Roma italiana, 1870-1895/Il 1875
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Il 1875.
L’anno che nasceva era stato dichiarato dal Papa in un’enciclica «Anno santo» e istruzioni erano state inviate ai vescovi, per indurre i fedeli a recarsi numerosi a Roma, e usufruirvi della remissione dei peccati.
Ma prima che i pellegrini potessero rispondere all’appello del Vaticano, venne a Roma Garibaldi, che non vi era più stato dal 1849. Egli vi giunse da Caprera, per la via di Civitavecchia, il giorno 25 di gennaio. Il Municipio e la Guardia Nazionale gli avevano preparato una accoglienza ufficiale, ma l’entusiasmo del popolo fecela apparire meschina in confronto dell’altra. Quando il fischio della locomotiva si fece udire, dall’immensa calca di popolo adunato sotto la stazione e fuori, parti un lungo evviva, che continuò per alcuni minuti. Eugenio Anieni e l’on. Avezzana, presentarono al Generale, appena i gridi si furono alquanto calmati, Pietro Venturi, nominato sindaco in quei giorni, e altri sollevarono fra le braccia la piccola Clelia, figlia di Garibaldi, affinché egli potesse baciarla. Garibaldi vestiva il mantello bianco, la tradizionale camicia rossa e il berretto turchino ricamato d’oro; scese dal compartimento, e appoggiato al braccio di Menotti e di Basso, traversò lentamente la folla per giungere alla carrozza del municipio, che lo attendeva. Questa era circondata da un’onda di popolo, che staccatine i cavalli, diedesi a trascinarla. Erano nella carrozza Basso, Bedeschini e Luigi Belardi; a cassetta Napoleone Parboni e Galiano; la precedevano alcune bandiere delle Società Operaie. Garibaldi di tanto in tanto si alzava per ringraziare.
La carrozza pesante avanzava lentamente fra la folla percorrendo piazza di Termini, via Santa Susanna e via San Nicolò da Tolentino. Garibaldi doveva andare al palazzo di via delle Coppelle, dove abitava Menotti, e dove è stata per tanti anni la direzione del Popolo Romano, ma quando giunse sotto l’Albergo Costanzi, che ora è trasformato in Seminario dei Gesuiti, il Generale dette ordine di fermare, per risparmiare ai popolani una inutile fatica. Prima di scendere ringraziò la folla e questa ognor più entusiasta, riprese a gridare e invase il cortile dell’Albergo. Garibaldi allora prese la parola e con quella voce forte, e dolce a un tempo come carezza, disse: «Certamente l’onore che mi fate e superiore ai miei meriti. Vi ringrazio immensamente della dimostrazione che mi fate. Nel trovarmi in mezzo a voi rammento il periodo patriottico e glorioso del 1849. Raccomando a tutti la calma più completa e l’ordine, giacchè ogni disordine sarebbe per me un gran dispiacere».
Prima che Garibaldi potesse scendere occorsero vari minuti, e dopo sceso, volgendosi alla folla plaudente disse: «Siate serii; occorrono fatti e non parole».
Una volta nel quartiere, che li per li eragli stato assegnato, il generale dovette presentarsi al terrazzo e raccomandò di nuovo al popolo di serbar l’ordine e di sciogliersi con calma.
Un’ora dopo riceveva la Giunta, che gli era presentata dal Sindaco, e gli esprimeva quanto contento provava Roma nell’accoglierlo fra le sue mura. Garibaldi rispose enumerando gli avvenimenti che gli rendevano cara Roma, e parlando dei lavori che occorrevano. Dopo la Giunta ricevé pure varie deputazioni, fra cui quella del 5° collegio. Garibaldi aveva rinunziato a questo collegio optando per il 1°, e in sua vece, contro Giuseppe Luciani, era stato eletto il conte Giacomo Lovatelli, di parte moderata. Il conte guidava la deputazione composta dei signori Nizzica, Cavallini, Acquaderni e Cruciani.
Nella serata Garibaldi era andato ad abitare in casa del figlio Menotti, e nelle prime ore della mattina seguente fece un’escursione a Monte Mario, uscendo da Porta Angelica, e tornando da Porta del Popolo. Dal belvedere del Tivoli, che il Pescanti vi aveva costruito per servire ai Romani di luogo di diporto, Garibaldi guardò con il canocchiale tutti i punti importanti di Roma, che gli ricordavano un tempo di guerra e di gloria, e disse: «A Roma ci siamo e ci resteremo. Lo ha detto il Re e per me mi basta, perché è un galantuomo».
Il momento più memorabile del soggiorno a Roma del Generale, fu il suo ingresso alla Camera. Si discuteva l’interpellanza Cairoli sugli arresti di Villa Ruffi, quando egli comparve nell’aula da una delle porte che mettono ai banchi di sinistra, accompagnato da Cairoli, Avezzana, Sesmit-Doda, Salvadore Morelli e Macchi. In quella Assemblea, già distratta dall’attesa, scoppiò un applauso immenso, che partiva dalle tribune, e poi un evviva sonoro. La dimostrazione fu ripetuta dai deputati, che si alzarono tutti. Allora il Presidente lesse la formola del giuramento: «Giuro di esser fedele al Re, di rispettare le leggi dello Stato e di esercitare lealmente le mie funzioni di deputato nel solo scopo inseparabile del bene del Re e della patria».
Garibaldi si alzò lentamente, si tolse il berretto e disse a voce alta: «Giuro!»
Quella parola solenne aveva un alto altissimo significato. Ribadiva il patto del 1860, il sacro motto della sua bandiera: «Italia e Vittorio Emanuele», e l’assemblea lo capi, perchè saluto il giuramento con un lunghissimo applauso. Tutta la Camera era profondamente commossa e dai banchi e dalle tribune il grido di «Viva Garibaldi!» fu più volte ripetuto.
Cairoli riprese a svolgere la sua mozione e Vigliani e Minghetti gli rispondevano. Garibaldi dopo aver deposto il suo voto in favore di quella mozione di biasimo al Governo, uscì dall’aula. La mozione fu respinta con 111 voti di maggioranza.
Una visita che al Generale riusci molto gradita, fu quella dei generali Cosenz, Dezza e Medici, suoi vecchi compagni d’armi. Quest’ultimo era il primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele da molto tempo, e la sua visita aveva una doppia importanza. Garibaldi ebbe pure la visita della Giunta Provinciale e del Presidente della Camera, al quale disse che era commosso dall’accoglienza fattagli e lo pregò di dirlo ai deputati.
Dopo una gita a Frascati, nella quale fu ospite del signor Felice Ferri, ed ebbe nuove dimostrazioni dalla cittadinanza, Garibaldi andò al Quirinale. Ve lo condusse il general Medici nella sua carrozza particolare, insieme con Menotti. Sulla porta della Reggia, moltissimi ufficiali dell’esercito, che avevano combattuto con Garibaldi, gli fecero ala e lo acclamarono.
Garibaldi scese, aiutato dai generali Dezza e Medici, e fu introdotto nel quartiere del Re a pian terreno del palazzo, e venne subito ricevuto.
Quando Vittorio Emanuele e Garibaldi si videro, salutaronsi con effusione di vecchi amici separati da lungo tempo. Garibaldi presentò Menotti al Re, il quale dissegli: «Ci siamo già visti nel 1859, quando venne a Brescia al quartier generale con una lettera di suo padre»
Il Re fece entrar Garibaldi nel suo studio e rimase a parlare con lui più di venti minuti; non fu parlato di politica; il discorso si aggirò sui lavori del Tevere e sulla bonifica dell’Agro Romano, che formavano il pensiero costante del Generale.
Terminato il colloquio, il Re aprì la porta e chiamò Menotti, perché andasse ad aiutar suo padre ad alzarsi, e quindi accompagnò Garibaldi alla porta della sala. Tutti e due erano commossi, tutti e due erano lieti di essersi riveduti a Roma, tutti e due capivano l’importanza che aveva il fatto della loro riunione in quell’antico palazzo dei Papi.
Garibaldi si trasferì alla villa Severini, ma anche là era assediato di visite. Vi andarono il Presidente del Consiglio, il ministro Saint-Bon e il Sella, ripetutamente, per discutere del disegno rispetto ai lavori del Tevere, e alla bonifica dell’Agro Romano. Garibaldi voleva che alla confluenza dell’Aniene col Tevere si scavasse un canale che giungesse al mare, per dare a Roma maggiore importanza, e assicurarle maggior commercio, e che intorno alla città si bonificassero subito vaste estensioni di terreni. Il Sella caldeggiava quei lavori, ma non ne vedeva l’urgenza. Secondo lui, prima che Roma prendesse un grande sviluppo, bisognava costruire le case per accogliere la nuova popolazione. Per questa divergenza d’idee il Sella ricusò di entrare nella commissione che nominava Garibaldi per discutere quegli studi, ma le promise il suo appoggio.
Garibaldi andò in Trastevere, alla Piazza di Sant’Apollonia, nella sala elettorale del 5° collegio, per ringraziare gli elettori, e sedutosi in mezzo a Cairoli, a Fabrizi, a Coriolato e ai notabili del rione, svolse l’idea che gli martellava il cervello, quella dei lavori del Tevere e dell’Agro Romano. Il Trastevere fecegli una bella dimostrazione.
Un pranzo gli offrirono pure le Società Operaie di Roma, al Corea. Vi andò accompagnato dal Sindaco e da Menotti. Camminava a stento con le stampelle, e salito sul palco disse:
«Figli del popolo! io mi sento fortunato di essere oggi fra voi, anch’io figlio del popolo. Sapete che ho viaggiato molte regioni del mondo e posso dirvi che gli uomini dalla destra incallita trovano ovunque lavoro e pane.
«In America su cento emigrati, novantanove operai trovano lavoro; mentre dieci letterati sono costretti a dividere un tozzo di pane con essi. Anch’io sono stato operaio, ho lavorato molto. Oggi però, affranto dagli anni, non posso più lavorare.
«Ascoltate però un consiglio da questo povero vecchio: Fate i vostri figli operai; è un consiglio che vi dà un amico dell’anima.
«Il fabbro-ferraio educhi il proprio figlio allo stesso mestiere; i Re di Francia di un tempo educavano i propri figli al lavoro, all’arte.
«So che desiderate da me qualche altra spiegazione, ed io ve la do, benchè non sia un parlatore. Si dice da molti che l’operaio non deve immischiarsi nella politica: Questo è un principio falso. Politica vuol dire affare dei più. Noi, popolo, siamo i più, ed io vi esorto ad immischiarvi nella politica. Avete presente come quel benemerito cittadino di Benedetto Cairoli abbia presentato un progetto di legge per l’estensione del voto. Rendiamo omaggio al suo patriottismo e assicuratevi che quando il voto dell’on. Cairoli possa essere appagato, le cose andranno meglio, ma meglio assai.
«Un’altra cosa ho da dirvi. Vi si fa credere da molti che io sia meno rivoluzionario di quello che sono stato pel passato. Ciò è falso, falsissimo; io sono e sarò sempre rivoluzionario quando si tratti di cambiare dal male al bene.
«V’è ancora un’altra questione sulla quale voglio tenervi parola, ed è la questione religiosa. Io nutro per i Romani un affetto particolare. Si ricordino che si tratta di entrare in un terzo periodo della vita sociale: quello dalla menzogna al vero.
«Si ricordino i Romani come i loro antenati introdussero da principio l’incivilimento con le armi. Dipoi venne il Papato. E qui è giuocoforza il confessare, che sul bel principio il Papato fece del bene assai, ma oggi però ha fatto il suo tempo.
«Romani! la questione del Papato è una questione che deve marciar da sé. Si scioglierà da se stessa; con la violenza non mai.
«Non mi rimane ora che a ringraziarvi di cuore per avermi voluto presente a questa riunione.
«Romani! siate sagaci, grandi e fermi come gl’Inglesi, che non si sgomentano mai. Vi sovvenga che gli antichi Romani, vinti nelle terribili battaglie della Trebbia, del Trasimeno, di Canne, marciavano orgogliosi alla volta della Spagna e Annibale stava osservandoli dagli spalti delle mura di Roma.
«Non ho altro da dirvi».
Garibaldi, dopo di aver pronunziato questo discorso così conforme, rispetto alla questione del Papato, al programma del Governo di Vittorio Emanuele, si sedè e accettò una pasta e un mezzo bicchiere di Marsala. Dopo cinque minuti di raccoglimento, alzò il bicchiere e bevve a Roma «iniziatrice della fratellanza dei popoli». Mille voci risposero al brindisi, e quando stava per andarsene due cittadini gli presentarono il cappello, che portava nel lasciar Roma nel 1849.
In quel tempo i dolori artritici gli davano un poco di tregua, e Garibaldi ne profittava per uscire di frequente. Una mattina, invitato dal Sella e dal Breda, capo della società veneta, assuntrice dei lavori, andò a visitare il nuovo palazzo delle Finanze, che già aveva raggiunto il primo piano, e profittò anche di quella occasione per parlare dei suoi disegni di risanamento di Roma. Ho detto che quei disegni erano divenuti per lui un’idea fissa, ed è vero; ma in fondo a quell’idea c’era un desiderio potente di rigenerazione della città. Non avendo potuto rendere con le armi Roma all’Italia, ambiva di legare il suo nome a qualche grande opera di somma utilità per questa Roma, che aveva allietato di sogni gloriosi la sua giovinezza.
In quei giorni, più che di Garibaldi, si parlava a Roma del principe Torlonia. Egli aveva ottenuto il grande diploma d’onore a Vienna per le sue bonifiche, e lo Spaventa, ministro dei lavori pubblici, aveva fatto una gita in Abruzzo ed era rimasto meravigliato della grandiosità dei lavori compiuti. Silvio Spaventa ne riferì al Re, e fu stabilito di far coniare una medaglia d’oro al principe Alessandro Torlonia in memoria della grandiosa e filantropica opera compiuta da lui. Appena gli fu comunicato il decreto e consegnata la medaglia, il principe chiese un’udienza al Re. L’ottenne, e andò al Quirinale, ove Vittorio Emanuele lo trattenne lungamente, e seppe con quel linguaggio caldo, opportuno e sempre ispirato ad alti sentimenti, conquistare l’animo del patrizio romano. Erano due grandi intelligenze che si trovavano di fronte, e il Re intuì che di uomini come il principe Torlonia vi era necessità in Italia, per cooperare all’opera della grandezza materiale del paese, e seppe inspirargli quella fiducia nella propria lealtà d’intendimenti, nella propria forza, che ispirava a quanti lo avvicinavano.
Anche Garibaldi, dopo la visita al palazzo delle Finanze, andò dal principe Torlonia, che lo riceve con piacere, usandogli tutti i riguardi e facendolo entrare in una sala terrena par risparmiargli le scale. Il generale gli espose il grandioso disegno dei lavori del Tevere e del risanamento della campagna, al quale don Alessandro fece plauso, vedendo con piacere che gli uomini d’azione, cessata la necessità delle lotte cruente, si dedicavano all’opera filantropica di render l’Italia alla vera grandezza cui debbono aspirare le nazioni civili.
Il principe restituì, dopo poco volger di tempo, la visita a Garibaldi alla villa Severini, e i rapporti fra il primo difensore di Roma e il più grande fra i patrizi romani rimasero cordialissimi.
Garibaldi, dopo poco, andò ad abitare nella villa Casalini verso sant’Agnese, una villa comoda, circondata da un bel giardino, e con un quartiere per il generale tutto al pianterreno, dal quale godeva la vista della campagna con le sue linee larghe, solenni e calme. Il Municipio avevala posta a sua disposizione, ed egli avrebbe potuto godervi di una pace benefica, se non fosse stato assediato dai progettisti, che sapendolo infervorato da una grande idea, non gli avessero fatto ressa intorno per aggrapparsi al nome di lui e al prestigio di cui godeva.
Nella prima metà di febbraio comparve nella Gazzetta Ufficiale il seguente decreto che portava la firma di Vittorio Emanuele:
«Volendo che sia serbata memoria del felice prosciugamento del lago di Fucino, compiutosi durante il Nostro Regno, e nello stesso tempo volendo Noi attestare che quest’opera, desiderio di molti secoli, ed invano tentata da imperatori romani ed altri sovrani di tempi posteriori, devesi alla ferma volontà e alle cure del principe Alessandro Torlonia di Roma;
« Considerando quanto vantaggio apportino alle nazioni i lavori di bonificamento e di grande cultura intrapresi dal principe Torlonia nel prelodato bacino del Fucino ormai tramutato in territorio ferace a beneficio delle popolazioni circostanti e con utile delle nostre finanze;
« Sentito il Consiglio dei ministri; «Sulla proposta del Nostro ministro segretario di Stato pei lavori pubblici; «Abbiamo decretato e decretiamo:
«A cura del Nostro Governo sarà fatta coniare una medaglia a memoria del prosciugamento del lago di Fucino, opera compiuta da un italiano e di eminente vantaggio pubblico.
«Un esemplare in oro di detta medaglia decretiamo sarà presentato a Noi, ed altro sarà dato, in un col presente decreto, al principe Alessandro Torlonia, in attestato di pubblica benemerenza.
«Il Nostro ministro segretario di Stato pei lavori pubblici è incaricato della esecuzione del presente decreto»
A Roma, il decreto, preceduto dalle visite al Quirinale e alla villa Severini, produsse un grande effetto. I liberali gioirono, i papisti furono assaliti da un’ira immensa, che sfogarono nei giornali clericali.
Dopo la morte di monsignor De Merode, il partito del Vaticano era divenuto meno aggressivo, non sentendosi più aizzato alla pugna del battagliero ultramontano, ma in quella occasione i combattenti intinsero di nuovo la penna nel fiele e si scagliarono contro il principe Torlonia. L’Osservatore Cattolico di Milano fu il più violento, e a quel giornale rispose don Alessandro, facendo inserire la sua lettera nell’Opinione. Quella lettera parmi utile sia riportata qui, come nobile protesta contro le pressioni che si tentava di fare anche sugli animi dei più forti.
- «Signor Direttore,
«Mi è giunto sotto fascia il numero 39 dell’Osservatore Cattolico, giornale religioso e politico di Milano.
«Suppongo che mi sia stato inviato da Lei, ma comunque sia, siccome l’articolo inseritovi intestato: «La nobiltà romana ed il principe Torlonia» fa parte di detto giornale, così mi credo in dovere, per la mia dignità personale, d’invitarla ad inserire, in un primo numero di detto giornale, questa mia in risposta al citato articolo.
«Per prima cosa le faccio osservare, sig. Direttore, che se a Lei e ad altri è stato permesso di attaccarmi nel modo che si è fatto, lo devono alla libertà della stampa, libertà di cui si è abusato oltrepassandone i limiti; poichè se un pubblicista ha il mandato di trattare le questioni pubbliche e discutere sulle medesime ad ammaestramento del popolo, non ha però quello di.occuparsi della vita privata dei cittadini e censurarne a suo modo le azioni, e quando così agisce, scendendo nel campo privato, tradisce il suo mandato, merita disprezzo e non altro.
«Quando Ella scriveva il suo articolo, doveva considerare che se io sono il principe Torlonia, non cesso di essere un privato cittadino, indipendente ed estraneo del tutto a partiti ed a lotte politiche. Ella e qualche suo collega cercano di intimidire la mia coscienza.
«Vano proposito, signor Direttore; perchè io auguro a Lei e a tutti quelli che si sono permessi di far minaccie e profezie a mio danno, di sentirsi tanto tranquilli in coscienza quanto mi ci sento io, e che nel loro cuore nutrissero quei veri sentimenti cattolici che io mi fo un vanto di professare.
«In quanto poi ai confronti che le è piaciuto di fare, debbo dirle, per sua norma, che io per principio ho sempre agito ed agisco guidato dai miei sentimenti, senza seguire quello che fanno gli altri, e che nelle mie azioni ho sempre il movente di accattivarmi la stima delle persone dabbene, non curandomi del resto; ed io in ciò non mi tengo secondo ad alcuno.
«Cosicchè gli applausi che mi si promettono da qualche giornale, sia per istimolarmi ad andare avanti, sia per retrocedere su ciò che si sono immaginati, non valgono certamente a farmi rimuovere dal sistema da me adottato. Io non amo le esagerazioni, nè mi reputo da tanto da potere avere influenza in cose che punto da me non dipendono.
«Ella, per attenuare l’inqualificabile ed ingiusto suo modo d’esprimersi sul conto mio, cerca di contrapporre e far risaltare parte delle opere da me eseguite, come sarebbe il prosciugamento del Fucino, sulla quale opera confido in Dio onde disperda il poco caritatevole pronostico della fine del suo articolo. Parla quindi del lavoro che procuro al popolo, delle medicine che facevo dare ai poveri del rione Trastevere (doveva dire facevo e faccio), del mio nome scritto su molte lapidi dell’Eterna Città, degli alabastri che adornano il tempio del Gesù, ed infine dice che in difficili momenti per la Santa Sede concorsi generosamente a ristorarne le finanze, che una congiura monetaria era sul punto di rovinare, eppoi aggiunge che io debbo tutto al Pontefice. Mi permetta che le faccia osservare che in queste sue parole, che ho letteralmente riportato, Ella si trova in una manifesta contradizione, come ci si trova quando mi fa un addebito per essere stato a ringraziare il re Vittorio Emanuele, per una distinzione che ha voluto usarmi, nel quale mio atto se è del tutto estranea la politica, non lo sono certo né il dovere, nè la più assoluta convenienza.
«Ella mi fa pure un addebito per avere ricevuto il generale Garibaldi. Riguardo a ciò mi è d’uopo dirle che quando dei ministri e dei diplomatici sono stati da Lui, senza che sia a mia conoscenza che Esso sia stato da loro, e quando Esso non si è presentato che al Re, e quindi a me, mi usava un riguardo che io certamente non potevo disprezzare. Se Ella crede che la disparità dei principi debba far commettere inciviltà, è padrone di credere come le pare, ma io non divido la sua opinione.
«Con quanto precede ho risposto alle osservazioni che a Lei è piaciuto fare a mio carico. Ora aggiungo che per principio sono nemico di polemiche; ma siccome prevedo il caso che forse si rinnovino osservazioni a mio carico, sia da parte sua, sia di altri divenuti talmente stucchevoli da fare profezie e minaccie, insultando così coloro che non credono essere del proprio colore ed innalzando quelli per i quali scrivono; cosi, se questo caso si presentasse, dichiaro colla presente che intendo di aver risposto a chiunque è piaciuto e piacesse ancora criticare il mio modo di agire, minacciare e profetizzare. Assicuro poi si Lei che tutti i detti signori, che se mi si presentassero occasioni eguali a quelle che mi si sono presentate ultimamente, tornerò a fare ciò che ho fatto, convinto come sono della regolarità del mio modo d’agire, e dell’approvazione di persone collocate in un grado molto superiore al loro.
«La invito di nuovo ad inserire in un primo nuniero del suo giornale questa mia, e la riverisco.
A Garibaldi durante questo soggiorno a Roma non mancò nessun onore. Anche il Principe Reale andò a visitarlo, e il Municipio fecegli coniare una medaglia d’oro a perpetua memoria della difesa da lui fatta della città nel 1849.
E non solo tutti gli italiani andavano a riverirlo, ma anche gli stranieri, ai quali esponeva i suoi disegni di lavori. Un certo signor Potter, inglese, andò a visitarlo e dopo averlo ascoltato, disse che il canale del Tevere doveva portare il nome di Garibaldi; «No, di Vittorio Emanuele» rispose il generale.
Un gran desiderio di pace gli era entrato nell’anima dopo il suo arrivo a Roma vedendosi circondato dal rispetto degli uomini appartenenti a tutte le frazioni del partito liberale. Egli non si stancava di raccomandare la calma e l’ordine e ogni dimostrazione lo turbava, perchè temeva che terminasse con qualche disordine. Anche verso Pio IX non aveva nessun risentimento e si vuole che un giorno guardando il Vaticano, dicesse: «Povero vecchio! È dal 1870 che non si muove di là; lasciamolo in pace».
Insisto appunto nel registrare queste manifestazioni pacifiche di Garibaldi, questa grande indulgenza che dimostrava per tutti, anche per Achille Fazzari, col quale si riconciliò e che un tempo credeva lo avesse abbandonato, anche per la Francia che gli si era mostrata così poco riconoscente, perché ritengo che solo i caratteri veramente grandi si facciano con l’età così mansueti e dolci, mentre quelli meschini e cattivi acquistano maggiore acrimonia.
Garibaldi non era più tornato alla Camera, ma vi torno per appoggiare i disegni di legge sulla marina, presentati dal ministro Saint-Bon, per il quale aveva amicizia sincera e grande stima.
Quando il generale entrò nell’aula, il ministro appunto dimostrava la necessità di disfarsi delle vecchie navi. Garibaldi si alzò, sorretto dagli amici, si tolse la papalina, che il presidente gli aveva permesso di tenere, e sedutosi di nuovo, disse rivolto a Saint-Bon:
«Mi associo interamente al suo duplice progetto. Per me vendere le navi inservibili è la cosa più logica del mondo. Credo l’on. Ministro della marina l’uomo il più competente in questa materia, poiché io, quantunque vecchio marinaio, confesso di non conoscere quali sono le condizioni delle nostre navi.
«Mi associo pure, come già dichiarai, al secondo progetto del ministro, quello di costruire delle corazzate potenti come si fa in Inghilterra, in Germania, in Russia e in America.
«Noi, quasi isolani, abbiamo bisogno di potenti navi per proteggere le nostre coste e principalmente le nostre principali linee ferroviarie, le quali sono quasi tutte litoranee. In questo credo debbano convenire tutti i nostri onorevoli colleghi. Ho finito (Applausi; si alza per uscire)».
Dopo queste parole, dopo l’esposizione chiara, eloquente che il ministro aveva fatto dei suoi criteri sulla quistione di rifare la marina, dopo l’appoggio datogli dal de Amezaga, altro valente MARGHERITA DI SAVOIA marinaro, la Camera approvò le leggi proposte dal Saint-Bon. È bello l’esempio del vecchio condottiere, infiacchito dagli anni e dai disagi, che ritrova l’antica energia per difendere le idee di un giovane e ardimentoso ministro, che condannava alla distruzione tutto un naviglio, credendolo insufficente ai bisogni del paese, per crearne uno nuovo.
Il Presidente del Consiglio torna da Garibaldi e vi torna il Sella, vi torna il Depretis, presidente della Commissione nominata dal generale, e parlando lungamente con Garibaldi riesce a convincerlo che le sue idee sono troppo vaste, e troppo alte le sue mire per poter essere sollecitamente attuate, che occorre contentarsi di meno. Del resto i tecnici del municipio e del ministero interrogati sul disegno del Canale, lo avevano respinto, dimostrando che avrebbe impoverito d’acqua il Tevere e che quell’impoverimento poteva esser nocivo, specialmente nell’estate.
Garibaldi intanto aveva annunziato il prestito mondiale dei 100 milioni per le spese, e avrebbe anche trovato i capitali dagli americani e sarebbe riuscito a costituire una società, se a quella si fosse accordato un diritto di imposta su tutti i bastimenti che fossero entrati nel nuovo porto. Questa proposta non era accettabile; gli amici del Generale vollero che il progetto fosse attuato con danaro nazionale e presentarono il disegno di legge alla Camera. Garibaldi andò il 26 maggio a svolgerlo ed era doloroso e commovente vederlo ritto sulle stampelle, sofferente, appena sorretto da un fil di vita, ma sempre saldo nel sostenere la sua idea generosa. Il progetto fu mandato agli uffici e ne fu relatore l’on. Fano. Però fu scartata l’idea del canale, difesa da Garibaldi, e venne stanziata la somma per i lavori in 60 milioni; 30 ne forniva il Governo e il rimanente era fornito dal municipio e dalla provincia.
Soltanto il nome di Garibaldi, che era legato al progetto, aveva potuto farlo discutere, altrimenti sarebbe rimasto a dormire lungamente, come molti altri, in mezzo a tante discussioni tempestose. Una violenta la promosse la sinistra sull’articolo 18 delle Guarentigie volendo dimostrare che lo Stato era disarmato di fronte alla Chiesa. Ma la più violenta fu quella per i provvedimenti eccezionali per la Sicilia, proposti dal Presidente del Consiglio. In quella discussione aspra, accanita nella quale il Tajani, già procuratore del Re a Palermo, fece gravissime rivelazioni sui funzionari di pubblica sicurezza, rivelazioni che portarono a ordinare una inchiesta, il Governo trionfo soltanto per 17 voti e non potè non accorgersi che perdeva piede specialmente sul terreno delle discussioni politiche.
Il ministro Ricotti condusse in porto la legge sulla difesa dello Stato, ridotta a esigue proporzioni, l’altra delle fortificazioni di Roma per proteggerla da un colpo di mano, e la legge sul reclutamento, ma a proposito di quella che stabiliva il servizio militare obbligatorio per tutti, i clericali si agitarono in ogni modo. Migliaia di petizioni giungevano al Re supplicandolo di non sancire la legge quando fosse sottoposta alla sua firma. Da Milano gli fu trasmesso un album corredato di 40,000 nomi. Il Re, che non faceva mai strappi allo Statuto, non rispose a nessuna di quelle suppliche, che venivano dai clericali sgomenti che i chierici e i seminaristi dovessero andare sotto le armi, come non aveva nel 1867 risposto alle tante suppliche che intercedevano per il mantenimento di questo o quel convento. Nel 1875 fece sapere a uno solo dei supplicanti che aveva trasmesso la domanda al Presidente del Consiglio, e nulla più.
Il Re in quell’inverno rimase molto più a Roma e non solo faceva frequenti gite a Castel Gandolfo, ove aveva comprata la Villa Torlonia, e a Castel Porziano, ma, cosa strana, assisteva talvolta anche ai ricevimenti che davano il mercoledi i Principi Reali e andava spesso all’«Apollo», al «Valle» e specialmente al «Politeama Romano», ov’era quasi sempre la compagnia equestre Ciniselli.
Il Re assisteva sempre alla messa la domenica, non al Sudario, ma in una cappella alla Villa Ludovisi, che aveva in affitto fino che non fosse terminata la villa Potenziani fuori di Porta Salara.
Nonostante le commedie alla Villa Massimo, recitate dalle due Lavaggi, da donna Flaminia Torlonia, da donna Maria di Gallese e da molti giovinetti del patriziato, e i ricevimenti in casa Pallavicini e alla Legazione di Prussia, dove andavano i Principi Reali, il carnevale non fu molto brillante. Poche mascherate, poco brio, poco concorso di signore. Quelle baldorie incominciavano a noiare, qui come erano già venute a noia nel resto d’Italia. L’arrivo della giovine Corte e di tanta gente da altre provincie, aveva infuso al carnevale una vita fittizia per quattro anni, passati i quali ritornava a languire. Nuovi bisogni e più seri distraevano Roma da quelle baldorie a epoca fissa. La più bella festa di quell’anno fu data dai Teano, una festa in costume, alla quale intervenne il principe Umberto, vestito da Carlo Emanuele I, insieme con i suoi ufficiali d’ordinanza nel costume di gentiluomini piemontesi di quel tempo. La Principessa Reale era vestita come la sua antenata, la celebre Margherita di Savoia. Intervennero alla festa tutte le dame del patriziato, che non portavano lutto per la prigionia del Papa, e tutte le mogli dei ministri stranieri, non esclusa la marchesa di Noailles, che abitava al palazzo Farnese.
Il duca di Sermoneta in quell’inverno fece di nuovo parlar di sè. Egli era andato a stabilirsi a Firenze e alla sua tarda età riprese moglie.
Anche il principe Doria si ritirò dalla vita pubblica, dando le dimissioni da Senatore del Regno. Quell’atto servì in certo modo di compenso al dolore cagionato al Papa e ai clericali dal principe Torlonia.
Pio IX non era punto pago; i cattolici non rispondevano come egli avrebbe voluto, all’invito di venire a Roma per usufruire delle indulgenze bandite in occasione dell’Anno Santo; venivano i pellegrini, ma scarsi, e fra di essi nessun personaggio di molto conto. Per allettarli a venire in febbraio scende nella Basilica di San Pietro, dopo un ricevimento; ma ne fa chiudere le porte per dimostrare la sua sovranità. Il Papa non era più sceso nella Basilica dal 19 settembre 1870 e quel fatto menò rumore e si credè che fosse l’inizio di una rinunzia alla prigionia volontaria, ma non fu così.
Le inaugurazioni non mancarono. Si ebbe quella dell’Istituto per i ciechi «Margherita di Savoia» al quale il municipio aveva concesso un locale nelle Terme Diocleziane ov’è ancora. La Principessa, che erasi tanto adoprata per vederlo sorgere, volle inaugurarlo e fu ricevuta e guidata nella visita dal Duca di Fiano, che ne era presidente. Quell’istituto è tuttora uno dei meglio regolati e dei più provvidamente benefici, che sia a Roma, ove la beneficenza è così estesa.
Alla Principessa fu pure ceduto il convento di S. Rufina in Trastevere per istituirvi la scuola, che porta il nome di lei, ed alla quale ella in parte provvide. Fondare ricoveri, aprire scuole nei quartieri più popolati, promuovere l’istruzione della donna, dando tutto il suo appoggio alla Scuola Superiore Femminile alla Palombella e all’istituzione, che le era sorta a fianco, ecco la cura costante della Augusta Signora nella sua prima giovinezza, cura di cui non si è mai stancata. Ella è costante nel fare il bene, come è costante nei propositi e negli affetti, e per questo Roma non si stanca di amarla e benedirla.
Il 6 marzo fu inaugurato il tempio massonico in via della Valle. I lavori erano stati eseguiti dall’ingegnere Landi. Naturalmente si attendeva Garibaldi, ma egli aveva avuto una ricaduta e si fece rappresentare da Menotti. Presiedeva la festa il Grande Oriente d’Italia, Giuseppe Mazzoni, e fu fatta fra i numerosissimi intervenuti da ogni parte del mondo, una colletta a benefizio dell’Istituto dei ciechi, patrocinato dalla principessa Margherita.
Per quell’occasione Ulisse Bacci e Castellazzo avevano dettata una poesia, che fu messa in musica dallo Swicher ed eseguita dai cantanti dell’«Apollo», Ernesto Niccolini ed Emma Wiziack. Una strofa della cantata diceva:
«Qui l’uman genio si feconda, e l’ali |
Quel primo tempio massonico era molto modesto in confronto della bella sede che ebbe poi al palazzo Poli, e che ha adesso al palazzo Borghese, ma per chi conosce l’odio che hanno sempre avuto in Vaticano per la massoneria, capirà quanto dovesse riuscir doloroso di vedere che essa si stabiliva pubblicamente a Roma.
Il dolore per l’inaugurazione del tempio massonico fu anche maggiore di quello che i clericali risentivano vedendo sorger tante chiese protestanti. Ve n’era una Scozzese e una Presbiteriana fuori di Porta Flaminia, una Valdese in via delle Vergini, ove il pastore Ribetti richiamava sempre un numeroso uditorio, una alla Scrofa di evangelici Wesleiani, una in piazza San Silvestro, che credo appartenesse alla cosidetta chiesa Alta Inglese, una di Battisti in piazza San Lorenzo in Lucina, e pertutto si predicava il Vangelo e si raccomandava la lettura della Bibbia. Ma, ripeto, il dolore maggiore era prodotto dal vedere la massoneria pubblicamente istituita.
La sera del 9 febbraio Roma fu sgomentata da un atroce delitto che ebbe conseguenze inattese. Ho avuto più volte occasione di parlare di Raffaele Sonzogno, che il 20 settembre era venuto a Roma conducendo dietro a sé la redazione, i tipografi e perfino le macchine per istampar subito un giornale. Quel giornale, nato il 21 settembre, si chiamava La Capitale ed ebbe una influenza non buona. Battagliero era il proprietario, e tutti i malcontenti, i ribelli per istinto gli si aggruppavano intorno. Era stata La Capitale che aveva portato su Giuseppe Luciani e sostenendolo a spada tratta, avevalo fatto entrare per pochi giorni alla Camera. Negli ultimi tempi aveva preso a biasimare i miti sentimenti di Garibaldi, censurandolo per essere andato al Quirinale, e si mostrava più garibaldino del generale.
La Capitale aveva gli uffici in Via de’ Cesarini e Raffaele Sonzogno era solo in ufficio. A un tratto dalla tipografia, che era al pianterreno, lo udirono gridare chiedendo aiuto. Accorsero e lo trovarono morente; egli non ebbe tempo di profferir parola prima di morire. L’assassino fu arrestato subito; era un certo Pio Frezza.
Sul subito si credè che l’uccisione fosse conseguenza di qualche vendetta politica. I fratelli dell’ucciso vennero da Milano, gli fecero fare solenni funerali; all’accompagnamento funebre parteciparono i direttori e i redattori di molti giornali ed era ancor vivo l’orrore per il truce fatto, quando si sparse per Roma la notizia dell’arresto di Giuseppe Luciani e di molti altri complici. Ma il Luciani era il personaggio più noto. Si rammentavano di lui molte cose non belle: l’aggressione contro il direttore del Fanfulla, che non volendo chiedergli soddisfazione con le armi dopo udito il verdetto di un giurì d’onore, l’aveva deferito al tribunale; il suo teatrale ingresso a Roma; l’influenza nefasta esercitata qui per cinque anni e molte altre cose ancora.
Egli fu arrestato al ritorno di un viaggio a Torino e non gli si permise altro che dopo molto tempo di conferire con il suo avvocato; ricorse in Cassazione contro la sentenza della Sezione d’accusa, per guadagnar tempo, e il ricorso fu respinto. Un gran mistero avvolgeva questo processo, che andò per le lunghe e dava campo alle più strane supposizioni.
Queste non si chiarirono altro che quando il processo venne alla Corte d’Assise di Roma il 20 ottobre. Gl’imputati erano: Giuseppe Luciani, Michele Armati, Luigi Morelli, Cornelio Farina, Pio Frezza e Salvatore Scarpetti, tutti romani. Ma il primo era il triste eroe del dramma sanguinoso, benchè le sue mani non fossero lorde di sangue. Egli comparve sul banco degli accusati bello ancora di quella fatale bellezza, che non aveva avuto poca parte nella sua breve fortuna. Vestiva con eleganza, aveva al solito i lunghi baffi biondi arricciati, teneva una gamba sull’altra, e col cilindro si batteva il ginocchio, mentre studiavasi di tenersi più che poteva discosto dai suoi complici, come se sdegnasse con essi qualsiasi contatto, anche materiale.
Il Luciani, soldato valoroso nel 1866 e 67, decorato della medaglia al valor militare, corrispondente della Gazzetta del Popolo di Torino, amico di persone d’illibata onestà, intelligente, bello, elegante, facondo, era un affascinatore, e anche colpito dall’accusa tremenda, di avere armato la mano dell’assassino Frezza per disfarsi di un antico amico, trovò ardenti difensori, come il Bottero, direttore appunto del suo giornale.
Le rivelazioni dei complici furono un fatto provvidenziale. Se non fosse stato scoperto, il Luciani sarebbe, nelle nuove elezioni tornato a Montecitorio, ove avrebbe, aiutato dall’audacia e dal fascino che possedeva, esercitato il suo fatale ascendente sull’assemblea.
Il Luciani sconta ancora la sua colpa all’ergastolo e non mi piace di tessere dopo vent’anni la storia di quel processo, che appassionò tanto gli animi non solo a Roma, ma anche a Torino e a Firenze, dove moltissimi avevano conosciuto il triste eroe.
La sua condanna, ripeto, fu provvidenziale, perchè trattenne molti incauti dal legarsi di amicizia con persone di cui non conoscevano nè il passato, nè i mezzi di sussistenza, perchè sfato altre reputazioni basate soltanto sul falso patriottismo acquistato in momenti in cui si badava più al numero che alla qualità dei difensori di una causa giusta, perchè mise in guardia il pubblico contro i parolai ambiziosi e i propugnatori d’idee sovversive. Difatti in vent’anni nessuno ha osato raccogliere la triste eredità di Giuseppe Luciani, dell’uomo che voleva salire ad ogni costo al potere con qualunque mezzo.
L’Imperatore d’Austria e l’Imperatore di Germania restituirono le visite al nostro Re, ma non vennero a Roma, come si era sperato. Il primo andò a Venezia in primavera; il secondo nell’autunno a Milano e anche adesso si fa un addebito al Minghetti e al Visconti-Venosta di avere accettato che le visite fossero restituite fuori della Capitale, specialmente quella dell’Imperatore d’Austria.
Considerando spassionatamente quel fatto, bisogna riconoscere che Francesco Giuseppe, nonostante che avesse per cancelliere il conte Andrassy, che spingeva l’impero austro-ungarico su una via di ostilità contro la Santa Sede, non sarebbe potuto venire a Roma senza far visita al Papa e a questa visita si opponevano ragioni di convenienza verso la nostra Corte. L’imperatore Guglielmo, impegnato nel «Kulturkampf», neppure poteva andare in Vaticano in quel momento, e venendo a Roma senza andarvi, avrebbe inasprito la lotta fra il suo Governo e i cattolici. Del resto la sua tarda età e la salute cagionevole, scusavano che egli limitasse il viaggio a Milano. Roma ne fu dolente, ma non offesa, e il Consiglio Municipale, su proposta di Guido Baccelli, che nelle elezioni parziali era entrato a farne parte insieme col Menabrea, con don Maffeo Sciarra, col Ranzi, col Lorenzini e con altri, proponeva che fosse mandato il seguente telegramma al Presidente del Consiglio, telegramma che fu difatti spedito:
«Il Consiglio Municipale di Roma nella prima tornata della nuova sessione, confermando il voto già emesso dal Sindaco per mezzo del Ministro di Germania, signor von Keudell, prega V. E. a farsi interprete presso le LL. MM. il potentissimo Imperatore di Germania ed il nostro magnanimo Re, dei sentimenti di esultanza, di devozione e di riconoscenza ispiratigli dal fausto avvenimento, che suggella la nobile e fida amicizia fra le due nazioni.
«Desidera anche sia espresso, il sentimento che, ore fosse possibile, Roma sarebbe stata ben lieta di accogliere ed ospitare il primo Imperatore di Germania entro le sue storiche mura».
Le faccende del municipio camminavano male e il Sella si adoprò molto per ricondurle su una via meno disastrosa. Egli dimostrò che imprevidenti erano state le deliberazioni d’incominciare a costruire su tanti punti diversi, dove prima non si erano assicurati centri di richiamo di popolazione. Propose che per il momento si destituisse il pensiero di promuovere i quartieri di Testaccio, Viminale e Prati, e si limitassero le spese a quelli del Castro Pretorio, dell’Esquilino e della via Nazionale. Egli propugnò la creazione dei mercati e delle case a buon prezzo per far diminuire il caro dei viveri e degli affitti. Il Consiglio Comunale lo ascoltò. Si mise mano ai lavori del penultimo tronco della via Nazionale, facendo un appalto col Moroni per sei milioni, si sciolse la Guardia Nazionale, che era un onere, si votarono notevoli economie e così alla fine del 1875 il disavanzo era molto minore, benchè il Governo, avesse nel rinnovare il contratto con il municipio, aumentato il canone del dazio-consumo.
L’istruzione non soffrì di queste economie, perchè si assegnarono migliori locali alle scuole, si crearono quelle Froebeliane, si inaugurò il Convitto Provinciale nel palazzo del Clementino, e la Lega per l’Istruzione, fondata da Biagio Placidi, e il comitato di Trastevere le dettero potente impulso. Nel «Politeama Romano» vi fu anzi una bella festa nella quale vennero distribuiti libretti della Cassa di Risparmio ai migliori alunni e libri di lettura; i cittadini avevano a proprie spese provveduto le somme necessarie.
Il Bonghi aveva con un progetto di legge provveduto alla creazione della grande biblioteca, che fu in seguito istaurata nel Collegio Romano, col nome di Vittorio Emanuele. Il Minghetti con diversi progetti di legge, aveva quasi raggiunto il pareggio nel bilancio, benchè avesse proposto di stanziare un concorso governativo di nove milioni per dar principio ai lavori del Tevere, sgombrando prima l’alveo del fiume e rettificandone il corso verso San Paolo.
Roma in quell’anno aveva veduto adunato nelle sue mura il IV congresso delle Camere di Commercio, che prese importanti determinazioni, e per meglio provvedere ai bisogni agricoli aveva trasportato da Valmontone alla villa Corsini il Podere con l’annessa scuola agraria, di cui tanto si occupava il conte Guido di Carpegna.
Il concorso dei pellegrini per l’Anno Santo, non era stato quale avevalo sperato il Papa, il quale protrasse a tutto il 1876 la remissione dei peccati per i cattolici che fossero venuti a Roma.
La Chiesa perdè tre cardinali: il Borelli, il De Silvestri, veneto, uomo mite e simpatico, che aveva donato al municipio di Padova la casa ove nacque il Petrarca e aveva, come protettore della chiesa di San Marco, rivendicato invano dall’Austria il diritto di abitare il palazzo di Venezia, e il Nobili-Vitelleschi, inalzato alla porpora due mesi prima insieme con l’Antici-Mattei, il Randi, già ministro di polizia, e il Pacca.
Nonostante gli sforzi del Minghetti per mantenere al suo partito il potere, i giorni del governo della Destra erano contati. Il Nicotera dava al suo partito un forte ordinamento e il Depretis pronunziava il celebre discorso, conosciuto nella storia politica italiana col nome di «Programma di Stradella». Eliminato dal partito l’elemento radicale, che prese per organo il Secolo, la Sinistra si faceva più forte ogni giorno, e il Nicotera fondava a Roma il Bersagliere, che fu per diversi anni, il giornale rappresentante delle sue idee e di quelle della Sinistra costituzionale.
La Camera prese in quell’anno le vacanze presto, senza discutere la convenzione di Basilea, conclusa dal Sella per il riscatto delle ferrovie dell’Alta Italia.
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