Prefazioni e polemiche/II. Prefazioni alle tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani (1747-8)/I. Al signor don Remigio Fuentes milanese

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I. Al signor don Remigio Fuentes milanese

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I. Al signor don Remigio Fuentes milanese
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[p. 33 modifica]I Al signor DON REMIGIO FUENTES milanese Voi avete ragfion da vendere, il mio soavissimo signor don Remigio, quando mi dite che alla mia traduzione di Cornelio necessario sarebbe il porre in fronte una erudita prefazione. Voi dite bene; ma vi avete voi dimentico chi sia il Baretti? Vo’ ’1 sapete pure, ch’e’ sa poco latino e meno greco! Or come volete voi ch’e’ faccia una prefazione che meriti quel bel nome di erudita? Sapete pure che a nessuna scrittura si dà, che non sia piena zeppa di latino e se non si vedono almeno almeno due o tre citazioni greche per ogni pagina. Io vedo bene ch’io mi potre’ aiutare con de’ libri italiani e franzesi, e qualche bel motto latino mi darebbe anche il cuore di cavamelo fuori, e cosi fare un buonissimo pasticcio de’ pensieri e delle opinioni rapite altrui; ma, domine, io non sono fatto a questa foggila. E poi chi sa s’io sare’ uomo da sottoscrivermi sotto gli altri e stare a detta? Io credo di no; e se ve l’ho pur a dire, quel poco di studio che ho fatto intorno alle cose teatrali m’ha poste in testa certe opinioni che poco han che fare con alcune di certi venerandissimi barbassori vecchi e nuovi, i quali, per quanto a me pare, ce n’hanno date a bere di molte: voglio dire che certi sedicenti maestri in tutta quanta l’arte poetica ne hanno dati certi precetti (per ristringermi ad un particolare) di G. Barstti, Prefazioni e polemiche. 3 [p. 34 modifica]tragedia e di commedia che a me quadrano assai poco. Il Gravina, verbigrazia, in quel suo Discorso sopra l’«Endimione» del Guidi, pastorale molto magra e che, come le altre poesie altissime di quel poeta, è ormai uscita della memoria di tutti i conoscitori della vera poesia, dice di belle e di eruditissime cose al suo solito; ma e’ mi snocciola poi anche questa, intorno a cui io ho le mie difficoltà. Queste sono le sue parole:


Colui a cui viene in talento di tesser favole in versi, dee scegliersi numero tale che alteri quanto meno si può la naturai maniera del parlare, per non allontanarsi affatto dal vero. Perciò i comici e i tragici antichi scelsero il verso giambo, avendo osservato che era il più frequente a trascorrer ne’ comuni discorsi degli uomini. Nella nostra lingua, la quale è assai tralignata dalla sua stirpe, non si ravvisano si fatti metri, e solamente col verso sdrucciolo si potrebbe in qualche maniera imitare l’uso del giambo antico; il che con molto artifizio e senno ha fatto Lodovico Ariosto nelle sue commedie.


Eccovi, signor don Remigio mio, una pensata di Gravina, cioè d’un uomo de’ più grandi che abbia mai prodotto la natura, e una pensata la quale ha le sue belle e buone artigliarie greco-latine dinanzi e da fianco; e pazza cosa sarebbe riputata il pretendere di mostrare che ella non è molto dritta, massimamente che molti dotti uomini, fra i quali alcuni vivono ancora, portano la medesima opinione che si abbia ad adoperare nelle tragedie e nelle commedie «numero tale che alteri quanto meno si può la naturai maniera del parlare»; e si l’hanno detto a tanto di lettere che il verso sciolto è quel solo che debbasi usare nelle tragedie, e lo sciolto o lo sdrucciolo sciolto nelle commedie.

Né tutti que’ che hanno di ciò scritto a’ di nostri, per quanto è a me noto, hanno avuta altra contesa fra d’essi, se non che altri sostiene che si possano nelle tragedie usare alternatamente ed a capriccio settesillabi ed endecasillabi, ed altri i soli endecasillabi vi vuole. Ma se voi mi domandate da quale dei due partiti io tenga, ve l’ho io a dire, don Remigio? Né dall’uno né dall’altro. Signor no; né il Gravina né seco tutti quelli che [p. 35 modifica]ne hanno dati questi precetti, mi satisfano punto punto; e dico che chi avesse cervello a sufficienza e venisse a me per consiglio, io gli dire’ di non far mai né tragedia né commedia in verso o sciolto o sdrucciolo o alternato o non alternato o che so io. — Qual numero vorresti! dunque ch’egli adoperasse? Vorre’ tu ch’e’ le facesse in prosa? — Signor no. — In versi alessandrini o sia martelliani? — Libera nos. Domine. — In qual metro dunque? in terza, in ottava rima? — Oh adesso si, l’avete indovinata. In terza rima o in ottava per l’appunto; e mei lascino dire Gravina e chiunque, o prima s’ei vi fu o dopo di lui, ha protetto e esaltato il verso non rimato; e si lascino in pace i gjeci, i quali non usarono rima perché non n’avevano. E che, per l’amor di Dio, ha che fare la lingua greca con la toscana? Quella aveva i suoi numeri, le sue inflessioni, il suo genio, diversi dalle inflessioni, numeri e genio della nostra, e non occorre fare a un tal modo e dir poi: — Oh i greci hanno detto, hanno fatto cosi; — e male vogliono que’ tanti che assolutamente vogliono che così s’abbia oggi a fare come i greci facevano, né più né meno. Che pazzia! Ringraziata sia la ventura che né Dante né l’Ariosto né il Pulci né il Berni né i due Tassi né gli altri nostri poeti epici hanno avuta la fantasia del Trissino, il quale per nostra disgrazia seppe un po’ troppo di greco; che se meno n’avesse saputo, il suo poema ne averebbe lasciato forse in verso rimato, e così non se ne giacerebbe su per gli scaff’ali delle librerie, appena letto dagli uomini più flemmatici. Il Gravina e tutti i gravinisti (siami permesso dar questo nome a’ partigiani del verso sciolto, per maggior brevità) avrebbono bel predicare, ma non farebbon mai leggere ad un gondoliere qui di Venezia un canto intero di quella Italia liberata, malgrado la soavità ed altezza de’ suoi bei versi e malgrado quegl’infiniti vaghissimi fiori che ne’ greci giardini il Trissino ricolse e de’ quali ornò la sua opera. Gran virtù della rima! I gondolieri cantano pure (e più d’una notte mi son anche venuti in fastidio) e le bravure d’Orlando e l’armi pietose di Goff’redo. Poche volte s’è stampata l’Italia liberata; ma ài Orlando e del Gojredo si dirà egli cosi? E qualche saputo in greco mi [p. 36 modifica]vorrebb’e’ forse dire che un poema molte volte e in varie età e in diversi paesi stampato e in diverse lingue tradotto, non sia da preferire a un altro il quale niuno di questi onori si ebbe? Ma se la buona sorte d’Italia ha fatto scrivere in rima i nostri poeti epici, la disgrazia sua ha voluto che non abbiamo neppure una buona tragedia in rima, e che una sola buona commedia in ottava rima, per quanto io so, abbiamo. Questa commedia è La Tancia del Buonarroti; e per quanto belle si sieno quelle del Cecchi, dell’Ariosto e, per dirlo a un tratto, tutte quelle degli antichi e de’ moderni toscani scrittori, nessuna, per mio avviso, più debbe piacere e dirsi bella di quella amabilissima Tancia; e bene smemorato e poco men che pazzo colui io direi che mi negasse non essere quella la più bella commedia che sia stata scritta in toscano; anzi io giocherei poco meno che un / occhio e tre denti che né greco né latino né inglese né francese scrittore, né in sostanza nessuno mai al mondo ha scritta la più bella cosa comica. Il Fagiuoli nelle sue commedie ha di be’ squarci sul fare della Tancia; ma son elleno le sue più belle scene da paragonarsi con alcuna di quelle? Io per me dico che lor sono di sotto, come il sono le sue piacevoli rime alle piacevoli rime del Berni, che il sono infinitamente. Perché dunque dietro un esempio tale non si fanno le commedie in versi rimati?

Alcuni che hanno a’ di nostri composte tragedie si vanno lagnando, e gridano e schiamazzano tuttavia che il secolo è corrotto, che non si vogliono dagl’italiani ascoltare che le sciocchezze di Arlicchino, gl’inganni di Brighella, le freddure del Dottore e le tantaferate di Pantalone, e che i gravi e sodi e sublimi e profondi pensieri sparsi, non che colla mano, col sacco in tante bellissime nostre tragedie, non si vogliono per nulla, e che anzi queste fanno fallire i più bravi comici che le recitano. Ma dicano un po’ a me cotesti piagnoni: se noi avessimo in una tragedia, verbigrazia, un povero sventurato già prigioniero, che facesse una parlata come quella del conte Ugolino in i Dante, o uno imbasciadore che favellasse come Alete a Goffredo ’ in Tasso, o una sposa che si lamentasse del marito fuggitole [p. 37 modifica]come la meschinella Olimpia in Ariosto, o una innamorata fanciulla che

. . . alla fonte tornata,
e vòlta al prato in vista lagrimosa,


dicesse di queste parolucce inzuccherate al luogo dove vide l’amante coricato:

Beati fior . . . erba beata,
che avete tócco così bella cosa;
terra che sotto a quel corpo se’ stata,
terra sopra ad ogi altra avventurosa,
perché voi non avete il senso mio?
o veramente il vostro non ho io?

se in questo stile scrivessero e di queste belle cose con la rima dicessero i nostri tragici personaggi, volete mò voi dire, don Remigio, che le sciocchezze d’Arlicchino durerebbono assai su i nostri teatri? che i comici fallirebbono recitando tragedie? che il volgo non saprebbe neppure il nome de’ valenti autori di esse? Io per me porto e porterò sempre opinione che no.

Tutto il mondo sa che Torquato Tasso ha fatto un bel poema, e tutto il mondo non sa ch’egli ha fatta una buona tragedia intitolata // Torrismondo. Sino le donnicciuole sanno le famose prove d’Orlando, ma i personaggi delle commedie dell’Ariosto sono molto poco conosciuti; né così anderebbe la bisogna, se il suo Torrismondo come il Goffredo, e le sue commedie come V Orlando, QNt.st.xo il Tasso e l’Ariosto rimato. Che più? quel maraviglioso poema delle Sette giornate del Tasso, chi lo conosce se non pochi dotti? Eh! finiamola, e diciamo che i versi toscani vogliono ad ogni modo la rima per piacere e ai dotti e agli ignoranti, e facciansi le tragedie e le commedie in rima; e i versi sciolti e gli sdruccioli stiensi nel santuario di Gravina e de’ suoi seguaci insieme coi giambi greci e latini; e allora le buone tragedie e le buone commedie avranno quelle piene al teatro che le arlicchinate e le pantalonaie si hanno, e che non avranno mai le Sofonisbe, le Canaci, gli Oresti ed altri somiglievoli capi d’opera. [p. 38 modifica]Dicono i gravinisti che i monaci furono i primi trovatori della rima, facendo ab antico certi esametri e pentametri rimati in mezzo, a’ quali si diede il nome di «versi leonini», e che da questi barbari leonini ebbe origine la rima. Bella erudizione! Ma se la rima foss’anco stata trovata da’ moscoviti o da’ tartari, ad ogni modo a’ nostri tempi ella è fatta il più bell’ornamento delle toscane poesie, e senza di essa concedo che possiamo far bene ed agguagliare i greci ed i latini poeti e quanti al mondo ne furono e ne sono; ma col favore della rima vinceremo i loro comici e tragici poeti e que’ di tutte le nazioni, mercé della lingua che abbiamo, la quale, per giudizio di ottimi conoscitori di essa e della greca e della latina, le vince entrambe, avendo in sé poco meno che tutte le loro bellezze e poi moltissime soprammercato che quelle non hanno. E di fatto qual nazione mi darà tanti stili diversi e tutti belli, tanti originali e tutti maravigliosi, quanti ne darà la lingua nostra? un Dante, un Petrarca, un Alamanni, un Rucellai, un Pulci, un Berni, un Buonarroti, un Firenzuola, un Trissino, un Costanzo, un Casa, un Ariosto, un Bernardo Tasso, un Torquato Tasso, un Sannazaro, un Tassoni, un Lippi, un Lorenzo Bellini, un Francesco Ruspoli, un Metastasio, e tanti e tanti altri, che sono nello stile diversissimi l’uno dall’altro oltre ogni credere, e tuttavia maravigliosìssimi tutti sono? E de’ prosatori, che non potre’ dire se qui fosse opportuno luogo? Ma questo discorso dal mio primo proposito mi devierebbe soverchio, e già ho tanta carne al fuoco che basta, e perciò stiamo in sul filo e torniamo per un poco in sulla rima. Non ci rendiamo noi con essa grati sino alla più minuta plebe? Ne fanno pur chiara testimonianza fra gli altri popoli d’Italia, tutti amanti della rima, il volgo di Firenze e quello dì Venezia, l’uno ascoltando con maraviglia i suoi improvvisatori, l’altro cantando di e notte l’Orlando, il Goffredo e qualche squarcio d’altro poema, e infinite altre leggende in ottava rima!

Se alcuno poi mi chiedesse quale delle due io preferissi in commedia e in tragedia, se la terza o l’ottava rima, io risponderò l’ottava anzi che l’altra, per essere l’ottava più periodica e [p. 39 modifica]più armoniosa; né mi venga alcuno sotto con quell’altra pazza ragione che si altera di troppo la naturai maniera del parlare rimando le tragedie e le commedie, conciossiaché si altera egualmente la naturai maniera del parlare dai versi sciolti e sdruccioli; che se gli uomini non parlano in rima, non parlano né tampoco in versi sciolti o sdruccioli; e que’ tali che cosi pur gracchiano, che non iscrivono - essi tutte le cose loro in prosa? perché ammirano tante belle parlate in tanti poeti, che sono rimate o ristrette in una misura che equivale alla rima? Enea parlava egli in versi esametri a Didone? Bradamante lagnavasi ella della tardanza di Ruggiero in ottava rima? Che sciocca pretesa è dunque questa, volere che i personaggi parlino sul teatro quasi come si parlerebbe naturalmente, quando noi andiamo ad ascoltarli con quella medesima prevenzione con cui leggiamo e l’Ariosto e Virgilio e tutti gli altri poeti epici; cioè che non essi personaggi, ma sibbene i loro poeti parlino per essi? Cerchiamo di piacere a tutti, e se possiamo far bene modellandoci sui greci e sui latini, facciamo meglio facendo da noi, e scriviamo le nostre tragedie e le nostre commedie non in versi a’ lor giambi somiglievoli, ma in rima, in rima, in rima.

Io ho vedute recitare in Venezia ed altrove alcune tragedie in verso sciolto e fatte secondo le buone regole di messer Aristotile, ed ho visto su gli stessi teatri e da’ medesimi attori recitare de’ drammi dell’immortai Metastasio; e quantunque questi abbia poco badato a’ precetti dello Stagrita, tuttavia quei suoi drammi sempre gli ho visti con molto più piacere ascoltati che non le tragedie alla greca. Perché ciò se non perché i suoi dolcissimi versi, pieni de’ bei sentimenti che convengono alla tragedia, sono pur pieni di belle e facili rime? Io credo che questa sia, se non l’unica, almeno la principal ragione che si può addurre dell’universa! gradimento di que’ drammi; e se altri me ne sapesse dir una meglio, l’avre’ molto caro. Tuttavia la terza e l’ottava rima sarebbono per mio avviso più proprie che non il metro di quel valente poeta; che oltre che sarebbe più nobile e maestosa versificazione e più soave e grata all’orecchio, [p. 40 modifica]più facilmente ancora lascerebbe impresse nella memoria de’ leggitori e degli ascoltatori molte sentenze e documenti, che facilmente fuggono quando non sono con doppie rime in eguali versi legate.

Ma qui viene il buono, che mi salteranno addosso un mondo di gravinisti e colle sopracciglia inarcate mi domanderanno padronescamente: — E perché, signor protettore delle rime, non hai tu tradotte queste tragedie in rima? — Hollo io a dir tosto questo perché? Perché non sono stato da tanto; che se da tanto fossi, ne avrei anzi scritte d’invenzione a dirittura, che meno ingegno cred’io si richiegga per inventare e porre in rima le cose da noi inventate, che per tradurre fedelmente in rima quelle inventate da altrui; né io ho voluto far altro traducendo queste tragedie che dare in qualche modo all’Italia un tanto poeta e, per quanto da me si è potuto, farlo nostro, come Omero e Virgilio e tanti altri dal Salvini, dal Caro e da tanti altri fur fatti. E qui notino bene i gravinisti (ch’io non mi dimenticassi di dirlo) che dicendo io le cose teatrali doversi scrivere in rima, non per questo mi intendo io dire che chi in rima vorrà quindinnanzi scrivere debbe lasciare di leggere e di studiare sopra quelle che in rima non sono. Signori no, io nolla ’ntendo cosi, ma si intendo che le commedie greche, latine, toscane ed anco indiane, se ve ne fossero di buone e che farlo si potesse, si debbono sempre studiare a più non posso; né io disprezzo le nostre buone tragedie se non le trovo versificate a modo mio, che anzi superbissimo n’andrei se io mi conoscessi capace di far una così bella cosa quanto è la Sofonisba; e dico solo che per non essere rimate non possono troppo piacere sur un pubblico teatro, ed ottenere il fine principale, anzi unico, che debbe con esse il buon poeta cercar d’ottenere, cioè di correggere il mal costume degli uomini e rendergli virtuosi al possibile, adescandoli dolcemente con porger loro occasione di maraviglioso diletto.

In alcuni luoghi di questa mia traduzione (come che in non molti, perché fu forza per più ragioni di porle l’originale a fronte) io mi sono presa la libertà di non mi stare servilissimamente attaccato alle parole dell’autore quando per una e quando [p. 41 modifica]per altra ragione, ed ho alterato qualche po’ poco alcun verso, come sarebbe a dire nell’atto primo, scena terza, del Poliutie, in quei versi di Paulina a Stratonica:

Tu vois, ma Stratonice, en quel siede nous sommes:
voilà notre pouvoir sur les esprits des hommes,
voilà ce qui nous reste, et l’ordÌTiaire effet
de l’amour qu’on nous offre et des voeux qu’on nous fait.
Tant qu’ ils ne soni qu’anants, nous sommes souveraines,
et jusqu’à la conquéte il nous traitent de reines;
mais après l’hymenée ils soni rois à leur tour.

Questo luogo m’è parso troppo più comico che non converrebbe alla maestà d’una tragedia, e d’una tragedia sacra; e perciò io ne ho bene conservato il senso quanto più ho potuto, ma l’ho fraseggiato il più nobilmente che mi è stato possibile. E così mi sono anche un po’ allontanato dal senso di quelle parole di Fabiano a Severo, nell’atto secondo, scena prima, dello stesso Poliutte:

...... Ouì; depuis quinze jours
Polyeucte, un seigfieur des premiers d’Armenie,
goùte de son hymen la douceur infinie,

perché parole troppo imprudenti mi parvero in bocca di Fabiano, il quale non doveva in quelle circostanze dipingere infinito il bene di Poliutte nel possesso di Paulina al suo amante Severo, del quale doveva anzi tenere la fantasia lontana da simile per lui dolorosissima imagine. E per dirvene ancora una, neppure volli quel pensiero servilmente tradurre di Cimene (che io, perché mi pare che faccia miglior suono, ho scritto «Climene ») nel Cidde, atto terzo, scena terza:

La moitié de ma vie a ntis l’autre au tombeau,

perché mi parve un pensiero falso, come notò anche Scudery nella sua critica al Cidde, ed un pensiero che suonato avrebbe ancor più male in italiano che in francese non suona, quando l’avessi detto con quella frase italiana che alla franzese può corrispondere. [p. 42 modifica]Sopra tutto poi ho procurato di fuggire i franzesismi colla medesima cura con cui ansiosamente ne vanno in traccia certi moderni per adornarne le loro e filosofiche e critiche ed amorose scritture, parendomi pazza cosa il cercar in prestito quello di che noi abbiamo da donar agli altri, cioè vocaboli e frasi di buonissima lega; anzi avrei creduto di barattare l’oro, non che coli ’argento, col ferro e col piombo, che ferro e piombo in mezzo all’oro, per mio giudizio, diventano i vocaboli e le frasi dell’umile lingua franzese in mezzo a’ vocaboli ed alle frasi della nobile toscana. E se mai alcun franzesismo mi fosse pur fuggito dalla penna, cosa che non credo impossibile in tanta quantità di versi, protesto a voi, il mio carissimo don Remigio, ed a tutti que’ che si daranno l’incomodo di leggerli, che io, lo dirò con un vostro verso,

li annullo, li abbomino e detesto;

ed anzi esorto sempre i giovani italiani che si danno allo studio della lingua franzese di guardar bene che quello studio non pregiudichi poi loro scrivendo nella propria; e buono sarà che non leggano molto i libri di certi ignoranti de’ nostri tempi, i quali, non sapendo scriver franzese e volendo pur mostrare che ne sanno, vanno cacciando quelle poche frasi che a fatica hanno imparate, come pur or dissi, nelle loro scritture, e così vengono a formar un linguaggio che per intenderlo è necessario, non miga ricorrere al benedetto vocabolario della Crusca, ma si ad un certo vocabolista, coi fogli di cui util cosa sarebbe l’accender il fuoco la mattina per risparmiare di molti zolfanelli, e farli andar a «svolazzo» per la camera.

Alcune altre poche opinioni poi io ho sul fatto del comporre tragedie e commedie, non affatto conformi a quelle di molti meritamente rinomatissimi scrittori; ma queste le serberò per un’altra volta, se mi verrà voglia di scriverle; e per ora bastami l’aver comunicato a voi, dotto e riveritissimo amico, la mia opinione sul fatto del verseggiarle.

Né per quello che io ho detto di sopra, l’autore di quella spropositatissima leggenda intitolata Essai sur la poesie épique [p. 43 modifica]de toutes les nations prenda rigoglio sopra gl’italiani, che io non solamente moltissime tragedie italiane ho per molto migliori delle sue, ma dico anche che se gl’italiani colle loro tragedie e commedie non rimate agguagliano a stento Cornelio, Racine e Molière, rimandole poi, io ho per fermo che non solo i franzesi ma tutte le altre nazioni antiche e moderne vincerebbono nella teatral poesia, come tutte quante nella epica vinte le hanno d’assai d’assai.