San Pantaleone/Turlendana ritorna

Da Wikisource.
../La Contessa d'Amalfi

../La fine di Candia IncludiIntestazione 22 maggio 2016 75% Da definire

La Contessa d'Amalfi La fine di Candia

[p. 207 modifica]

TURLENDANA RITORNA.


La compagnia camminava lungo il mare.

Già pei chiari poggi litorali ricominciava la primavera; l’umile catena era verde, e il verde di varie verdure distinto; e ciascuna cima aveva una corona d’alberi fioriti. Allo spirar del maestro quelli alberi si movevano; e nel moto forse si spogliavano di molti fiori, poichè alla breve distanza le alture parevano coprirsi d’un colore tra il roseo e il violaceo, e tutta la veduta un istante pareva tremare e impallidire come un’imagine a traverso il vel dell’acqua o come una pittura che lavata si stinge.

Il mare si distendeva in una serenità quasi verginale, lungo la costa lievemente lunata verso austro, avendo nello splendore la vivezza d’una turchese della Persia. Qua e là, segnando il passaggio delle correnti, alcune zone di più cupa tinta serpeggiavano. [p. 208 modifica]

Turlendana, in cui la conoscenza dei luoghi per i molti anni d’assenza era quasi intieramente smarrita e in cui per le lunghe peregrinazioni il sentimento della patria era quasi estinto, andava innanzi senza volgersi a riguardare, con quel suo passo affaticato e claudicante.

Come il camello indugiava ad ogni cespo d’erbe selvatiche, egli gittava un breve grido rauco d’incitamento. E il gran quadrupede rossastro risollevava il collo lentamente, triturando fra le mandibole laboriose il cibo.

— Hu, Barbarà! —

L’asina, la piccola e nivea Susanna, di tratto in tratto, sotto li assidui tormenti del macacco si metteva a ragliare in suono lamentevole, chiedendo d’esser liberata del cavaliere. Ma Zavalì, instancabile, senza tregua, con una specie di frenesía di mobilità, con gesti rapidi e corti ora di collera e ora di gioco, percorreva tutta la schiena dell’animale, saltava su la testa afferrandosi alle grandi orecchie, prendeva fra le due mani la coda sollevandola e scotendone il ciuffo dei crini, cercava tra il pelo grattando con l’unghie vivamente e recandosi quindi l’unghie alla bocca e masticando con mille vari moti di tutti i muscoli della faccia. Poi, d’improvviso, si raccoglieva su ’l sedere, te[p. 209 modifica]nendosi in una delle mani il piede ritorto simile a una radice d’arbusto, immobile, grave, fissando verso le acque i tondi occhi color d’arancio che gli si empivano di meraviglia, mentre la fronte gli si corrugava e le orecchie fini e rosee gli tremavano quasi per inquietudine. Poi, d’improvviso, con un gesto di malizia ricominciava la giostra.

— Hu, Barbarà! —

Il camello udiva; e si rimetteva in cammino.

Quando la compagnia giunse al bosco dei salci, presso la foce della Pescara, su la riva sinistra (già si scorgevano i galli sopra le antenne delle paranze ancorate allo scalo della Bandiera), Turlendana si arrestò poichè voleva dissetarsi al fiume.

Il patrio fiume recava l’onda perenne della sua pace al mare. Le rive, coperte di piante fluviatili, tacevano e si riposavano, come affaticate dalla recente opera della fecondazione. Il silenzio era profondo su tutte le cose. Li estuarii risplendevano al sole tranquilli, come spere, chiusi in una cornice di cristalli salini. Secondo le vicende del vento, i salci verdeggiavano o biancheggiavano.

‟La Pescara!” disse Turlendana soffermandosi, con un accento di curiosità e di riconoscimento istintivo. E stette a riguardare. [p. 210 modifica]

Poi discese al margine, dove la ghiaia era polita; e si mise in ginocchio per attingere l’acqua con il concavo delle palme. Il camello curvò il collo, e bevve a sorsi lenti e regolari. L’asina anche bevve. E la scimmia imitò l’attitudine dell’uomo, facendo conca con le esili mani ch’erano violette come i fichi d’India acerbi.

— Hu, Barbarà! —

Il camello udì e cessò di bere. Dalle labbra molli gli gocciolava l’acqua abbondantemente su le callosità del petto, e gli si vedevano le gencive pallidicce e i grossi denti giallognoli.

Per il sentiero, segnato nel bosco dalla gente di mare, la compagnia riprese il viaggio. Cadeva il sole, quando giunse all’Arsenale di Rampigna.

A un marinaio, che camminava lungo il parapetto di mattone, Turlendana domandò:

‟Quella è Pescara?”

Il marinaio, stupefatto alla vista delle bestie, rispose:

‟È quella.”

E tralasciò la sua faccenda per seguire il forestiero.

Altri marinai si unirono al primo. In breve una torma di curiosi si raccolse dietro Turlendana che andava innanzi tranquillamente, non cu[p. 211 modifica]randosi dei diversi comenti popolari. Al ponto delle barche il camello si rifiutò di passare.

— Hu, Barbarà! Hu, hu! —

Turlendana prese ad incitarlo con le voci, pazientemente, scotendo la corda della cavezza con cui ora egli lo conduceva. Ma l’animale ostinato si coricò a terra e posò la testa nella polvere, come per rimanere ivi lungo tempo.

I plebei d’in torno, riavutisi dalla prima stupefazione, schiamazzavano gridando in coro:

‟Barbarà! Barbarà!”

E, come avevano dimestichezza con le scimmie perchè talvolta i marinai dalle lunghe navigazioni le riportavano in patria insieme ai pappagalli e ai cacatua, provocavano Zavalì in mille modi e gli porgevano certe grosse mandorle verdi che il macacco apriva per mangiarne il seme fresco e dolce golosamente.

Dopo molta persistenza di urti e di urli, alla fine Turlendana riuscì a vincere la tenacità del camello. E quella mostruosa architettura d’ossa e di pelle si risollevò barcollante, in mezzo alla folla che incalzava.

Da tutte le parti i soldati e i cittadini accorrevano allo spettacolo, sopra il ponte delle barche. Dietro il Gran Sasso il sole cadendo irradiava per [p. 212 modifica]tutto il cielo primaverile una viva luce rosea; e, come dalle campagne umide e dalle acque del fiume e del mare e dalli stagni durante il giorno erano sorti molti vapori, le case e le vele e le antenne e le piante e tutte le cose apparivano rosee; e le forme, acquistando una specie di trasparenza, perdevano la certezza dei contorni e quasi fluttuavano sommerse in quella luce.

Il ponte, sotto il peso, scricchiolava su le barche incatramate, simile ad una vastissima zattera galleggiante. La popolazione tumultuava giocondamente. Per la ressa, Turlendana con le sue bestie rimase fermo a mezzo il ponte. E il camello, enorme, sovrastante a tutte le teste, respirava contro il vento, movendo tardo il collo simile a un qualche favoloso serpente coperto di peli.

Poichè già nella curiosità delli accorsi s’era sparso il nome dell’animale, tutti, per un nativo amore delli schiamazzi e per una concorde letizia che sorgeva a quella dolcezza del tramonto e della stagione, tutti gridavano:

‟Barbarà! Barbarà!”

Al clamore plaudente, Turlendana, che stava stretto contro il petto del camello, si sentiva invadere da un compiacimento quasi paterno.

Ma l’asina d’un tratto prese a ragliare con sì [p. 213 modifica]alte ed ingrate variazioni di voci e con tanta sospirevole passione che un’ilarità unanime corse il popolo. E le schiette risa plebee si propagavano da un capo all’altro del ponte, come uno scroscio di scaturigine cadente giù pe’ i sassi d’una china.

Allora Turlendana ricominciò a muoversi attraverso la folla, non conosciuto da alcuno.

Quando fu su la porta della città, dove le femmine vendevano la pesca recente dentro ampi canestri di giunco, Binchi-Banche, l’omiciattolo dal viso giallognolo e rugoso come un limone senza succo, gli si fece innanzi, e, secondo soleva con tutti i forestieri che capitavano nel paese, gli offerse i suoi servigi per l’alloggiamento.

Prima chiese, accennando a Barbarà:

‟È feroce?”

Turlendana rispose che no, sorridendo.

‟Be’!” riprese Binchi-Banche, rassicurato,”ci sta la casa di Rosa Schiavona.”

Ambedue volsero per la Pescería e quindi per Sant’Agostino, seguiti dal popolo. Alle finestre e ai balconi le donne e i fanciulli si affacciavano guardando con stupore il passaggio del camello e ammiravano le minute grazie dell’asinetta bianca e ridevano ai lezi di Zavalì.

A un punto Barbarà, vedendo pendere da una [p. 214 modifica]loggia bassa un’erba mezzo secca, tese il collo e sporse le labbra per giungerla, e la strappò. Un grido di terrore ruppe dalle donne che stavano su la loggia chine; e il grido si propagò nelle logge prossime. La gente della via rideva forte, gridando come in carnovale dietro le maschere:

‟Viva! Viva!”

Tutti erano inebriati dalla novità dello spettacolo e dall’aria della primavera.

Dinanzi alla casa di Rosa Schiavona, in vicinanza di Portasale, Binchi-Banche accennò di sostare.

‟È qua,” disse.

La casa, molto umile, a un solo ordine di finestre, aveva le mura inferiori tutte segnate d’iscrizioni e di figurazioni oscene. Una fila di pipistrelli crocifissi ornava l’architrave; e una lanterna coperta di carta rossa pendeva sotto la finestra media.

Ivi alloggiava ogni sorta di gente avveniticcia e girovaga; dormivano mescolati i carrettieri di Letto Manoppello grandi e panciuti, i zingari di Sulmona, mercanti di giumenti e restauratori di caldaie, i fusari di Bucchianico, le femmine di Città Sant’Angelo venute a far pubblica professione d’impudicizia tra i soldati, li zampognari di [p. 215 modifica]mpognari di Atina, i montagnuoli domatori d’orsi, i cerretani, i falsi mendicanti, i ladri, le fattucchiere.

Gran mezzano della marmaglia era Binchi-Banche. Giustissima proteggitrice, Rosa Schiavona.

Come udì i romori, la femmina venne su ’l limitare. Ella pareva in verità un essere generato da un uomo nano e da una scrofa.

Chiese, da prima, con un’aria di diffidenza:

‟Che c’è’?”

‟C’è qua ’stu cristiano che vuo’ alloggio co’ le bestie, Donna Rosa.”

‟Quante bestie?”

‟Tre, vedete, Donna Rosa: ’na scimmia, ’n’asina e ’nu camelo.”

Il popolo non badava al dialogo. Alcuni incitavano Zavalì. Altri palpavano le gambe di Barbarà, osservando su le ginocchia e su ’l petto i duri dischi callosi. Due guardie del sale, che avevano viaggiato sino ai porti dell’Asia Minore, dicevano ad alta voce le varie virtù dei camelli e narravano confusamente d’averne visti taluni fare un passo di danza portando il lungo collo carico di musici e di femmine seminude.

Li ascoltatori, avidi di udire cose meravigliose, pregavano:

‟Dite! dite!” [p. 216 modifica]

Tutti stavano a torno, in silenzio, con li occhi un po’ dilatati, bramando quel diletto.

Allora una delle guardie, un uomo vecchio che aveva le palpebre arrovesciate dai venti del mare, cominciò a favoleggiare dei paesi asiatici. E a poco a poco le parole sue stesse lo trascinavano e lo inebriavano.

Una specie di mollezza esotica pareva spargersi nel tramonto. Sorgevano, nella fantasia popolare, le rive favoleggiate e luminavano. A traverso l’arco della Porta, già occupato dall’ombra, si vedevano le tanecche coperte di sale ondeggiar su ’l fiume; e, come il minerale assorbiva tutta la luce del crepuscolo, le tanecche sembravano materiate di cristalli preziosi. Nel cielo un po’ verde saliva il primo quarto della luna.

‟Dite! dite!” ancora chiedevano i più giovini.

Turlendana intanto aveva ricoverate le bestie e le aveva provviste di cibo; e quindi era uscito in compagnia di Binchi-Banche, mentre la gente rimaneva accolta innanzi all’uscio della stalla, dove la testa del camello appariva e spariva dietro le alte grate di corda.

Per la via, Turlendana domandò:

‟Ci stanno cantine?”. [p. 217 modifica]

Binchi-Banche rispose:

‟Sì, segnore; ci stanno.”

Poi, sollevando le grosse mani nerastre e prendendosi co ’l pollice e l’indice della destra successivamente la punta d’ogni dito della sinistra, enumerava:

‟La caudina di Speranza, la caudina di Buono, la caudina di Assaù, la candina di Matteo Puriello, la candina della cecata di Turlendana....”

‟Ah,” fece tranquillamente l’uomo.

Binchi-Banche sollevò i suoi acuti occhiolini verdognoli.

‟Ci sei stato ’n’altra volta a qua, segnore?”

E, non aspettando la risposta, con la nativa loquacità della gente pescarese, seguitava:

‟La candina della cecata è grande e ci si vende lu meglio vino. La cecata è la femmina delli quattro mariti....”

Si mise a ridere, con un riso che gl’increspava tutta la faccia gialliccia come il centopelle d’un ruminante.

‟Lu primo marito fu Turlendana, ch’era marinaro e andava su li bastimenti del re di Napoli, all’Indie basse e alla Francia e alla Spagna e infino all’America. Quello si perse in mare, e chi sa a dove, con tutto il legno; e non s’è trovato più. [p. 218 modifica]So’ trent’anni. Teneva la forza di Sansone: tirava l’áncore co’ un dito.... Povero giovane! Eh, chi va pe’ mare quella fine fa.”

Turlendana ascoltava, tranquillamente.

‟Lu secondo marito, doppo cinqu’anni di vedovanza, fu ’n’ortonese, lu figlio di Ferrante, ’n’anima dannata, che s’er’unito co’ li contrabbandieri, a tempo che Napolione stava contro l’Inglesi. Facevano contrabbando, da Francavilla infino a Silvi e a Montesilvano, di zucchero e di cafè, co’ li legni inglesi. C’era, vicino a Silvi, ’na torre delli Saracini, sotto il bosco, da dove si facevano li segnali. Come passava la pattuglia, plon plon, plon plon, noi ’scivamo dall’alberi....” Ora il parlatore accendevasi al ricordo; ed obliandosi descriveva con prolissità di parole tutta l’operazion clandestina, ed aiutava di gesti e di interiezioni vive il racconto. La sua piccola persona coriacea si raccorciava e si distendeva nell’atto. ‟In fine, il figlio di Ferrante era morto d’una schioppettata nelle reni, per mano de’ soldati di Gioachino Murat, di notte, su la costiera.

‟Lu terzo marito fu Titino Passacantando che morì nel letto suo, di male cattivo. Lu quarto vive. Ed è Verdura, bonomo, che no’ mestura li vini. Sentarai, segnore.” [p. 219 modifica]

Quando giunsero alla cantina lodata, si separarono.

‟F’lice sera, segnore!”

‟F’lice sera.”

Turlendana entrò, tranquillamente, fra la curiosità dei bevitori che sedevano a certe lunghe tavole in giro.

Avendo chiesto da mangiare, egli fu da Verdura invitato a salire in una stanza superiore ove i deschi erano già pronti per le cene.

Nessun cliente ancora stava nella stanza. Turlendana sedette e incominciò a mangiare a grandi bocconi, con la testa su ’l piatto, senza intervalli, come un uomo famelico. Egli era quasi intieramente calvo: una profonda cicatrice rossiccia gli solcava per lungo la fronte e gli scendeva fino a mezzo la guancia; la barba folta e grigia gli saliva fino ai pomelli emergenti; la pelle, bruna, secca, piena di asperità, corrosa dalle intemperie, riarsa dal sole, incavata dalle sofferenze, pareva non conservare più alcuna vivezza umana; li occhi e tutti i lineamenti erano, da tempo, come pietrificati nell’impassibilità.

Verdura, curioso, sedette di contro; e stette a riguardare il forestiero. Egli era piuttosto pingue, con la faccia d’un color roseo sottilissi[p. 220 modifica]mamente venato di vermiglio come la milza dei buoi.

Alla fine, domandò:

‟Da che paese venite?”

Turlendana, senza levar la faccia, rispose semplicemente:

‟Vengo di lontano.”

‟E dove andate?” ridomandò Verdura.

‟Sto qua.”

Verdura, stupefatto, tacque. Turlendana levava ai pesci la testa e la coda; e li mangiava così a uno a uno, triturando le lische. Ad ogni due o tre pesci, beveva un sorso di vino.

‟Qua ci conoscete qualcuno?” riprese Verdura, bramoso di sapere.

‟Forse,” rispose l’altro semplicemente.

Sconfitto dalla brevità dell’interlocutore, il vinattiere una seconda volta ammutolì. Udivasi la masticazione lenta ed elaborata di Turlendana tra l’inferior clamore dei bevitori.

Dopo un poco, Verdura riaprì la bocca.

‟Il camello in che siti nasce? Quelle, due gobbe sono naturali? Una bestia così grande e forte come può essere mai addomesticata?”

Turlendana lasciava parlare, senza rimuoversi.

‟Il vostro nome, signor forestiere?” [p. 221 modifica]

L’interrogato sollevò il capo dal piatto; e rispose, semplicemente:

‟Io mi chiamo Turlendana.”

‟Che?”

‟Turlendana.”

‟Ah!”

La stupefazione dell’oste non ebbe più limiti. E insieme una specie di vago sbigottimento cominciava a ondeggiare in fondo all’animo di lui.

‟Turlendana!... Di qua?”

‟Di qua.”

Verdura dilatò i grossi occhi azzurri in faccia all’uomo.

‟Dunque non siete morto?”

‟Non sono morto.”

‟Dunque voi siete il marito di Rosalba Catena?”

‟Sono il marito di Rosalba Catena.”

‟E ora?” esclamò Verdura, con un gesto di perplessità. ‟Siamo due.”

‟Siamo due.”

Un istante rimasero in silenzio. Turlendana masticava l’ultima crosta d’un pane, tranquillamente; e si udiva nel silenzio lo scricchiolio leggero. Per una naturale benigna incuranza dell’animo e per una fatuità gloriosa, Verdura non [p. 222 modifica]era compreso d’altro che della singolarità dell’avvenimento. Un improvviso impeto d’allegrezza lo prese, salendo spontaneo dai precordi.

‟Andiamo da Rosalba! andiamo! andiamo! andiamo!”

Egli traeva il reduce per un braccio, a traverso il fondaco dei bevitori, agitandosi, gridando:

‟Ecc’a qua Turlendana, Turlendana marinaro, lu marito de mógliema, Turlendana che s’era: morto! Ecc’a qua Turlendana! Ecc’a qua Turlendana!”