Satire (Ariosto 1809)/Satira VII

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Satira VII

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Satira VI
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A

M. BONAVENTURA

PISTOFILO

SEGRETARIO DEL DUCA


SATIRA SETTIMA

Dimostra gli uomini con l’accrescimento della fortuna mutar costumi ed essere ingrati verso quelli, dai quali hanno avuto alcun servizio; e come l’animo suo era di viversi ne’ suoi studj mediocre e di tranquilla vita.

Pistofilo, tu scrivi che, se appresso
     Papa Clemente ambasciator del Duca
     Per un anno o per due voglio esser messo,
Ch’io te ne avvisi, acciò che tu conduca
     La pratica; e proporre anco non resti
     Qualche viva cagion che mi v’induca;
Che lungamente io sia stato di questi
     Medici amico, e conversar con loro
     Con gran dimestichezza mi vedesti,
Quando eran fuorusciti, e quando foro
     Rimessi in casa, e quando in su le rosse
     Scarpe Leone ebbe la croce d’oro:

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Che oltre, che a proposito assai fosse
     Del Duca estimi, che tirare a mio
     Utile e onor potrei gran poste e grosse;
Che più da un fiume grande che da un rio
     Posso sperar di prendere, s’io pesco:
     Or odi, quanto a ciò ti rispond❜io,
Io ti ringrazio prima, che più fresco
     Sia sempre il tuo desire in esaltarmi,
     E far di Bue mi vogli un Barbaresco.
Poi dico che pel fuoco e che per l’armi
     A servigio del Duca in Francia e ’n Spagna,
     E in India, non che a Roma, puoi mandarmi:
Ma per dirmi, che onor vi si guadagna,
     E facoltà, ritrova altro zimbello,
     Se vuoi che l’augel caschi ne la ragna.
Perchè, quanto a l’onor, n’ho tutto quello
     Ch’io voglio; basta che in Ferrara veggio
     A più di sei levarmisi il cappello;
Perchè san, che talor col Duca seggio
     A mensa, e ne riporto qualche grazia,
     Se per me, o per gli amici glie la chieggio.
E se, come d’onor mi truovo sazia
     La mente, avessi facultà a bastanza,
     Il mio desir si fermería, ch’or spazia.
Sol tanta ne vorrei che viver sanza
     Chiederne altrui mi fosse in libertade:
     Il che ottener mai più non ho speranza.

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Poi che tanti mie’ amici potestade
     Hanno avuto di farlo; pur rimaso
     Son sempre in servitude, e in povertade.
Non vo’ più che colei, che fu del vaso
     De l’incauto Epimeteo a fuggir lenta,
     Mi tiri come un bufalo pel naso.
Quella ruota dipinta mi sgomenta,
     Ch’ogni mastro di carte a un modo finge;
     Tanta concordia non credo io che menta.
Quel, che le siede in cima, si dipinge
     Un asinello: ognun lo enigma intende,
     Senza che chiami a interpretarlo Sfinge.
Vi si vede anco, che ciascun, che ascende,
     Comincia a inasinir le prime membre,
     E resta umano quel che a dietro pende;
Fin che de la speranza mi rimembre,
     Che co i fior venne e con le prime foglie,
     E poi fuggì senza aspettar Settembre.
Venne il dì, che la Chiesa fu per moglie
     Data a Leone, e che a le nozze vidi
     A tanti amici miei rosse le spoglie.
Venne a Calende, e fuggì innanzi a gl’Idi,
     Fin che me ne rimembre esser non puote
     Che di promessa altrui mai più mi fidi,
La sciocca speme a le contrade ignote
     Salì dal ciel quel dì, che ’l Pastor Santo
     La man mi strinse, e mi baciò le gote.

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Ma fatte in pochi giorni poi di quanto
     Potea ottener l’esperienze prime,
     Quanto andò in alto, in giù tornò altrettanto.
Fu già una Zucca, che montò sublime
     In pochi giorni tanto, che coperse
     A un Pero suo vicin l’ultime cime.
Il Pero una mattina gli occhi aperse,
     Ch’avea dormito un lungo sonno, e visti
     I nuovi frutti sul capo sederse,
Le disse, chi sei tu? come salisti
     Qua su? dove eri dianzi? quando lasso
     Al sonno abbandonai questi occhi tristi?
Ella gli disse il nome; e dove al basso
     Fu piantata, mostrogli; e che in tre mesi
     Quivi era giunta, accelerando il passo.
Ed io (l’arbor soggiunse) a pena ascesi
     A questa altezza, poi che al caldo e al gelo
     Con tutti i venti trenta anni contesi.
Ma tu, che a un volger d’occhi arrivi in cielo,
     Renditi certa, che non meno in fretta
     Che sia cresciuto, mancherà il tuo stelo.
Così a la mia speranza, che a staffetta
     Mi trasse a Roma, potea dir chi avuto
     Per Medici su ❜l capo avea l’accetta:
Chi gli avea ne l’esilio sovvenuto;
     O chi a riporlo in casa, o chi a crearlo
     Leon d’umil agnel gli diede ajuto.

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Chi avesse avuto lo spirto di Carlo
     Sosena allora, avría a Lorenzo forse
     Detto, quando sentì Duca chiamarlo;
Ed avría detto al Duca di Nemorse,
     Al Cardinal de’ Rossi, e al Bibíena,
     A cui meglio era esser rimaso a Torse:
E detto a Contessina, e a Maddalena,
     A la nuora, a la suocera, ed a tutta
     Quella famiglia d’allegrezza piena:
Questa similitudine sia indutta
     Più propria a voi, che, come vostra gioja
     Tosto montò, tosto sarà distrutta.
Tutti morrete, ed è fatal che muoja
     Leone appresso, prima che otto volte
     Torni in quel segno il fondator di Troja.
Ma per non far, se non bisognan, molte
     Parole, dico che fur sempre poi
     L’avare spemi mie tutte sepolte.
Se Leon non mi diè, che alcun de’ suoi
     Mi dia non spero: cerca pur questo amo
     Coprir d’altra esca, se pigliar mi vuoi.
Se pur ti par ch’io vi debba ire, andiamo:
     Ma non già per onor, nè per ricchezza;
     Questa non spero, e quel di più non bramo.
Più tosto di’ ch’io lascerò l’asprezza
     Di questi sassi, e questa gente inculta
     Simile al luogo, ov’ella è nata e avvezza.

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E non avrò, qual da punir con multa,
     Qual con minaccie; e da dolermi ogn’ora,
     Che qui la forza a la ragion insulta.
Dimmi ch’io potrò aver ozio talora
     Di riveder le Muse; e con lor sotto
     Le sacre frondi ir poetando ancora.
Dimmi che al Bembo, al Sadoleto, al dotto
     Giovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida
     Potrò ogni giorno, e al Tibaldeo far motto.
Tor d’essi or uno, e quando un altro guida
     Pei sette colli, che col libro in mano
     Roma in ogni sua parte mi divida.
Qui dica il Circo, qui il foro Romano,
     Qui fu Suburra; è questo il Sacro Clivo;
     Qui Vesta il tempio, e qui ’l solea aver Giano.
Dimmi, ch’avrò di ciò ch’io leggo o scrivo
     Sempre consiglio, o da Latin quel torre
     Voglia, o da Tosco, o da barbato Argivo.
Di libri antiqui anco mi puoi proporre
     Il numer grande, che per pubblico uso
     Sisto da tutt’il mondo fè raccorre.
Proponendo tu questo, s’io ricuso
     L’andata, ben dirai che tristo umore
     Abbia il discorso razional confuso.
Ed in risposta, come Emilio, fuore
     Porgerò il piè, e dirò: tu non sai dove
     Questo calzar mi prema, e dia dolore.

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Da me stesso mi tol chi mi rimove
     Da la mia terra; e fuor non ne potrei
     Viver contento, ancor che in grembo a Giove.
E, s’io non fossi d’ogni cinque o sei
     Mesi stato uno a passeggiar fra il Domo
     E le due statue de’ Marchesi miei;
Da sì nojosa lontananza domo
     Già sarei morto, o più di quelli macro,
     Che stan bramando in Purgatorio il pomo.
Se pur ho da star fuor, mi fia nel sacro
     Campo di Marte senza dubbio meno,
     Che in questa fossa, abitar duro ed acro.
Ma se’l Signor vuol farmi grazia a pieno,
     A sè mi chiami; e mai più non mi mandi
     Più là d’Argenta, o più qua dal Bondeno.
Se, perchè amo sì il nido mi dimandi,
     Io non te lo dirò più volentieri,
     Ch’io soglia al frate i falli miei nefandi.
Che so ben che diresti: ecco pensieri
     D’uom, che quarantanove anni a le spalle
     Grossi e maturi si lasciò l’altr❜jeri.
Buon per me, ch’io m’ascondo in questa valle;
     Nè l’occhio tuo può correr cento miglia
     A scorger, se le guance ho rosse o gialle,
Che vedermi la faccia più vermiglia,
     Ben ch’io scriva da lunge, ti parrebbe,
     Che non ha Madonna Ambra nè la figlia.

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O che ’l padre Canonico non ebbe,
     Quando il fiasco del vin gli cadde in piazza,
     Che rubò al frate oltre li dui che bebbe.
S’io ti fossi vicin, forse la mazza
     Per bastonarmi piglieresti tosto,
     Che m’udissi allegar, che ragion pazza
Non mi lasci da voi viver discosto.


Fine delle Satire.