Primi poemetti/Le armi

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Le armi

../I due orfani ../Italy IncludiIntestazione 30 luglio 2012 100% Poemetti

I due orfani Italy
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LE ARMI



“Nando!„ al su’ omo disse il babbo “Nando!
Di tuo tu devi aver già l’armi nuove,
3ben fatte. Dunque va dove ti mando.

Il ponte sai, della Corsonna, dove
entra nel Serchio. C’è un fruscìo di polle,
6in quel contorno, che fa dir: Qui piove!

fa dire al cieco che vien giù dal colle
col suo canetto, e, fosse il solleone,
9sente un frastuono, sente un fresco, un molle...

Già gli par che di dosso il can barbone
sgrolli le grosse gocciole, e la strada
12odori forte sotto l’acquazzone.

Basta: se romor d’acqua odi, che cada
senza nuvole in cielo, ecco Aladino
15che farà la tua lancia e la tua spada.

Forse t’aspetta all’ombra d’un gran pino
bevendo vino. O è forse al lavoro
18col suo gran maglio dentro lo stendino.

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Tutto vestito d’ellera e d’alloro
è lo stendino. Dentro, alla catena,
21è il gran maglio dal capo come toro.

Ed ecco il fabbro che l’avvia, lo frena,
lo sferra, arresta, mentre soffia il vento
24e l’acqua stroscia e il focolar balena.

E il maglio picchia, ora veloce, or lento
lento, sul rosso ferro, come pare
27all’uomo: un uomo! ma che vale i cento.

E dunque l’armi tu ne avrai, più care,
figlio, più tue: ruvide e nere in prima,
30ma è il lavoro che le fa lustrare.

Ma fa, il lavoro, come fa la lima:
pulisce e rode: l'armi e l’uomo... Ebbene?
33Se il calcio è verde, secchi pur la cima!

Fate armi nuove per ognun che viene
nuovo nel mondo. Ed abbia ognuno in mano
36il suo marrello e il suo po’ po’ di bene„

Così diceva. E Nando scese al piano
di Castelvecchio. Nelle porche uguali,
39come un velluto verdicava il grano.

Faceva l’unghia già qualcuno ai pali
per le sue viti. Sui forconi vecchi
42cantavano, spiando, i pinzampali.

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Altri potava. Si sentian gli azzecchi,
gli schiocchi delle forbici. Sui pioppi
45dava il pennato fitti colpi secchi.

Oh! quanti olivi sul pendìo! Sin troppi.
Erano un bosco. E ne cadean già nere
48le olive, e l’olio avrebbe empito i coppi.

Castagne, grano, vino, olio... un podere,
lì, gli garbava. C’era anche la fonte
51a cui menare le sue bestie a bere.

Oh! c’era bello, lì tra piano e monte,
lì tra il fiume il torrente e il torrentello,
54e con la Pania cerula di fronte!

Bello, sì, ma il suo nido era più bello.
Bevve alla fonte e seguitò la strada,
57e vide il fiume e il ponte lungo e snello.

Non lo passò: svoltò per la contrada
dell’Arsenale e di Mologno, dove
60si facea la sua lancia e la sua spada.

Era ancora prestino, eran le nove
forse, e il mattino era di rose e d’oro,
63quando in suo cuore esclamò Nando: Piove!

E non pioveva; ma s’udìa sonoro
un cader d’acqua. Un casolare basso
66c’era, coperto d’ellera e d’alloro.

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Vi scese, udendo ad or ad or fracasso
di ferro in mezzo al murmure incessante
69dell’acqua, e il maglio rimbombar sul tasso.

Parea soffiare il vento tra le piante
d’una foresta. Entrò guardando al fioco
72lume. E rosso gli apparve, ecco, un gigante

tra un improvviso sgretolìo di fuoco.


i


S’appoggiò su l’incudine col mazzo.
Sopra la fronte si strusciò due dita.
76Le sgrollò. Disse: “So chi sei, ragazzo.

E so cosa tu vuoi dall’eremita
fabbro ferraio: l’armi nuove e belle,
79r armi che dànno anche al tuo re la vita.

Sono sei: tre fratelli e tre sorelle.
Tienle con te da quando sorge a quando
82cade lo stormo delle Gallinelle„

Disse, e comandò l’acqua. Essa al comando
rimbombò cupa, e mosse il vento, e il vento
85sul rosso fuoco si gettò fischiando.

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Nella spelonca il biondo fabbro, attento,
movea, tra l’invisibile acqua e il rosso
88fuoco, due braccia che battean per cento.

Chè la Corsonna a lui correa pel fosso
perennemente, ad un suo cenno presta,
91quando accennava: Ora da me non posso.

Ella, scendendo come la tempesta,
movea la ruota, essa lo stile, e tu,
94maglio, sul ferro e su l’acciaio la testa

alzavi e la lasciavi piombar giù.


ii


E prima il fabbro fabbricò la vanga
dalle due ali, l’arma che le zolle
98tagli e le franga; ed anche te ti franga;

ma poi t’acconcia, per il ben che volle
a te, che tu volesti a lei, fratello
101lavoratore, un letto molle molle...

Bollì ferro ed acciaio, indi il massello
fatto bianco afferrò con le tanaglie;
104e lo domò col maglio e col martello.

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Nasceva l’arma tra un raggiar di scaglie
rosse e turchine. L’acqua, il vento, il fuoco
107faceano l’arma delle tue battaglie.

Saldo faggio lo stile sia. Tra poco
la vangatura ti comincia. È giunta
110la rondinella ed è fiorito il croco.

A tutto ferro! E il ferro poi ripunta,
e tira su la bricia che rimane.
113La vanga ha d’oro, come sai, la punta.

Oh! il campo pare un altro, ora. Stamane
spioviscolava, e riè bello già.
116La zolla già lièvita come il pane,

al solicello, e screpola e si sfa.


iii


E poi fece il piccone, arma che dure
chiede le braccia, e forte vuole il forte,
120d’acciaio, di qua zappa, di là scure.

Con l’una taglia le radici torte,
con l’altra scava. Ed esso vien secondo,
123dopo la vanga e fruga anche la morte.

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Anche più della vanga esso va fondo,
il buon piccone, e cerca le memorie
126che in fondo al cuore ha seppellite il mondo.

Nasceva l’arma tra un raggiar di scorie
azzurre azzurre. L’acqua, il fuoco, il vento
129faceano l’arma delle tue vittorie.

Lavoratore, il manico sia lento
frassino; e forte picchia pur sul vivo
132sasso che gli risuona come argento!

E va! Per quella macchia aspra, a solivo,
folta di stipe, fa venir filari
135di verde vite o di canuto olivo!

Fa, col piccone, dov’è monte, pari,
dov’acqua, terra, dove notte, dì,
138fa vie sotterra, un mare di due mari,

o migratore che il tuo verso è il sì!


iv


Poi fece anche la falce, arma che appare
anche nel cielo, quando l’aria imbruna,
142bianca, poi d’oro, sul monte o sul mare.

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Guardando la falciola della luna,
la volle anch’esso per le sue figliuole
145il primo contadino, una per una.

D’allora in poi son le fanciulle sole
che con la loro falce e la crinella
148vanno a far l’erba sul cader del sole.

Vanno, appuntata al fianco la gonnella,
a tagliare una fetta d’erba sulla,
151a fare un quadro d’erba lupinella.

E non si vede, nel campetto, nulla,
altro che fiori; ma tra i fiori rossi
154è inginocchiata a terra una fanciulla.

Tra i lunghi steli lievemente mossi
stride la falce. Tra i giunchi e la sala
157già qualche rana gracida nei fossi.

E, quando appar la stella, quando cala
l’ombra dei monti, ella si leva su,
160cantando, e inzeppa l’erba, onde s’esala

odor di fresco e verde e gioventù.

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v


Poi, la frullana: quella che lavora
come quell’altra che disfà le vite:
164lavora all’ombra, prima dell’aurora.

Cade la guazza allora, cade il mite
sonno, dal cielo. Un sibilo si sente
167correre per le praterie fiorite.

Dormite il sonnellino d’oro! È gente
che falcia: taglia tutto, paleino,
170loglio, trifoglio, veccie, timi, mente.

Tre volte il prato parve un altro, insino
che fu segato: tutto rosso a gli occhi
173e tutto giallo e tutto gridellino.

Poi mise fuori ciuffi code fiocchi
spighe rappe, la nebbia esile e vana,
176pendule nappe, tremuli balocchi.

Ora tutto ha falciato la frullana.
Su la sericcia s’è ammucchiato il fieno,
179chè dai fossi chiamava acqua la rana.

E spesso dalle Panie ora un baleno,
come una bocca aperta, alita, e fa
182vedere i mucchi: ed ogni volta un treno,

lontano, un po’ rotola sordo, e sta.

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vi


E poi fece il pennato, arma ch’ha il becco
aguzzo e curvo il petto e il taglio fino
186e grave il colpo, per il verde e il secco.

Fuor che di festa, portalo all’uncino
sempre, quando esci; ch’egli t’asseconda
189in ogni tua faccenda, o contadino.

Egli pota, egli innesta, egli rimonda;
per le tue viti taglia i torchi al salcio,
192per i tuoi bachi al gelso fa la fronda.

Fa sui castagni i bei rami di calcio
pel verno. Nell’asprure dell’estate,
195la falce sciopra, ed esso dice: Io falcio.

E falcia pioppi, gelsi, olmi. Mangiate,
o vaccherelle! E quando invìa la pioggia,
198appezza legna per le tue fiammate.

E fa con te valletti e ceste, o foggia
un giogo, o squadra un erpice d’avorno,
201od una scala, sotto la tua loggia.

O crea da un olmo che vedesti un giorno
aver nel tronco una sua gran virtù,
204l’aratro, che, quando lavora, ha intorno,

piccoli e grandi, tutta la tribù.

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vii


E poi fece il marrello, arma che scopre
e che ricopre, zappa e, in un, badile,
208buona quant’altra, ma men grave all’opre.

Egli comincia nel piovoso aprile:
ritira il solco sopra il formentone;
211ma un poco prima egli zappò le file.

Lo ronca, lo dirada, gli ripone
la terra al calcio, perchè faccia il costo,
214nel dolce maggio, dopo un acquazzone.

Al sessantino pensa poi d’agosto;
e lo smuove e lo svelge e lo rincalza:
217e poi riposa, quando bolle il mosto.

Poi quando il sole pallido s’inalza
sopra la nebbia, e ingiallano le spoglie
220del sessantino, e rossa appar la balza

e grigio il piano, e cadono le foglie,
e viene il freddo, e cupo il vento geme;
223ecco, il solco novello esso ricoglie.

Suonano a onde le campane tremebonde
sopra i villaggi e le città...
226Ed il marrello seppellisce il seme,

che nasce e poi... si riseminerà.

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E cessò il vento e il fragor d’acqua e il lampo
del fuoco. Disse ch’era morto il giorno,
230una campana di San Piero in campo.

Nando uscì co’ suoi ferri. E gli era intorno
quella campana che soave e piana
233gli diceva che tardi era il ritorno!

Via via soave e piana altra campana
gli ripeteva ch’era ancora in basso!
236Poi solo udì, nella sua via lontana,

squillargli l’armi su le spalle al passo.