San Pantaleone/La morte di Sancio Panza

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LA MORTE DI SANCIO PANZA.



Quando entrò Donna Letizia tenendo l’infermo su le belle braccia carnose con un’attitudine di misericordia lacrimevole, tutte le figlie accorsero a torno intenerite ed esalarono la gentil pietà dell’animo in querele gemebonde. Le voci femminili risonavano così nella stanza confusamente, tra i romori che dal traffico della strada salivano per le vetrate aperte; e al compianto delle fanciulle si mescevano in quel punto le interiezioni d’un cerretano magnificatore d’acque angelicali e di polveri mirifiche.

Il cane, su le braccia della signora, ebbe allora un lieve tremito che gli corse per tutto il dorso fino alla estremità della coda; tentò di sollevare le palpebre, di volgere alle carezze que’ suoi enormi occhi pieni di gratitudine. Moveva la testa in certi sforzi penosi, come se le corde del collo gli si fossero irrigidite; aveva la bocca semiaperta, [p. 141 modifica]da cui il lembo della lingua tenuta tra i due denti sporgenti usciva come una foglia vermiglia solcata di venature violacee. E una bava molle gl’inumidiva il mento, quella piccola parte della mandibola inferiore dove la rarezza dei peli lasciava apparire la pelle rosea. E la fatica del respiro a volte gli s’inaspriva in una specie di raucedine sibilante, mentre le narici d’ora in ora si disseccavano e prendevano l’aspetto duro e scabro di un tartufo.

‟Oh, Sancio, povero Sancio, che t’hanno fatto? Povero bibì, eh? Povero vecchio mio!...”

Le commiserazioni delle fanciulle sensibili si facevano via via più tenere, finivano in un balbettío pargoleggiante di parole senza significato, di suoni lamentevoli, di lezi carezzevoli. Tutte volevano passar la mano su la testa dell’animale, prendere una delle zampe, toccare le narici. Donna Letizia sorreggeva il dolce peso maternamente; e le sue dita grasse e bianche, di cui le falangi parevano gonfie quasi per un morbo, le sue dita vellicavano pianamente il ventre di Sancio, s’insinuavano tra il pelo.

Nella stanza entrava la luce del pomeriggio e il fresco della marina, a traverso le tende verdognole. Otto stampe colorite, chiuse in cornici [p. 142 modifica]nere, adornavano le pareti coperte di una carta a fiorami gialli. Sopra un vecchio canterale del secolo XVIII, con la lastra di marmo roseo e le borchie di ottone, posava tra due piccoli specchi retti da sostegni d’argento un trionfo di fiori di cera in una campana di cristallo. Sopra il caminetto scintillava una coppia di candelabri dorati, con le candele intatte. Un automa di cartapesta, raffigurante un macacco in abito moresco, meditava immobile dall’alto d’uno di quei tavolini intarsiati che vengono di Sorrento. Molte seggiole con su fa spalliera vignette di favole pastorali, un canapè di stile Empire, due poltrone moderne, concorrevano alla discordia delle forme e dei colori.


Come l’infermo venne adagiato in grembo di una delle poltrone, ci fu nella stanza un intervallo di silenzio. Sancio si levò un momento in piedi tremando, si rigirò più volte cercando una positura meno dolorosa, nella irrequietudine della sofferenza, tentò di poggiare la testa su uno dei bracciuoli, si piegò su le gambe di dietro; stette così alfine con le palpebre socchiuse, respirando a fatica, come preso da una sonnolenza improvvisa. Su ’l petto largo la pelle abbondante gli faceva, con tre o quattro crespe, quasi una piccola gio[p. 143 modifica]gaja; sopra la collottola le crespe erano più grandi e più tonde; i lembi delle labbra ai lati della mandibola superiore pendevano flosciamente; e il povero animale aveva ora nella malattia quel non so che di grottesco insieme e di compassionevole che hanno gli uomini nani oppressi dall’adipe e dall’asma.

Le fanciulle dinanzi a quell’abbattimento restavano mute, invase da un rammarico immenso, colpite da un presentimento della sventura; poichè Sancio era stato per molti anni la loro cura amorosa, l’oggetto delle loro blandizie e dei loro vezzi, lo sfogo innocuo delle loro mollezze e delle loro tenerezze di adolescenti clorotiche. Sancio era nato e cresciuto nella casa: e con quelle forme tozze e pesanti di razza imbastardita, con quelle rotondità di bestia eunuca oziosa e golosa, a poco a poco aveva nelli occhi tondi uno sguardo pieno di umanità e di devozione; agitava vivamente il tronco della coda nelle ore di gioia, reggendosi su tre gambe sole e tutto raggomitolandosi con un singolare tremolio del pelame e trotterellando con la grazia d’un porcellino d’India in mezzo all’erbe primaverili.

I belli ricordi ora travagliavano li animi delle fanciulle. [p. 144 modifica]

‟E il medico quando viene?” chiese, con la voce impaziente, Vittoria, la figlia minore; che aveva una faccia di giovine bertuccia, tutta bianca di cipria e su la fronte una larga frangia di capelli rossi.

L’infermo a tratti metteva una specie di gemito fioco aprendo li occhi e volgendo in torno lo sguardo supplichevole, uno sguardo lento e dolce, fatto più umano dall’increspamento nervoso delli angoli delle palpebre e da due linee brune che li umori sgorganti avevano segnato sotto le orbite. E come Donna Letizia tentava fargli prendere un cucchiaio di zuppa ristoratrice, egli agitava fuor della bocca la lingua flessibile in tutti i sensi per lo sforzo dell’inghiottire è non poteva chiudere le mascelle irrigidite.

Allora si udì nell’anticamera la voce del dottore Zenzuino che era finalmente salito. Ed entrò nella stanza un signore dalla bella faccia lucida di giovialità e di sanità.

‟Oh Don Giovanni, guarite Sancio! Sta per morire” esclamò una voce flebile.

Il medico guardò in torno tutta quella dolente famiglia che egli aveva nutrita d’arsenico, di ferro e d’olio ferruginoso e d’acqua di Levico per tanti anni in vano; ed ebbe un lieve lampo di sorriso [p. 145 modifica]a traverso li occhiali d’oro. Poi, osservando l’infermo con una curiosità d’uomo ricercatore, disse molto lentamente:

‟Credo sia un caso di paralisi della mandibola e delle glandole salivari sotto-mascellari. La malattia che ha sede in un’alterazione nervosa centrale probabilmente delle meningi e che per la sua eziologia può dipendere da una causa ereditaria parassitaria, è d’indole progressiva. Il processo che tende a diffondersi, andrà parzialmente e progressivamente privando il corpo, organo per organo, della sua funzionalità; finchè giunto in breve ad agire su ’l centro di una delle funzioni vitali, sia della circolazione che della respirazione, produrrà la morte....”

Le terribili parole barbare misero un’ambascia suprema nelli animi; e le guance floride di Donna Letizia in un momento impallidirono.

‟Io credo che abbia influito su lo sviluppo del morbo l’alimentazione,” soggiunse Don Giovanni, senza pietà.

A quella specie di accusa, il rimorso cominciò a tormentare le fanciulle che sempre per la golosità di Sancio erano state piene d’indulgenza colpevole. E Vittoria, con un atto di sconforto ineffabile, chiese: [p. 146 modifica]

‟Non c’è’ dunque rimedio?”

‟Tentiamo. Io consiglio l’applicazione di un cerotto vescicatorio alla nuca,” rispose il dottore licenziandosi in ultimo amabilmente.


Sancio voleva discendere dalla poltrona. Esitava su l’orlo, non avendo la forza di spiccare il salto, implorava l’aiuto con li occhi fievoli che già si velavano come due acini d’uva nera suffusi dalla pruina argentea della maturità. Ne’ suoi tratti il dolore a poco a poco metteva dei cavi e delle ombre senili; le tinte rosee del muso, dove i peli erano lunghi e radi, pareva si corrompessero divenendo quasi giallastre; le orecchie mozze avevano di tratto in tratto un tremolio leggerissimo; e nello stesso tempo un brivido passava a traverso il pelame bianco visibilmente.

Allora Isabella, la più eterea delle cinque fanciulle, che per crudeltà della sorte ereditava dal padre il pio naso borbonico e la fronte leprina, si accostò tutta commossa e prese l’infermo fra le mani delicate per posarlo a terra.

Sancio prima rimase fermo un istante, senza poter muovere i passi, con il dorso arcuato, e la testa in alto, oppresso dall’affanno del respiro; poi cominciò a trascinarsi, barcollando, con lo [p. 147 modifica]stento doloroso di un animale ferito alle due cosce. Forse aveva sete, perchè quando gli fu accostata la scodella tentò di lambire con la lingua il liquido. Ma, come la paralisi crescente già gl’impediva anche quell’atto, dopo sforzi inutili ed irosi egli volse piegando su le gambe posteriori e con una delle zampe davanti cominciò a battersi la mascella, quasi per rimuovere alfine di là quell’ostacolo che gli faceva tanto dolore.

E l’attitudine era così vivamente umana e li occhi erano così pieni di supplicazione e di disperazione umana, che d’un tratto Donna Letizia scoppiò in un pianto:

‟Oh, povero bibì! Chi te l’avesse mai detto, povero bibì mio!...”

In tutte le fanciulle la commozione raggiunse il supremo grado. Vittoria raccolse il morituro, lo portò su ’l canapè, chiese le forbici; era necessario un eroismo; bisognava infine esperimentare il rimedio, ad ogni costo.

‟Isabella, Maria, le forbici! Venite!”

Tutte trepide e pallide, si chinarono in torno a Sancio, che aveva di nuovo socchiuse le palpebre e alitava il fiato ardente nelle mani della soccorritrice. E questa, vinta la prima ripugnanza, cominciò a tagliare il pelo sulla nuca dell’animale, [p. 148 modifica]pianamente, arrestandosi di tratto in tratto, mettendo via via un soffio sulla parte rasa. Una specie di cherica irregolare si veniva allargando nella grassezza della collottola; e il tonsurato assumeva così un nuovo aspetto miserevolmente buffonesco. Le tende del balcone, investite dalla brezza, s’inarcavano come due vele. I clamori della strada salivano in confuso, vivi e giulivi; una prospettiva di case plebee s’intravedeva al fondo in una doratura pallida di tramonto; e un merlo fischiava.


Allora discese dalle camere superiori Natalia, la bella nuora di Donna Letizia, con un bimbo sulle braccia; ed entrò nella stanza. Ella aveva la faccia ovale, la pelle fine e rosea, solcata di vene, li occhi chiarissimi, le narici diafane, tutta in somma la dolcezza di sangue d’una donna bionda, tra una nera ribellione di capelli; e aveva nella persona, nelle vesti, nell’incedere, quella negligenza semplice, quella felice placidità quasi direi bovina, quella specie di freschezza lattea delle giovani madri che nutriscono con la propria mammella il figliuolo.

A pena ella vide il cane tonsurato, un impeto così spontaneo d’ilarità la invase, che non potè ritenere le risa entro la chiostra dei denti: [p. 149 modifica]

‟Ah, ah, ah, ah, ah!...”

Come? Natalia osava ridere, mentre quel povero Sancio moriva? — Le innupte sensibili volsero un acre sguardo d’indignazione alla cognata irreverente e crudele. Ma questa, con una lieta incuranza, si appressò per tendere il bimbo verso l’animale. E il bimbo seminudo agitava le piccole mani irrequiete, cercando toccare, tutto vibrando di naturale gioia e barbugliando suoni incomprensibili nella bocca rorida ancora della bevanda materna. E l’animale, uso già a sottomettere la testa mansueta a quei cercamenti, aveva ancora nelle membra inferme una esitazione di festevolezza e nelli occhi un supremo barlume di bontà conoscente.

‟Povero Sancio Panza!” mormorò alfine Natalia ritraendo il figliuolo che stava per bagnarsi di bava le dita. E, come il bimbo rincrespava le labbra per piangere, ella fece due o tre giri nella stanza, cullandolo e palleggiandolo; poi, fermatasi dinanzi all’automa, volse la chiave del meccanismo.

Il macacco aprì la bocca, battè le palpebre, attorcigliò la coda, tutto animandosi internamente al suono della gavotta Louis XIII, di Victor Felix. Quel voluttuoso ondeggiamento di danza [p. 150 modifica]d’amore moveva l’aria e la testa di Natalia, per ritmo. La luce nella stanza era dolce; il profumo squisito dei pelargonii entrava dai vasi del balcone aperto.

Sancio non udiva forse più. Al bruciore caustico del vescicante su la nuca, egli scoteva di tratto in tratto il dorso, e piegava la testa in basso, con un lamentio fievole. La lingua, ritirata fra i denti, violacea, quasi anzi nerastra, aveva già perduta ogni facoltà di moto. Li occhi, ora, coperti da una specie di membrana turchiniccia e umidiccia, non conservavano altra espressione di spasimo che quella dell’apparir rapido d’un lembo bianco alli angoli delle orbite. La bava si produceva più copiosa e più densa. L’asfissia pareva imminente.

‟Oh, Natalia, cessa! Ma non vedi che Sancio muore?” proruppe, con la voce piena d’acredine e di lagrime, Isabella.

La gavotta non si poteva interrompere prima che la forza data dalla chiave alla macchina fosse esaurita. Le note continuavano, lente e molli, a spandersi sull’agonia del cane. Le ombre del crepuscolo, intanto, cominciavano a penetrare nell’interno e le tende sbattevano nella frescura.

Allora, Donna Letizia, soffocata dai singhiozzi, [p. 151 modifica]non reggendo più allo strazio, uscì. Tutte le figlie la seguirono, a una a una, piangendo, con i teneri petti oppressi dal dolore. Soltanto Natalia per curiosità si fece da presso al moribondo.

E, mentre la gavotta era su la ripresa, il buon Sancio spirò, in musica, come l’eroe di un melodramma italiano.