano o più probabilmente un suo scolaro. È concorde opinione che il Gaddi abbia in questa cappella dipinto il suo capolavoro ma è un'opinione che si ripete e mal si può controllare e per la buiezza della cappella e pel miserevole stato delle pitture, non ostante il restauro molto discreto del 1831. Sono tredici storie grandi: nove riferentisi ai fatti della Vergine. E nella Assunzione che è nella parete in fondo fu acconciatamente espresso l’atto della Vergine che salendo porge il cingolo all’apostolo Tommaso. Così il leggendario poema del trasporto di Terra Santa nella terra di Prato trova già in questa scena il suo punto di partenza e la ragione d’essere. Lo stesso Rio, che fu di questa pittura giudice severo, dovè notare che la poesia ingenua del dipinto illumina la passione romantica e la pietà nativa [p. 27 modifica] [p. 28 modifica]della leggenda. Dall’apostolo Tommaso il cingolo viene austeramente rimesso nelle mani di personaggio ignoto nel quale sarebbe certo arditissimo pensare che l’artefice volle esprimere quel Michele dei Dragonari che nel 1096 si ebbe dalla sposa in dote il prezioso deposito. Il pittore volle accennare il passaggio e non altro, come non potea meglio osservare il Baldanzi. Il Dragonari è certo sul naviglio che a gonfie vele torna in patria; e di grazia giottesca è la figurazione dell’arrivo nella città turrita, quale forse fu Prato nel secolo XII, e con la chiesa quale il Gaddi la vedeva nel suo tempo. Nella terza istoria è il sogno di Michele, che viene avvertito da un messaggero celeste di conservare più degnamente la reliquia; ma solo morendo egli l’affida al Proposto che solennemente con tutto il clero osannante la trasporta nel Duomo.

Per respirare il profumo arcaico delle pitture gaddesche, noi dobbiamo distrarre gli occhi dal pomposo altare, che il soverchio zelo dei devoti ha sempre più [p. 29 modifica]sovraccaricato di materia preziosa e di particolari barocchi dal cinquecento in qua, fino a rinfagottare la Madonna, opera poderosa e sicura di Giovanni Pisano, di panni serici e di altri amminnicoli. E con lo spirito ricolleghiamo insieme le parti dell’antica arca trecentesca e rivediamola nel posto per cui era stata scolpita. Anche la Madonna del Pisano nello stesso secolo XV era stata sostituita da altra più preziosa; ma il culto dell’arte e il pregiudizio religioso prevalsero sul valore dei ducati. Speriamo che altrettanto possa avvenire per l’arca marmorea: certo sarebbe opera onesta e dignitosa.

L’arca era quadrilatera, tutta di marmo bianco e posava su alcuni scalini. E però immaginate di quanta aria vivevano quelle rozze figure di apostoli così compunti intorno alla Vergine morta, mentre solo alcuni si mostrano sorpresi di vedere il Redentore venuto a raccogliere l’anima divina della madre. Il Gaddi al confronto è più elegante, quasi perfetto: poiché nella mandorla scolpita dall’Assunzione è così vago quel miscuglio di tondi visi e d’ali corte e di strumenti a corda; così enfatico [p. 30 modifica]è il gesto di Tommaso che par tema di avanzarsi per ricevere il cingolo, che se ne deve ricevere una impressione di stupore chiuso e come timoroso. E qui è bene notare che dal motivo egualmente arcaico degli angioli come rincorrentesi nel Reliquario, potè anche inspirarsi Donatello alla glorificazione del pulpito esterno. Se per poco, invece, portiamo lo sguardo sul quadro di Rodolfo Ghirlandaio (forse uno dei suoi migliori almeno per colorito) in capo al ballatoio per cui si accede al pulpito suddetto, vediamo come tutto si raffredda — anima, espressione, carattere — per soverchio desiderio di vellicare e di smorzare. Ma per fortuna il cancello bronzeo, onde la cappella del Cingolo è chiusa, ci richiama e ci salva. Questa cancellata ebbe anch’essa le sue peripezie nella esecuzione; ma il popolo devoto che vi si appoggia e ogni giorno più coopera a far brillare le eleganti formelle di riflessi caldissimi, [p. 31 modifica]non se ne ricorda e le porta un’affezione grande. Fu eseguita fra il 1438 e il 1464; ne ebbe incarico pel primo, Maso di Bartolomeo (detto anche egli Masaccio, come il pittore della cappella Brancacci), ma pare che non eseguisse che la porticina del tabernacolo. L’orafo fiorentino Bruno di Ser Lapo ebbe nel 1444 approvato il suo disegno dal Brunellesco, fra gli altri, e dal Ghiberti: ma esegui il getto del graticolato fino alla cornice. Gli altri motivi decorativi sono di Pasquino da Montepulciano. Non sarà vano ricordare che l’antico cancello di legno dorato fu sostituito dall’attuale ammiratissimo, anche per ispirazione e concorso del vecchio Lorenzo dei Medici, trattosi a Prato per aver scampo dalla peste che desolava Firenze. E poi egualmente Cosimo padre della patria vi concorse.

Prato era destinata ad aver fortuna coi pulpiti; quello di Donatello è un nido gigantesco, ed è ammirato per la corrispondenza della linea e delle parti incluse; quello interno di Mino e del Rossellino fiorisce come un calice niveo, calice dalla fervida eloquenza. E così posato delicatamente sotto le robuste arcate romaniche, [p. 32 modifica] nella severità delle linee bianche e scure che si rincorrono, anche più leggero esso ci appare e per un momento ci s’illude che una mano possa coglierlo, per un afflato di potenza sovrumana. Certamente tutta la vaghezza e l'eleganza del pulpito che pare sdegni qualunque mezzo di accesso e goda della sua aerea fioritura, è nella linea armoniosa; che i rilievi non turbano la sua armonia, ma sono per se stessi interiori alla fama ed alle qualità peregrine di Mino da Fiesole e di Antonio Rossellino che li eseguirono nel 1473. E Mino è più al di sotto della sua fama. La gara qui non giovò; e i documenti ci parlano che nella stima serena dovè intervenire a decidere il Verrocchio. La commissione fu da prima data ad Antonio di Matteo, e forse suo è tutto il disegno vaghissimo del pulpito.

Delle storie che fregiano in giro il parapetto, l’assunzione della Vergine e la [p. 33 modifica] lapidazione e la morte di S. Stefano gli spettano senza discussione. La morte è specialmente notevole per originale movimento. Non vi è una coordinazione assoluta nelle parti; vi son come tanti gruppetti indipendenti; i due religiosi che piangono il defunto, gli altri due impauriti col chierichetto che leggono le orazioni quasi per conto loro; e que’ che si rassegna guardando il cielo e il compagno che si volge altrove per sfogare il suo dolore, ecc. Varietà adunque più che novità; ma sulla bocca semichiusa del defunto è un accento di dolorosa aspirazione, l’ultimo certamente; e il triplice giro degli archi inquadra la scena elegantemente.

Ma di un’altra opera bisogna far menzione prima di lasciar la chiesa adorna del [p. 34 modifica] resto di molte altre cose pregevoli, intorno a cui aleggiano i nomi di Desiderio, del Tacca, di Filippino, e di Attavanti miniaturista squisito. Voglio dire della Madonna dell'Ulivo, benché sol dal 1867 essa sia passata dal suo luogo originario alla crociera destra del Duomo. È un tabernacolo mirabile ed è opera concorde dei tre fratelli da Majano, Benedetto, Giuliano e Giovanni, che nel 1480 pensarono decorarne un loro podere, presso la città, detto appunto l’Ulivo. Il gruppo della Madonna seduta col putto benedicente è in terracotta ed è di Benedetto; l’organismo costruttivo e [p. 35 modifica]la grazia pensosa del sorriso ce la fanno amare ed ammirare. Giuliano e Giovanni lavorarono al gruppo marmoreo della Pietà, scolpito in rilievo sul basamento, e v’infusero uno spirito e una rudezza quasi donatelliana. Così tutta l’angoscia del dolore non trova pace che nel sorriso della buona Madonna. Qui nella chiesa il contrasto bisogna un po’ studiarlo; ma ai passanti lungo la via campestre esso deve aver parlato con eloquenza di fede.

Il centro della città conserva nel Palazzo Pretorio quelle salde note medievali che, per l’architettura civile, vanno riunite a’ grigi baluardi delle carceri e al cerchio ferrigno delle mura lungo il Bisanzio pietroso pur ricordato da Dante. Tutti i tempi e tutti i capricci degli uomini hanno impresso nel palazzotto il loro segno. Solo è volgare che persianine verniciate vi si aprano stridendo; e un religioso sentimento estetico potrebbe ispirare la riapertura di alcune bifore eleganti.

Sotto la calce moderna tutto è scomparso del Palazzo Municipale prospiciente. E da certi avanzi, esso non fu più moderno di quello Pretorio. Ma tutto è rifatto, trasformato integralmente. Solo il Salone del Consiglio, traverso gli abbellimenti del seicento e i restauri del 1873, si mostra dignitoso, con un respiro di antica bellezza. La parete di faccia all’ingresso ha rivelato due affreschi di mano e di bontà diversi. A destra la Madonna col Bambino in grembo, tra Giovanni e Stefano: due angioli in alto alzano una cortina; sotto, altri due reggono lo stemma degli Aldobrandini. E però anche per questo particolare la pittura risale alla seconda metà del trecento.

Nell’affresco a sinistra è la Giustizia, chiusa in un fregio ornato di stemmi e di tondi. I simboli, bilancia e spada, sono pinti a parte in alto, su fondo rosso sparso di gigli. La Giustizia è seduta, in atto di coronare un pattino. E la maestà delle figure, e il disegno più corretto, e la coloritura più larga la possono dire opera di Antonio Viti, rispetto all’altro affresco più giottesco e convenzionale. [p. 36 modifica]Tre sale dello stesso palazzo raccolgono un discreto numero d’opere d’arte, provenienti da chiese soppresse e da legati. Ma l’armonia della sala principale è profanata da una vasca di legno dipinto, su cui l’originale Bacchino del Tacca non strizza più il suo vino ideale. Un Bacchino più bello (sic) gli è stato sostituito nella fontana della piazza, vigilata dalla sobria imagine moderna di Francesco Datini benefattore e uomo molto operoso della città. Ci vuol pazienza: ai troppo zelanti conservatori la bella patina e le corrosioni del bronzo ispiravan timori serii!

Tre tavole d’altare e un gradino son di Fra Filippo. In quella che rappresenta la Madonna della Cintola è specialmente notevole a sinistra la figura di S. Margherita, gentile e pensosa: forse è il ritratto più direttamente eseguito dal vero, di [p. 37 modifica]Lucrezia Buti, forse il primo, quello stesso che è ricordato dal Vasari. La tavola, ad ogni modo, proviene dal convento di S. Margherita. E bene fu notato dal Supino che in questo quadro la sola figura di questa Santa non ci fa pensare a Fra Diamante, come le altre specialmente per la esecuzione.

Il gradino invece con la Strage, l’Adorazione dei Magi e la Circoncisione, è di una mirabile conservazione. Non si sa a qual tavola appartenga; ma che possa dirsi di Filippo basta il confronto fra la scena centrale del Circonciso e la tavola conservata nella chiesa dello Spirito Santo, per quanto anche quivi la collaborazione è evidente. La scena è di una sobrietà e di una larghezza che esclude la maniera del Pesellino: e la riproduzione fotografica dà l’illusione che sia di un quadro molto grande, tanto vi è giusta e felice la proporzione e l’armonia delle parti.

Altre attribuzioni della Galleria a Paolo Uccello e, peggio, ad Andrea del Castagno possono persuaderci non pienamente: ma l’ancona di Giovanni da Milano, dello scolaro di Taddeo Gaddi, merita un’attenzione particolare. È certamente il capolavoro di questo pittore misconosciuto, e di cui molto incerte sono le altre opere: ha la firma e la data 1365. Per un Gaddesco, le piccole storie della predella ci sorprendono. Si noti la decollazione di S. Caterina, per lo slancio del manigoldo, per la pietà della verginella: la forza drammatica di questa piccola composizione supera di gran lunga la maniera facile di Spinello Aretino che pure trattò lo stesso [p. 38 modifica]argomento: essa non preludia che all'opera potente di Masaccio, per quanto indipendente di linee e di distribuzione.

I buongustai non tralasceranno d’osservare una xilografia a colori del sec. XIV.

Rappresenta la Crocifissione e chi la vuole tedesca e chi bizantina. Quanto alla tavola di Filippino Lippi se non riuscirà di loro piena soddisfazione, correranno ad ammirarlo nel tabernacolo di Piazza Mercatale.

Filippino è il più bel fiore che Prato salutò nel 1459; il tabernacolo resistente [p. 39 modifica]tuttavia alle ingiurie del tempo raccoglie il profumo più squisito della sua arte e del suo cuore. Quando Filippo, approfittando della solenne processione del Cingolo, rubò dal convento di S. Margherita la sua Lucrezia, la condusse in una casa presso il Duomo, ora onorata di una lapide; e quivi è fama che nel maggio nascesse Filippino.

Piazza Mercatale, nella capacità della sua area triangolare, nel pittoresco seguito di alcuni portici ineguali e gravi; a un passo dal fiume accavallato da un [p. 40 modifica]lungo ponte, sospiro delle fanciulle nelle passeggiate domenicali, sotto lo sguardo severo della montagna quasi brulla, ma ricca del prezioso marmo dall’anima e dal color del bronzo; Piazza Mercatale, dico, ci esprime e fa comprendere la potenza e la espressione industriale della terra, che conserva le migliori tradizioni locali nella tintoria e nella tessitura.

Ma all’apice del triangolo, la bellezza sorride come un punto luminoso; e quando la vecchierella schiude i rozzi battenti di legno, l’anima e gli occhi s’inebriano dei primi squisiti ricordi d’amare. E pare che lo spirito lascivetto di Messer Agnolo Firenzuola, tenerissimo delle donne pratesi, vi ripeta a un orecchio una sua sottile disquisizione su le particolari bellezze di un bel viso e di un bel corpo. Filippino, è vero, ha deificato la donna; ma l’ha deificata con tutto il profumo più sottile della grazia umana, dell’amore materno, della mistica aspirazione. E guardate il profilo di S. Caterina, la testa di Santa meglio conservata; e comprenderete quanto della forza paterna vi rifiorisca in gentilezza di stile nel cuore più che nella man del figliolo. Filippino ha superato se stesso, si può dire; un soffio di vita spira dal dolcissimo incarnato dei volti; e le mani della Vergine (è bene sperare) si salveranno ancora molto tempo dalle barbarie dei ritoccatori, per la pietà dei sogni. [p. 41 modifica]Giuliano da San Gallo e Andrea della Robbia cooperarono efficacemente a rendere la chiesa di S. Maria delle Carceri un tempietto organico e sereno della nostra Rinascita. È in forma di croce greca e, così libera ed isolata, la chiesa rivela anche esternamente tutta la sua costruzione che risale dal 1488 al 1492. Il rivestimento è di marmi bianchi con liste verdi: ma non fu compiuto. L’influenza del Brunellesco è evidentissima nell'interno. E più che di influenza, si può parlare di una derivazione sincera di stile. E se la cupola è piccola, le quattro grandi arcate girate in pieno sesto hanno un sentimento di grandiosità, che nelle decorazioni in ceramica [p. 42 modifica]e nella sobrietà classica dei pilastri si raffina di eleganza. Di Andrea della Robbia è tutto il bel fregio a festoni e i quattro tondi con gli Evangelisti nei pennacchi. Ne’ quattro apostoli seduti in atto di meditare, o di scrivere, lo scultore ha sfoggiato una ricchezza di panneggiamenti virtuosissima: nella figura di Luca è riuscito a riassumere la gentilezza più viva del sentimento e del lavoro; in quella di Giovanni l’autorità delle meditazioni nella solitudine.

Ma vi è un’altra chiesetta, l’oratorio del Buon Consiglio, così suggestiva con la sua facciatina incassata fra le case, che accoglie della mano di Andrea altri saggi sapienti. In due nicchie laterali all’altare, le figure grandiose ma non perfette di S. Paolo e di Santa Lucia. A sinistra l’ancona candida, sorretta ancora dalla sua predella egualmente invetriata. Io non so; ma la semplicità della chiesa, la poca frequenza de’ fedeli aggiungono una più sottile suggestione a gustare questo altare. L’opera non può essere una semplice variante dell’altra conservata nella Rocca di Gradara. Il gruppo della Vergine col Bambino che si succhia un ditino, è vaghissimo di vita e di affetto; il contrasto fra il bel volto della Maddalena e l’ossuto S. Girolamo rivela la mano diretta dell’artista.

Invece non si può pensare ad Andrea dinanzi al lavabo della Sagrestia di San Nicolò da Tolentino. Se la composizione è sobria, la coloritura de’ festoni, e peggio la nota gialla de’ pilastri non possono che riferirsi che a Giovanni. Ordinatore ne fu Averardo Alemanni nel 1520. [p. 43 modifica]La chiesa di S. Francesco è stata recentemente restaurata nel suo tipo gotico (per quanto la facciata annunzi il Rinascimento); ma alla odiosa e uniforme scialbatura, ben si accordano le nuove stridenti vetrate. Meglio è sostare nel chiostro nel cui campicello tremano gli ulivi, al cui lume argenteo riposa il proposto Inghirami tanto benemerito del Duomo. E poi che la pace dell’albero francescano ci ha riconciliato lo spirito, sino a non farci scorgere l’odioso campaniletto, si può entrare dalle ampie arcate depresse e sognare di Assisi, riguardando gli af[p. 44 modifica]freschi in parte ben conservati o molto restaurati con cui Nicolò di Pietro Gerini ha inneggiato alla vita di Matteo e di Antonio Abate. La Crocifissione in gran parte accecata dall’umido e le imminenti figure degli Evangelisti nella volta forse troppo ridipinta, sono attribuite a Lorenzo di Nicolò: fra le storie di S. Matteo, elegantissimo è il corteggio delle dame nella scena della Reginetta Etiopica risuscitata; e l’assassinio del santo officiante ha il sapore drammatico della ingenuità giottesca; mentre i due poveri a destra, nella storia di S. Antonio che fa l’elemosina, esprimono uno studio realistico molto più concreto ed efficace.

Il restauro compiuto nella chiesa di S. Francesco non si può né pure pensare per l’altra chiesa sincrona di S. Domenico. Solo un fianco esterno rosseggiante di laterizii mostra la struttura antica che troppo facilmente si aggiudica a Giovanni Pisano. Basti ripensare a una imagine minore di S. Croce.

Di faccia a S. Domenico è una chiesetta, dedicata a S. Caterina. Lo spettatore non sognerebbe mai che vi si trovi una opera mirabile del quattrocento fiorentino, [p. 45 modifica]così volgare è la decorazione nella chiesa. Quest’opera è ai più ignota: nessuno almeno ne ha parlato. Solo qualche anno fa, dal chiostro fu trasportata nella chiesa.

La conservazione è perfetta, la patina ambrata aggiunge alla finitezza del lavoro la più squisita armonia d’oro. Anche nella iscrizione appostavi adesso si dice che fu già attribuita a Mino da Fiesole. E in favore di Mino non c’è che una ipotesi: che egli abbia voluto rifarsi delle critiche acerbe avute pel suo frettoloso lavoro al pergamo del Duomo. Ma se alcune particolarità stilistiche hanno valore, è da pensare ad un artista più forte, forse al Rossellino.

Severa su tante bellezze gentili dell’arte toscana, domina la fortezza detta di Santa Barbara, per la costruzione della quale Panfollia Dagomari lasciò nel 1233 una somma cospicua. Così quando Federico II si fu recato a Prato nel 1237 (secondo altri nel 1249) potè fare eseguire la disposizione testamentaria, da’ suoi architetti che vi riprodussero alcune parti del famoso Castel del Monte. La sua storia artistica viene perciò connessa alla questione della patria di Nicola Pisano da chi lo vuole pugliese.

Il tempo e gli uomini troppo hanno minato quella Fortezza, che fu anche per un secolo quasi il Palladio della libertà pratese. Possiamo ricordare con G. Guasti che [p. 46 modifica]e ora della sua primitiva costruzione rimangono soltanto le solide torri di pietra lavorata a scalpello, un dì altissime e in varii tempi abbassate, particolarmente per minaccia di rovina: le grosse muraglie di cinta già, come le torri, coronate di merli che formando un ampio quadrato si congiungono negli angoli alle torri stesse, e la bella porta con capitelli, cornici ed altri ornamenti di travertino finissimamente intagliati, e con liste di marmo verde del nostro Monferrato. Tuttavia è da sperare che l’alto clamore sollevato di recente dalla notizia della sua vendita da parte dello Stato (!) giovi a una miglior tutela dell’importante edifizio. [p. 47 modifica]Il palazzo Pretorio, il palazzo del Comune e il palazzo dell’Imperatore che fu poi fortezza di S. Barbara costituiscono certo un complesso notevole dell’antica architettura medievale. Ma non si può trascurare di aggiungervi subito il palazzo dei Datini, più tardi sede del Ceppo dei poveri, che fu fondato da Francesco di Marco ed affrescato nelle sue facciate da buoni artisti fiorentini del trecento. [p. 48 modifica]Ricorderò inoltre, più per l’interesse storico che per le condizioni attuali, il palazzo della Cassa di risparmio, in cui veramente ben poco resta della originaria struttura, quando i conti Alberti ne avevano fatto una delle prime fabbriche che sorgessero in Prato.

I due palazzi che ora appartengono ai Faini e ai Gori in via dell’Accademia, appartennero già a una delle più cospicue famiglie della città, agl’Inghirami.

Molto e male il primo di questi palazzi fu riattato e decorato nel seicento, ma le tracce della severità trecentesca vi si possono ancora cogliere, come l’armonia dell’insieme, l’eleganza delle modanature del sec. XV. nell’altro. [p. 49 modifica]Per la importanza delle masse, non si può tacere l’austero palazzo cinquecentesco oggi residenza dell’Amministrazione dello Spedale della Misericordia. Più antico è quello Vescovile, le cui parti interne testimoniano ancora del tre e quattrocento. Ma l’aspetto complessivo della città è talmente sciupato da barbare mascherature, da volgarissimi intonachi, che l’antica e austera bellezza degli edifici privati e civili si può dire nel complesso distrutta. Per fortuna (e lo ripeto volentieri col Carocci) qualche vecchio stemma sfuggito alle distruzioni ed agli sfregi, ricorda ancora il luogo dove ebbero dimora le più cospicuo famiglie pratesi, e forse sotto la massa insignificante delle moderne facciate, si potrebbero ritrovare le belle forme [p. 50 modifica]dei palazzi degli Allotti, degli Aniadori, de’ Banchelli, de’ Bocchineri, de’ Cambini, de’ Convenevoli, de’ Dagomari, dei Ferracani, de’ Giusitaldi, de’ Goggi, de’ Guizzelmi, de’ Latini, de’ Lioni, de’ Magini, dei Manassei, dei Del Milanese, de’ Modesti degli Orlandi, de’ Peorondini, do’ Pratenesi, de’ Pugliesi, dei Rinaldeschi, de’ Ringhiadori, de’ Toncioni, de’ Talbucci, de’ Torelli, de’ Vieri, de’ Villani e di tante altre che ebbero parte cospicua nelle vicende dell’illustre e potente terra...

Ma quando i cittadini pratesi, almeno quelli che possono e che sentono, vorranno intraprendere questa opera salutare di detersione e purificazione? Se l’esempio venisse prontamente dai migliori, non tarderebbe ad essere largamente ed efficacemente seguito, e il guadagno artistico della città sarebbe notevolissimo. Firenze si compiacerebbe degnamente della sua figlia vicina.

Non ostante le molte favolose dicerie di antichi scrittori locali, Prato non ha un’origine anteriore al 1000, e la sua popolazione fu certamente costituita da una colonia agricola longobarda. Da tale epoca in poi appartenne sempre alla giurisdizione feudale dei conti Alberti, i quali lo tennero fino circa il 1180, signoreggiando il borgo ed il Contado annessi. Ma anche durante la feudale tutela albertesca, il paese ebbe agio di sviluppare la sua vita politica, e se l’assedio del 1107, sostenuto dal castello contro la contessa Matilde e i Fiorentini che lo distrussero, è da intendersi rivolto più contro gli Alberti, signori del luogo, che contro ai Pratesi stessi, altri fatti come l’assedio di Carmignano del 1154 e la successiva guerra contro Pistoia durata parecchie diecine d’anni e originata da discordie di carattere complesso (religioso, politico ed economico) dimostrano la maturità del comune che ebbe [p. 51 modifica]consoli fino dell’anno 1140. Dal 1180 in poi cessò il dominio degli Alberti, i quali rendono all’impero il feudo ricevuto molti anni prima, e glielo rendono probabilmente mediante un compenso in danaro, come si vede esser successo per altre terre. Questa ipotesi d’una cessione per danaro trova valida conferma nelle parole che i rappresentanti dell’impero dissero ai Pratesi (e non già i Pratesi ai rappresentanti dell’impero, come voleva un’antica falsa interpretazione del passo dei Diurni pratesi da cui si ricava la notizia e che esiste tuttora) nel 1286: cioè che «il loro comune non era della condizione degli altri comuni di Toscana, perchè fu compero il luogo, come si compera un cavallo e un campo». E dalla confusione che fu fatta di questo discorso, sì da invertirne, come vedemmo, la sostanza, deve esser derivata una scomposta tradizione che raccolse il Villani là dove scrisse, che i Pratesi «per loro denari si ricomprarono» da’ loro signori e «posonsi in quel luogo dove oggi è la terra di Prato, per essere in luogo franco da signori e Prato gli puosono nome, [p. 52 modifica]perocchè dove oggi è la terra aveva allora uno bello prato, il quale comperarono ed ivi si puosono ad abitare».

Del 1180 sono anche le prime mura castellane di cui restano ancora ruderi numerosi: le attuali sono della prima metà del sec. XIV.

Più tardi si trovano a governare il paese i Consoli coi Consiglieri, i Militi, i Mercanti e i Rettori delle arti; ma dopo il 1250 ai Consoli successero gli Anziani, semprechiesa della pietà fuori porta mercatale.(Fot. I. I. d’Arti Grafiche). sotto la vigilanza di un vicario Imperiale. Il comune di Prato seguì le sorti di parte guelfa fiorentina; e così agli Anziani subentrarono il Gonfaloniere e gli Otto difensori del popolo, quando nel 1289 Giano Della Bella introdusse il regime popolare in Firenze. Ma già da cinque anni, essendo capitano messer Fresco de’ Frescobaldi di Firenze, era sorto il Palazzo del popolo che poi fu detto Pretorio.

Prato dette un valido contributo alla lega guelfa delle città toscane e però nel 1313 si acconciò al Vicario di Re Roberto di Napoli, e nel 1326 al Duca di Calabria, poichè Castruccio, riconosciuto signore di Pistoia, fece terribili scorrerie nel suo [p. 53 modifica]territorio. La sommissione di Prato al Reame di Napoli perdurò anche durante la Signoria del Duca d’Atene in Firenze: e nel febbraio del 1350 i Fiorentini sborsarono 17 mila e 500 fiorini d’oro alla Regina di Napoli ottenendone la terra e il distretto di Prato. Il trattato fu condotto dal gran siniscalco Niccolò Acciaioli.

La Signoria di Firenze si volle tuttavia assicurar meglio della città comprata accrescendo le fortificazioni e costruendo un corridoio coperto per congiungere ilveduta del palazzo pretorio dalla piazzetta degli innocenti o delle bigonce.

(Fot. I. I. d’Arti Grafiche).
Castello dell’Imperatore alla rocca nuova, presso la porta fiorentina; che forse dava molta ombra a Firenze il credito e la potenza acquistata dalla famiglia dei Guazzalotti, il cui capo, Jacopo, era stato chiamato Potestà a Ferrara.

Non appena questi tornò dal suo ufficio fu confinato dalla Signoria a Montepulciano; ma Jacopo, insofferente dell’ingiuria, d’accordo con l’Oleggio signore di Bologna, nel 1353 calò per Val di Bisenzio per riconquistare i suoi diritti armata mano. Ma i pronti soccorsi inviati dai Dieci della Balia fiorentina sventarono le trame: e sei persone dei Guazzalotti ebbero il capo mozzo, e Jacopo fuoruscito ebbe le case [p. 54 modifica]porta del palazzo nencini in via garibaldi.

(Fot. I. I. d’Arti Grafiche).
distrutte e i beni confiscati. Oltre questo episodio non vi ha ricordo di speciali animosità; anzi pare che i Fiorentini lasciassero al comune di Prato una certa libertà nell’eleggere alcune cariche: nel 1460 permisero agli Otto difensori del comune e popolo di Prato di continuare la riforma degli statuti.

Il 6 aprile 1470 un tumulto inatteso turbò la città operosa, ma per cinque ore soltanto.

Bernardo Nardi ribelle fiorentino con cinquanta fuorusciti pratesi e pistoiesi, corrotti alcuni messi del Potestà, prendeva la rocca, arrestava il Potestà medesimo e correva gridando: Viva il popolo di Firenze e la libertà.

Nessuno si mosse: dodici rivoltosi furono impiccati sul fatto, Bernardo ferito fu condotto a Firenze e dopo pochi giorni decapitato.

Ma il fatto più lacrimevole e più noto della storia pratese è il sacco compiuto atrocissimamente dai soldati spagnuoli nel 1512: sacco che durò dal 29 agosto al 19 settembre. grafo del palazzo novellucci in via cairoli. «Dalle descrizioni di questa sciagura, osserva il Repetti, apparisce piuttosto che un sacco di robe e di effetti, una tragedia di innocenti persone, un cumulo di violenze e di martori dati da cannibali; come che non sia totalmente improbabile che in quel frangente di troppo lunga durata tenessero mano agli assalitori anche dei fuorusciti pratesi, pistoiesi e fiorentini». Giulio II nello stesso anno segnava tre bolle autorizzando l’arcivescovo di Firenze e il proposto di Prato e il vicario di Pistoia a fulminar scomuniche contro quelli che non restituissero i beni usurpati durante il sacco agli ospedali di Prato.

Sotto il primo Granduca il gonfaloniere [p. 55 modifica]di giustizia restò ancora; ma gli Otto difensori si chiamarono invece Priori: e furono anche Otto perchè restò la divisione in otto porte cogli stessi nomi del vecchio cerchio: S. Giovanni; al Travaglio, poi Serraglio; Gualdimare era Pistoiese; Fuia; a S. Trinità; a Corte; a Capodimonte ora Fiorentina; Tiezi ora Mercatale. Di queste porte non esistono più quelle di San Giovanni, Fuia, a Corte.

Prato è anche la patria di quel Convenevole che fu maestro del Petrarca; e di Giovanni di Gherardo che nel secolo XV esponeva in Firenze la Divina Commedia. [p. 56 modifica]Più volte si è ricordato il nome di Francesco Datini che mancò nel principio del secolo XV e si rese illustre in economia e nelle arti industriali legando alla sua terra le forti ricchezze acquistate nel commercio.

Oltre Filippino è bene ricordare che fra Bartolomeo della Porta nacque nella villa di Savignano presso Prato; ma solo nel convento di Prato vestì l'abito.