Rosmonda/Atto IV
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ATTO QUARTO.
SCENA PRIMA
Alvida e Stenone.
Stenone. E mi deludi?
E schernirmi non cessi? Io ti disciolsi
Le catene dal piede e tu mi fuggi?
Alvida. Ma non facesti il più. Vile, codardo,
Passasti ancora di Rosmonda il seno?
Mostrami il ferro di quel sangue tinto,
Indi chiedi al tuo amor premio e mercede.
Stenone. Poche ore son da che mi desti, Alvida,
Il comando inumano. Io trovai sempre
Custodita Rosmonda.
De’ custodi l’aspetto? Avesti cuore
Di sciogliere i miei lacci ad onta loro,
E temerai la più leggera impresa?
Stenone. Ma il re stesso la guarda, il re che l’ama.
Alvida. Nè il re devi temer.
Stenone. Ah! ingrata, il veggo,
Tu vuoi la morte mia.
Alvida. Vendetta io voglio;
Chi non osa tentarla è mio nemico.
Stenone. Crudel, t’abbonirò. Ma tu frattanto
Vuoi qui sola restar? Se la tua fuga
Germondo penetrò, nuove catene
Temi e più forti ancor. Senza il mio braccio
Per te scampo non veggo. Andiamo, Alvida,
Fuor della reggia; in più sicura parte
Celati al re sdegnato.
Alvida. A te non caglia
Più della vita mia che del mio cenno.
Vanne; corri a svenar la mia nemica.
SCENA II.
Cratero, soldati e detti.
Contro il nostro buon te tentar osasti?
Chi ti trasse da’ lacci?
Stenone. Io le disciolsi
Quelle ingiuste catene.
Alvida. A me nemico
Il germano si mostra?
Cratero. Allor che sei
Traditrice, t’abbono. Io non conosco
Il sangue tuo, se lo rendesti oscuro.
Cratero. Io non procuro
La pena tua, nè il tuo perdono imploro.
Salvati se lo puoi; ma non sperare
Ch’io secondi il tuo scampo.
Stenone. Alvida, (oh Dei!)
Non isdegnar ch’al tuo fuggir sia scorta
Il brando mio.
Alvida. Ma t’affatichi in vano,
Ma stancarmi pretendi. Ho da ridirti
Ciò ch’io voglio da te? La tua lentezza
Di codardo t’accusa, o menzognero.
Stenone. Vado, crudel, sarai contenta, avrai
Due vittime al tuo sdegno, e col mio sangue
Terminerai di satollar tue brame. (parte
SCENA III.
Alvida e Cratero.
Da te imploro, german. Son rea, gli è vero,
Ma tuo sangue son io. Fu amore alfine
Che m’indusse all’eccesso. Amo Germondo,
Mi disprezza l’ingrato. Ah! chi potrebbe
D’un vilipeso amor frenar lo sdegno?
Deh Cratero, pietà.
Cratero. Pietà non merti,
Ma negarla non so. Soldati, a voi
Consegno Alvida. In custodita parte
Sia celata per ora al regio sdegno.
Alvida. (Concedetemi, o Dei, tanto di vita
Quanto basti a veder le mie vendette).
(parte fra soldati
SCENA IV.
Cratero, poi Rosmonda.
Quanto strane follie! Tu l’ire accendi,
Tu le paci scomponi, animi i vili,
Avvilisci gli audaci, opprimi in seno
Le più belle virtù; sai di sedurre
Tutte l’arti più scaltre, e a chi si fida,
Lieta pace prometti e guerra apporti.
Di due giovani amanti, oh! come bello
Sembri, amor, fra le labbra! Oh! qual rassembra
Esser debba felice il caro nodo
Di que’ due ch’in due petti hanno un cuor solo!
Ma cambiato d’amanti in quel di sposi
L’uso, il nome, il desio, la confidenza
Degenera in disprezzo e spesso in odio,
Chè i difetti celati uso discopre,
E le fiamme consuma il tempo edace.
Cotesto è il fin di chi d’amor si pasce;
Io di lui non mi pasco, anzi l’abborro.
Rosmonda. Ah dimmi per pietà, Cratero amico,
Il genitor che fa? Vive? Respira?
O trafitto morì?
Cratero. No, no, Rosmonda,
Vive il tuo genitor; ma fra catene
Langue per tua cagion.
Rosmonda. Per sua cagione
Peno misera anch’io. La sua fierezza
Esser cruda mi fa contro me stessa.
Ma lieta soffro ogni tormento in pace,
Se il padre mio la mia costanza approva.
Cratero. Per poco ancora soffrirai dal crudo
Sì disumana legge.
Cratero. Superati dal sangue i giusti affetti
(Che non durano eterni), a nuova vita
Ti trarrà la sua morte.
Rosmonda. Ah, non fia vero!
O tu menti, Cratero, o nel mio seno
Con più salde radici amor s’imprime.
Ma deh! potessi rivederlo almeno.
Tu al carcere mi guida, io ti scongiuro
Per i numi del ciel.
Cratero. Tra pochi istanti
Qui lo vedrai, se di vederlo hai brama;
Eccolo fra custodi; a lui favella
Pria ch’il re te lo vieti, e quei momenti
Che cortese ti dona il fato amico,
Usa cauta in tuo prò. Placa l’altero,
Modera il suo furor. Piangi, sospira,
Ch’inutil non sarà forse il tuo pianto. (parte
SCENA V.
Rosmonda, poi Alerico fra guardie.
D’alzar le luci a rimirarlo in volto.
(si trattiene alquanto in disparte
Alerico. Oh crudeli del fato aspre vicende!
Io re possente, io genitor felice,
In un sol dì perduti ho figli e regno?
Perdite dolorose, ambe possenti
Ad avvilire il cor più saldo e forte.
E un gran bene il regnar: mirar soggetti
Gli uomini al suo voler, che per natura
Eguali sono al re. Dispor col cenno
Del destin de’ mortali; e se non puote
Al lor poter nel far felice altrui.
Ma qual maggior felicità d’un padre
Che l’immagine sua miri ne’ figli
E di viver in essi invan non speri
Anche dopo di vita il giorno estremo?
Empia, cruda fortuna! Ah mi privasti
D’ogni ben, d’ogni speme; indi aggiungesti,
Alle perdite mie non preveduto
Il tormento maggior. Rosmonda infida,
Termina di punirmi. Ah figlia ingrata,
I tradimenti tuoi, le tue menzogne
Mi penetran nel cor. Serbar la vita
Al nemico Germondo il giorno istesso
Che giuri a me di procurar sua morte?
Oh! tradita natura... Ahimè, che osservo!
Qui la sleal? Vien ella forse armata
D’altri esecrati inganni? O vien l’audace
Fiera ministra al genitor di morte?
Occhi miei, non mirate il truce aspetto.
Tu resisti, mio core, all’empie voci.
Rosmonda. (Ahimè, che fiero sguardo! Ahimè! qual lampo
D’improvviso terror gettommi in faccia?
Mi scoprì, non mi parla). (da sè
Alerico. (Il suo rimorso
L’avvilisce, l’arresta. Ah che nel volto
Scritta è la colpa sua). (mirandola sott’occhio
Rosmonda. Padre...
Alerico. T’accheta,
Questo nome sì sacro, alma spietata,
Non pronunziar mai più.
Rosmonda. Che mai ti fece,
Stelle! la figlia tua?
Alerico. Barbara figlia!
Rosmonda. Barbara a me? Ma in che t’offesi? Io chiamo
Tutti i numi del ciel.
Alerico. Tradisti il padre,
E orror non senti a profanar gli Dei?
Rosmonda. Ma qual colpa, signor?...
Alerico. Per tuo rossore
Odila, scellerata. Il ferro io porsi
Alla destra d’Alvida; ella dovea
Dell’odiato Germondo in sen vibrarlo.
Tu, perfida, svelasti il grand’arcano,
Tu serbasti da morte il mio nemico.
Che risponder potrai? Celar non giova
L’amor tuo pertinace. Invan pretendi
All’indegna passion cangiar aspetto.
Me tradisti ed Attilio. Ecco il tuo fallo,
Ecco la colpa tua. Dillo tu stessa
Se sia giusto il mio sdegno, e se potrai
Dall’offeso mio cor sperar perdono.
Rosmonda. Padre, nol niego. Io dalle man d’Alvida
Tolsi il reo ferro. Un tradimento enorme
Fu impedito da me...
Alerico. Perfida, iniqua!
Tradimento l’appelli?...1 Scellerata!
T’odio, t’abborro, ti vorrei distrutta,
Annichilata... indegna!... (con impeto d’ira
Rosmonda. Il tuo furore
Modera un sol momento, e le mie voci
Prima di condannarmi odi pietoso.
Più rimedio non v’è; morir dobbiamo,
Onde pria di morir, tutto il mio core
Vengo, padre, a svelarti. Ancora in petto
Serbo l’antica fiamma. Io per Germondo
Ardo ancor, non lo niego. Egli mi parla
Dolce così, così pietoso è meco,
Che tutti vince i più sublimi eroi;
E tu stesso lo sai; tu che ne avesti
Cotante prove un dì. La vita, il regno
Non offre a te della mia destra in prezzo?
Qual più dell’amor suo sicura prova
Darci potea? La spada sua mi porse,
Il sen mi presentò. No, non poss’io,
Padre, con chi m’adora esser ingrata.
Alerico. Troppo dicesti tu; troppo io soffersi.
In faccia mia del mio nemico i vanti
Rammentar non paventi? Olà, raffrena
La sacrilega lingua, empia, mendace.
Rosmonda. Dissi; ma tacqui il più. Finora udisti
Dell’amante le voci; ascolta, o padre,
Della figlia gli accenti. Il sangue sparse
Del mio german, del figlio tuo trafitto,
Questo re di Norvegia; egli è nimico
Di te; tanto mi basta, ond’abbia in petto
A chiuder il mio foco ed a vestire
Di sdegno atroce la pietà, l’amore.
Ei desia le mie nozze, e invan le spera.
Pria che porger la destra al mio nemico,
Tutto il mio sangue io spargerò dal seno.
Alerico. Chi l’amante o la figlia in te ravvisa?
Del tuo perfido cor ebbi le prove,
Ma la virtù solo col labbro ostenti.
Rosmonda. Oggi vedrai, se all’amor mio prevalga
La mia fortezza. Oggi vedrai, s’io sappia
Senza oltraggiar il genitor, l’amante,
Ad entrambi serbar l’amor, la fede.
Con la mia morte priverò Germondo
Della spoglia più cara, e il tristo dubbio
Toglierò dal tuo cor. Che maggior prova,
Padre, ti poss’io dar del mio rispetto?
Soddisfar al mio sdegno, allor che porti
Nella tomba un amor di te non degno,
Odio vogl’io da te. Vuo’ ch’abborrito
Sia da te di colui perfino il nome,
Che orma non resti dell’immago odiata
Nel tuo cor avvilito, e allor potrai
Sperar ch’io t’abbia a richiamar mia figlia.
Rosmonda. Questo è troppo voler. Sai che talvolta
Arbitri non siam noi de’ propri affetti.
Alerico. Può ragion regolarli.
Rosmonda. Ed io finora
Feci con la ragion forza a me stessa.
SCENA VI.
Stenone con seguito, e detti.
Per trafiggerle il sen.) (da sè
Alerico. Vassallo infido, (a Stenone
Dimmi, a che vieni?
Stenone. A custodir Rosmonda,
A toglierla da te.
Rosmonda. Chi ciò t’impone?
Stenone. Germondo, il nostro re.
Alerico. Perfido, indegno!
E da qual fera mai tanta apprendesti
Orrenda infedeltà? Me non conosci?
M’abbandoni, m’offendi e mi dileggi?
Stenone. Finchè tu fosti re, fui tuo vassallo,
Ora del nuovo re vassallo io sono.
Questo è l’uso comun. Dall’uomo saggio
S’adora il sol nascente; ed è ben stolto
Quel che segue il destin degl’infelici.
Stenone. Soldati, a voi,
Custodite Rosmonda; il re l’impone.
SCENA VII.
Germondo e detti.
D’assicurar la principessa?
Stenone. (Oh stelle!
Che risponder non so). (da sè
Rosmonda. Crudel Germondo,
Vuoi fra lacci il mio piè?
Alerico. Da un re tiranno
Altro non puoi sperar.
Germondo. Lo giuro ai numi,
Non fu mio questo cenno; e tu, Stenone,
Parla; chi te l’impose?
Stenone. (Amor m’assisti). (da sè
Se non fu cenno tuo, tua brama almeno
Interpretare e prevenir intesi.
Alerico non può che nella figlia
Fomentar nuovi sdegni, e nel sottrarla
Da quel ciglio crudel credei servirti.
Deh! mio re, se ti spiacqui...
Germondo. Amico, un’opra
Grata al mio cor tentasti. Il sol pensarla
Merta grata mercè.
Stenone. (Segui fortuna
Il mio disegno a secondar). Cotesta
L’opra sola non è che di mia fede
Esibirti vogl’io. Di Gotia al regno
Non è ignoto il mio braccio, e se non sdegni
Me fra’ seguaci tuoi...
Fidati pur. Per mia vendetta il cielo
Facciati riposar ne’ suoi consigli.
Stenone. Ecco il barbaro re; vorria crudeli
Tutti i sudditi suoi.
Germondo. Comprendo i moti
Dell’acceso suo cor.
Stenone. So che non suole
Preceder al servir premio o mercede,
Ma in tua bontà, ma in tua pietà fidando,
Grazia a te chiederò.
Germondo. Chiedila; io tutto
Soglio a tutti donar.
Stenone. Perdon imploro
D’Alvida al fallo. Ella sarà mia sposa
Se l’approvi, signor.
Germondo. Viva, e sia teco;
Se tua sposa la brami, a te la dono.
Stenone. Grazie alla tua pietà.
Germondo. Vedi, Alerico,
Quanto facile i’ sono a usar clemenza.
Morto Alvida mi volle: io le do vita;
Morto tu mi volesti, e ancor v’è tempo
Di pietà, di perdon.
Alerico. Pietà, perdono
Chieda chi è vil, non chi riserba in petto
D’Alerico il gran core.
Rosmonda. (Avverso fato,
Vuoi due vittime ancor del sangue nostro).
Germondo. Alerico, non più; troppo t’abusi
Della mia tolleranza. E chi mai fora
Atto a soffrir il tuo furore insano?
Giunta è l’ora fatal. Per questo solo
Qui ti feci condur: qui dove Attilio
Forse m’ascolta; e in testimon lo chiamo
Ferì l’orgoglio tuo di mia pietade.
Le leggi offese, l’amistà violata,
I neri tradimenti, i torti e l’onte
Fatte ad un re che la pietà profuse,
Reo ti fanno di morte. Io ti condanno.
Guizzi nel sangue suo la tronca testa.
Rosmonda. (Ahi sentenza crudel!) Germondo, osserva
In volto al padre mio...
Alerico. Taci, Rosmonda,
E se vuoi compensar le colpe andate,
Più non parlar. Lascia ch’a morte io vada.
Germondo. Stenon, vanne a Cratero. A lui fia noto
Ch’è mio voler che qui muoia Alerico;
Ei destini il ministro al fatal colpo.
Stenone. Obbedito sarai. (parte co’ suoi soldati
SCENA VIII.
Germondo, Rosmonda, Alerico.
Al carcere di nuovo. Ivi l’ingrato
All’ultim’ora si prepari. Eppure
Credimi, principessa, ancor io sento
Pietà di te nel condannarti il padre.
Rosmonda. Ah crudel, mi deridi...
Alerico. Il cenno mio
Non trasgredir. Soffri, Rosmonda, e taci.
Germondo. Io deriderti? Ah! no. Vedi s’io t’amo;
Vedi, bell’idol mio, se il ver ti dico.
V’è ancor tempo, Alerico. Ancor potrebbe
Rivocarsi il decreto. Ah cauto pensa,
Fin ch’hai tempo a pensar. Sarebbe ancora
Opportuno al tuo fato il pentimento;
Pensa a ciò che cedendo acquistar puoi.
Hai desio di regnar? Ti cedo il regno.
Brami la libertà? Sciolgo i tuoi lacci.
Di vittorie sei vago? Eccomi teco.
Vuoi compensar del figlio tuo la morte?
Sia mia Rosmonda, e ne’ suoi figli avrai
Rinnovato il tuo sangue. Ardeti in seno
Desio di gloria? A superar te stesso
Ammaestra il tuo cor, le andate cose
Spargi d’oblio. Che più bramar potresti?
Che più darti poss’io?
Alerico. Tutto il tuo sangue.
Germondo. Barbaro, discortese, il sangue mio?
Inesorabil, fiero!... Or va, mi scordo
D’ogni tenero amor, detesto, abborro
La stolta mia pietà... Mori... Custodi,
Quel superbo togliete agli occhi miei.
Alerico. Grazie, o Giove supremo. E giunto alfine
L’ultimo de’ miei mali. Non fui sì lieto
Quando la prima volta ascesi il trono.
Nume ch’al cielo e al basso mondo imperi,
Accogli un voto mio, l’ultimo, il solo
Che fervido t’indrizzo. Alla mia morte
Succeda quella di colui che abborro.
Sparga da più ferite il sangue infame,
E tutte provi quelle pene orrende
Ch’a me fece provar la sorte ingiusta.
(parte fra custodi
SCENA IX.
Rosmonda e Germondo.
Germondo. Non più. La mia pietade
È inutile col padre, ed il tuo pianto
Il perfido, l’iniquo... e tu, Rosmonda?
Ah tu sei giusta, sì... ti leggo in volto
Che tu stessa il condanni entro al tuo core.
Eh finisca una volta il furioso
Vecchio le sue follie. Mora. Tu il soffri;
Cangierà la sua morte il tuo costume.
Piangerai, ma non sempre, e forse forse
Accuserai la mia lentezza in torti
Il nemico più fier della tua pace. (parte
SCENA X.
Rosmonda sola.
Di natura la legge e troppo care
Del decoro mi son le sante leggi
Per lasciarmi sedur da un folle amore.
È tiranno, egli è ver, ma è padre mio
L’autor di mie sventure. Amo pur troppo,
Ma vantar non poss’io, senza avvilirmi,
Una fiamma ch’offende il patrio cenno.
Come? Estinto mio padre avermi spera
Men nemica Germondo? Invan lo spera.
Mi potrebbe tradir la debolezza
Del sesso e del mio cor, ma da un periglio
Che costarmi potria vergogna eterna
Io sottrarmi saprò con la mia morte.
Sì, si mora. Perduto il padre, il regno,
La speranza, l’amor, la pace, il tutto,
E inutile la vita. A miglior uso
Impiegar non potrei l’ultimo giorno
Del viver mio, quanto a morir gloriosa.
Fine dell’Atto Quarto.'
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- ↑ Nel testo unico dell’ed. Zatta è stampato rappelli.