Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XI
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Moti politici
L'assassinio di Pellegrino Rossi
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XI.
MOTI POLITICI.
L'ASSASSINIO DI PELLEGRINO ROSSI.
Nel frattempo accadevano in Roma fatti che accennavano si andasse a rompicollo alla rivoluzione. V’era il capopopolo Ciceruacchio, il quale quando voleva si trascinava dietro tutta la popolazione. Molti dei reduci della guerra, sbandati, si riunivano e complottavano.
Parte della stampa spingeva ad eccessi; pare voleva frenare. Un giornale che oggi si direbbe umoristico, Il Cassandrino diretto dal prete Ximenes, intendeva di reprimere scherzando. Ma, una sera, per la strada, scherzando, con un colpo di coltello alla carotide ne soppressero il direttore.
Io mi trovava a poca distanza e vidi il fatto. L’eccidio venne compiuto da congiurati che io conoscevo.
Una sera, questi medesimi tali, avean fatta una gran cena a Ponte Molle. Si eran messi in testa vi fosse tra loro una spia. AI ritorno, in carrozza, quando furono in Piazza di Spagna smontarono; e, tra suoni e canti, il sospettato per spia, mentre smontava, col solito solo magistrale colpo di coltello alla carotide venne freddato e lasciato in terra. Ed ognuno, senza affrettarsi, prese per la sua strada. Il vetturino veduto l’uomo a terra, non mancò di gridare a coloro che si allontanavano:
— Ohè!... Er compagno vostro è imbriaco marcio.... Embè ve ne annate?... nu l’aiutate?...
Sceso da cassetta, il buon bottaro (era notte) si accorse di qualcosa e continuò:
— Oh!... Sta in un lago de sangue.... poveretto l’hanno ammazzato!...
E.... aria! Anche il vetturino, veduto di che si trattava, frettolosamente se squaiò.
Grandoni, mercante di campagna, era invidiosissimo di Bartolomeo Galletti per il suo grado di colonnello. La guerra era passata, tutti più o meno vi aveano acquistato i loro gradi. Egli no; e ciò gli cuoceva. E se ne spassionava con me. Mi venne, allora, in testa questa idea che gli comunicai:
— Senti Grandoni. Vi son tutti questi reduci sbandati i quali anelanti di far qualcosa, senza guida, senza disciplina, senza responsabilità, possono esser dannosissimi alla nobile nostra causa ed a loro stessi. Perchè non cerchiamo di farne un battaglione, del quale tu potresti essere il capo e tener bene tutta questa gente in mano?
Piacque questo discorso alla sua ragione non meno che alla sua ambizione. E subito si mise all’opera radunando i suoi futuri militi. Le riunioni si facevano nella platea del teatro Capranica. I più violenti dei reduci, però, non la intendevano affatto di essere messi a freno dal Grandoni; e decisero di disfarsene. Io ne fui avvisato da un mio cucino, Cesare Chiappi.
Consigliai subito al Grandoni di andarsene da Roma almeno per tre giorni. In questo mentre si poteva accomodar la cosa, promettendo promozioni di grado, con prospettive di rivolgimenti, con denaro e libagioni alle Teste d’Argento. Così chiamavansi quei ragazzi svelti di mano.
La cosa ebbe buon esito. Grandoni tornò e venne eletto colonnello ed elessero me maggiore. lo, però, non accettai. Poi, trattandosi di un sol battaglione, si trovò che non c’era posto per un colonnello. E così Grandoni venne fatto maggiore del Corpo dei Reduci.
L’uniforme di questo corpo era una corta tunica grigio-ferro, pantaloni uguali, cinturone di cuoio ed in testa un piccolo bonetto. Pareva che in quell’uniforme vi fosse una minaccia di triste fatalità.
Presto vedemmo come Grandoni, spinto soltanto da vana ambizione, da pettegolezzi di farmacia e di caffè, non sarebbe capace di tener a freno quegli ultimi discendenti dei Romani, dalle congiure dissennatamente feroci.
In quei giorni spesso avean luogo minacciose dimostrazioni, al fine di strappar concessioni di libertà al Papa Re. Una se ne fece, ed armata, al Quirinale il 16 novembre; non vi mancava l’artiglieria poichè alcuni andarono a prendere cannoni alla prossima Pilotta.
Mentre un gruppo di dimostranti più decisi voleva ad ogni costo entrar nel palazzo papale al Quirinale, il pittore Galli, fratello di questo nostro Galli vivente ora in Roma, strappò l’alabarda dalle mani dello svizzero di sentinella. Uscita fuori tutta la guardia, riuscì a chiudere il portone. Ma subito da una parte e dall’altra si cominciò a sparare; gli svizzeri sparavano dalle inferriate che danno sulla piazza.
Un bellissimo giovane, certo Selvaggi, era là con la miccia accesa, pronto a dar fuoco al cannone puntato contro il portone del Quirinale. Sopraggiunsero in tempo Federigo Torre e Cortesi comandante della Guardia Civica di Trastevere con parecchi trasteverini, fra i quali ero io. Ed un po’ con le buone un po’ con la forza, impedimmo che quel colpo partisse. Altrimenti il portone sarebbe stato sfondato, ed avremmo avuto la disgrazia di annoverar nuovi martiri della Chiesa.
Passando per viuzze traverse, io andai alla estremità del Quirinale dalla parte delle Quattro Fontane. E, mentre cercavo di salire sul campanile di San Carlino, vidi frettolosamente discendere un certo Neri, il quale apparteneva alle Teste d’Argento, dicendo:
— E uno!... E uno!
Che cosa era accaduto?
Che, essendosi monsignor Palma affacciato ad una delle finestre del palazzo al tumulto che era nella via, il Neri con una fucilata lo aveva freddato.
Mi sono trovato presente alla morte di Pellegrino Rossi. Ed ecco per quale caso.
Già dalla sera avanti si sentiva per i crocchi un tristo mormorio, che faceva presagire tempesta.
Il Grandoni, anzi, mi disse che quei tali svelti di mano si erano la sera precedente adunati in un’osteria; e che esso avea potuto afferrar delle mezze parole di malo augurio per il ministro Rossi, il quale dovea, il giorno appresso, andar alla Camera per pronunciarvi un discorso col quale avrebbe conciliato Italia e Libertà col Papato.
Quegli adunati, ragazzi assai pericolosi, erano: i Neri, Costantini, Mecoccetto, Gigi Ciceruacchio, Toto Ranuzzi, Trentanove ed altri, tutti, o quasi, del battaglione dei Reduci. Perciò Grandoni mi pregava di andare con lui alla Cancelleria — dove si adunava la Camera — per vedere di impedire ogni assai probabile eccesso.
Difatti andammo. E dopo essere stati su a vedere la sala ove la Camera si adunava, scendemmo. Mentre ci dirigevamo al portone per uscir davanti al palazzo si intesero voci gridare:
— Ecco Rossi!... Ecco Rossi!... Morte a Rossi!...
Era una caterva dei Reduci che ho detto, i quali indossavano la «panuntella» — così scherzevolmente chiamavasi la divisa del lor battaglione — che, precedendo la carrozza del ministro, ci respinse dentro. Appena la carrozza si fermò nel cortile più voci gridavano:
— L’infame!... L’infame!...
Aperto lo sportello discese subito Pellegrino Rossi — lo vedo ancora — col viso calmo e sorridente, lievemente scuotendo un sottile bastoncino. Appresso a lui Righetti. Quando vidi che gli si serravano addosso e che uno dei Reduci gli dava un colpo al fianco destro con l’elsa della daga, gridai forte:
— L’assassinio è un’infamia!...
AI colpo Rossi si volse vivamente a destra. Così presentò la carotide al designato per ammazzarlo, Gigi Ciceruacchio. Il quale lo colpì; mentre Mecoccetto alzando un mantello lo copriva.
Pellegrino Rossi stramazzò.
E Grandoni a gran voce:
— Ah! Birboni che l’hanno ammazzato!... Guarda che fontana di sangue!...
Allora quelli dei congiurati che al mio grido di riprovazione si erano volti su di me con i pugnali alzati, si volsero contro Grandoni, il quale continuava a strillare come un porco lattante separato dalla madre. Io, allora, lo presi per mano e gridai concitato a costoro:
— È matto!... È matto!... .
Mentre mi allontanavo conducendo meco Grandoni che più non connetteva, vidi gli stessi congiurati i quali freddamente dicendo: — Non è niente!... Non è niente!.. —, con ostentata amorevole premura, sollevavano da terra il corpo dell’ammazzato e lo adagiavano sul primo pianerottolo dello scalone.
Io non ricordo più per qual via me ne andassi!
Credo Pellegrino Rossi sia stato vittima del comun odio di Gesuiti e di repubblicani, gli uni e gli altri aborrendo il papato liberale. Dicono che se il Rossi, quel giorno in cui fu morto, avesse pronunciato alla Camera il discorso preparato, avrebbe di certo vinto la causa della Libertà col Papato. E questo, concordi, non volevano i due estremi partiti.
Inorridito tornai a casa e feci a pezzetti la «panuntella».
Alla sera dell’uccisione di Pellegrino Rossi per il Corso ci furono grandi manifestazioni di gioia di Reduci e di popolani, i quali sollevavan fra le loro braccia uomini ignoti gridando e cantando:
Viva Bruto Secondo! |
Queste ed altre simili disgustose sconcezze cantava quella gente imbestiata. Ed il più orrendo fu che gli osceni dimostranti si spinsero ad urlare le loro feroci infamie fin sotto le finestre della dimora della vedova dell’assassinato, a gridarvi tutta la lor turpe gioia!...
Eran, quelli, tempi di libertà, di elezioni, con un popolo ineducato e di libertà indegno, che questa scambiava con la licenza, traviato e corrotto dalla adulazione di persone colte, le quali per le loro ambiziose mire ne ricercavano il suffragio. Nessuno più di me condannò quei feroci eccessi. Ma nulla fa specie quando il popolo in momenti di esaltazione, soffiato da uomini educati, ma rosi dalle loro brame e dai partiti, imbestialisce.
Ugualmente la plebe di Roma stessa nel 13 gennaio 1793. Ugo Bassville, segretario della Legazione francese in Napoli, era venuto a Roma allo scopo di fomentarvi segretamente la rivoluzione. Mentre usciva dall’Accademia di Francia, che era al palazzo Salviati sul Corso, con La Flotte, la moglie ed un bambino ed il segretario Duval, veniva investito violentemente dalla folla. Correndo la carrozza al palazzo Palombara all’Impresa, appena il Bassville ne discese si ebbe una pugnalata al basso ventre, di cui la sera appresso moriva. Ed il gran poeta Monti cantava:
Stolto che volli coll’immobil fato |
Modo, questo, di inneggiare all’assassino trattando di stolto l’assassinato.
Grandoni, rifatto animo dopo essersi salvato dal fiero incontro della Cancelleria, cieco e tronfio per avere un battaglione al proprio comando, faceva ben spesso sentire ai propri nemici politici che egli alla soppressione del Rossi non era estraneo. Al caffè di piazza di Pietra, che egli frequentava, non si riguardava di minacciar questi suoi nemici che pur eran stati suoi amici. E giungeva fino a dir loro:
— Badate!... Vi faccio far come a Pellegrino Rossi!...
In questo caffè praticava numerosa comitiva di signori amanti di caccia; i quali, benchè di principii politici diversi, si radunavano là per parlar della lor comune passione venatoria.
Eran fra costoro il marchese Lepri, gli Evangelisti, Ingami, Galletti e molti e molti altri; quivi andavo io pure, accompagnandomi non di rado con taluno di essi in campagna, non per cacciare ma per dipingere. A poco a poco questa compagnia di caffè andò diradandosi. Completamente vi scomparvero i sanfedisti, i quali se ne allontanarono covando odio contro il minaccioso Grandoni.
Già siamo giunti al tempo della fuga di Pio IX a Gaeta, della decisione della Costituente, della proclamazione della Repubblica Romana, della spedizione contro questa deliberata dalla Repubblica Francese sotto la presidenza di Luigi Napoleone Bonaparte.