Scritti minori (Guicciardini)/III. - Se lo amazzarsi da sé medesimo per non perdere la libertà o per non vedere la patria in servitù procede da grandezza di animo o da viltà, e se è laudabile o no

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III. - Se lo amazzarsi da sé medesimo per non perdere la libertà o per non vedere la patria in servitù procede da grandezza di animo o da viltà, e se è laudabile o no

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III. - Se lo amazzarsi da sé medesimo per non perdere la libertà o per non vedere la patria in servitù procede da grandezza di animo o da viltà, e se è laudabile o no
II. - Se sia lecito condurre el populo alle buone legge con la forza non potendo farsi altrimenti

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III

Se lo amazzarsi da sé medesimo per non perdere la libertá
o per non vedere la patria in servitù procede
da grandezza di animo o da viltà, e se è laudabile o no.


Con tutto che questa disputa sia oggi sanza difficultá, attesa la determinazione della legge cristiana che proibisce alcuno farsi forza da sé medesimo, né dare termino alla sua vita fuora del tempo e del modo destinato da Dio; nondimeno volendo esaminarla colle ragione naturale e posposta la reverenza della fede cristiana, non si può negare che la non abbi molto dubio, ed è stata lungamente ventilata con vive ed acute ragione nelle scuole delli antichi filosofi ed uomini dotti, e tra li altri molto lucidamente da Cicerone e Cesare; approvata ancora colla autoritá di sommi uomini, de’ quali altri amazzandosi, altri reservandosi a migliori tempi, hanno fatto questa quistione piú dubia e piú oscura. La quale arebbe sanza controversia bisogno di essere discussa da piú sottile ingegno e da uno che fussi assuefatto nelle scuole della filosofia, della quale io non lessi mai libro; ma faccendosi questo discorso da me per esercizio proprio e non per utilitá di altri, basterá che io ne parli grossamente e solo con quelle ragioni che naturalmente mi occorrono.

E’ non si può negare che ciascuno che si amazza da sé medesimo in qualunque de’ casi proposti, non lo facci per fuggire qualcosa, la quale lui riputa male e la teme. [p. 233 modifica]Verbigrazia chi si amazza per non vedere o la patria o la persona sua serva, lo fa perché li stima che la servitú sia male e teme delli incommodi di quella, e con tanta poca misura che el timore lo strigne a volersi piú tosto privare della vita e rimanere sanza senso, che sentire e gustare quel male che si presuppone esservi drento. La radice e la origine adunche di questo amazzarsi è fondata principalmente in sul temere e’ mali, e’ quali lui amazzandosi vuole fuggire; e però è necessario dire che e’ proceda da viltá e da mancamento di animo, perché non si ardisce a potere sofferire e’ mali che e’ crede essere nella servitú. Né si può dire che e’ non sia el timore, ma lo amore della libertá che lo induca a fare, perché questo amore della libertá ha di necessitá fondamento in sullo odio della servitú; conciosiaché lo amore e l’odio sieno correlativi, né possino essere l’uno sanza l’altro, cum sit che presupposto alcuno avere amore a una cosa, ne séguiti che li abbi in odio el contrario, e cosí e converso; e però chi è mosso da amore della libertá, è in uno medesimo tempo e modo mosso da odio della servitú, amando quella per giudicarla cosa buona, questa avendo in odio per giudicarla cosa mala; e dove è lo odio è la paura di quello che l’uomo odia, e consequentemente bisogna confessare che e’ vi sia la paura della servitú e de e’ mali che si presuppongono essere in quella. Di questo séguita necessariamente che chi si amazza per fuggire la servitú sua o della patria, è originalmente mosso da paura e da timore, e non si può dire che la sia grandezza di animo ma viltá.

Questo medesimo si conferma vivamente, perché non è dubio secondo la sentenzia commune di tutti, che nessuno male è da equiparare alla morte, la quale dissolve la anima dal corpo, che è el maggiore e piú forte vinculo che abbino li uomini, e però dissono e’ filosofi che la morte è lo ultimo di tutte le cose terribili, e certamente la povertá, la vergogna e la servitú è minore male che la morte, perché alli uomini è naturale lo essere e lo appetito di essere, e da chi ne parla colla ragione, è preeletto el male essere al non essere; e però [p. 234 modifica]disse qualche scrittore santo che e’ dannati nello inferno, dove non è speranza alcuna in perpetuo di redenzione, non muterebbono la condizione loro al non essere, tanto naturalmente è appetito dalli omini lo essere. E però séguita che chi elegge la morte per schifare la servitú elegge uno maggiore male per fuggire uno minore, il che procede da stimare e reputare la servitú maggiore male che la non è, ed averne piú paura che non si debbe e che non è ragionevole. Non si può adunche dire che e’ proceda da generositá di animo, perché el primo articulo dello uomo animoso è di non si fare una cosa piú terribile che la sia, e chi incorre in questo defetto manca di animo, ed è necessario dire che abondi la timiditá. Questa ragione conchiude non solo che sia sanza animo e pauroso, ma che e’ pecchi ancora nel giudicio, stimando uno male maggiore che e’ non è, ed eleggendo di volere piú tosto uno male grande che uno minore; e puossi comparare a uno che vuole piú tosto due ferite che una, il che chi facessi sarebbe sanza dubio reputato stulto da tutti li omini.

Confermasi questa opinione medesima con una altra ragione, perché chi, venendo in servitú, o lui o la patria, sperassi che la libertá si potessi qualche volta recuperare e che questo male avesse a essere temporale, sanza dubio piú tosto eleggerebbe la servitú, aspettando che la avessi in processo di tempo a finire, che la morte la quale sa essere male perpetuo. Lo amazzarsi adunche per simile ragione è spezie di desperazione, la quale viene da mancamento di animo e da troppa timiditá, massime quando si perde la speranza che e’ si variino quelle cose che non sogliono mai stare lungamente ferme: veggiamo le cose umane e massime delli stati andarsi tuttodí alternando, e dove è oggi la vittoria e lo imperio, essere domani la perdita e la servitú, ed e converso; e quello che è piú, venire spesso queste revoluzione e queste tempeste in tempi che non pare se ne vegga alcuno segno, e contro alla opinione di tutti li omini; e però chi ne perde la speranza piú che sia ragionevole, bisogna che nasca da essere troppo timido e pauroso. [p. 235 modifica]

Ultimamente non si può negare che lo amazzarsi, oltre al tôrre alla persona propria ogni occasione di tornare allo stato desiderato, è ancora dannoso ad altri; e massime quando l’uomo lo fa per non vedere la servitú della sua patria, alla quale potrebbe molto piú giovare vivendo ed aspettando qualche occasione di poterla ridurre alla libertá ed al suo stato antico, che togliendosi la vita; e però non so come si possa dire amatore della patria quello che col fare male a sé medesimo si toglie ogni facoltá di poterla mai in tempo alcuno aiutare; né come possa lodarsi questo amazzare, procedendo da poco animo per temere troppo e’ mali della servitú, da poco giudicio per non pesare quanto grande male sia la morte, e faccendo nocumento a sé con danno di altri; ed in effetto pare molto piú da commendare quello che animosamente sopportando ogni difficultá della servitú, si va preservando di potere a qualche tempo godere la libertá.

Da altro canto si legge che nelli antichi tempi molti uomini tenuti grandi e generosi si sono spontaneamente amazzati, non solo per fare qualche beneficio grande alla patria, come feciono e’ Decii, del quale caso non occorre parlare perché è diverso dal tema proposto, ma ancora ne’ nostri propri termini, sanza utilitá alcuna del publico, solo per fuggire la servitú e non volere vivere in patria non libera. Di questi fu capo apresso a’ romani, Marco Catone, uomo di singulare virtú e constanzia, el quale, avendo sempre con grande animo stimato poco el giudicio della moltitudine, le repulse ed altre infamie civili, e prese per utilitá della cittá molte inimicizie, per non vivere nella patria serva per beneficio di altri, si amazzò in Utica. Seguitollo Marco Bruto suo nipote, uomo eruditissimo nelli studi di filosofia, e di tanta prudenzia e gravitá che era chiamato ornamento della gioventú romana. Costui, con tutto che doppo Cesare avessi el primo grado della cittá, non potendo per generositá di animo soportare che la patria sua servissi, si fece capo della coniura contro a lui; e di poi essendo el popolo romano per la collegazione di Marco Antonio ed Ottavio ricaduto in servitú, venne a giornata contro [p. 236 modifica]a’ tiranni ne’ campi Filippici, ed essendo rotto (con tutto che non li mancassi facoltá di potersi fuggire e forse qualche speranza di rifare nuovi eserciti, o almeno salvarsi in molte parte di Oriente che non erano sotto lo imperio romano, né li mancassi speranza di potersi forse con qualche tollerabile condizione reconciliarsi colli inimici, massime per qualche amicizia avea con Antonio), nondimeno volle piti tosto tôrsi la vita, che vivendo in servitú e vedendo servire la patria, seguire speranze incerte.

Costoro essendo uomini prudentissimi, non è da credere non conoscessino quale fussi maggiore male, o la servitú o la morte; né è da credere che avendo fatto in tutta la vita sempre dimostrazione di animo grandissimo, pigliassino partito di amazzarsi per timiditá, e tanto piú che la morte è di sua natura tanto terribile e tanto contraria al desiderio naturale di tutti li uomini, e’ quali a una voce appetiscono el vivere, che e’ non pare da credere che chi non ha paura della morte possi avere paura di altra cosa. Non è adunche in modo alcuno da dire che uomini tanto eccelsi e generosi si dessino la morte per paura de’ mali che si vedevano preparati in vita, né perché mancassi loro el cuore a soportarli; ma che piú tosto si movessino da una certa grandezza e generositá di animo, la quale, essendo loro assueti a vivere liberi e con onore, li movessi sí veementemente che si sdegnassino volere vivere in servitú e mancare di quella gloria e libertá nella quale erano nati e nutriti. La vita in sé è da essere desiderata, e da fuggire quanto si può la privazione di quella; nondimeno non essendo perpetua ed avendo di necessitá ciascuno a morire, è da essere preposta la vita breve con onore, alla lunga con ignominia; e chi è uso a vivere gloriosamente e dependendo da sé solo, debbe con ogni modo e via fuggire la perdita della gloria sua, e di avere contro a ragione a umiliarsi ed inclinarsi a altri. Né debbe nascere questo appetito per paura di non potere soportare e’ mali che sono in quello che lui fugge, ma per non volere maculare la gloria e generositá con che gli è vivuto. [p. 237 modifica]

Non mancava a Catone, Bruto e molti altri simili, ingegno e facultá di sapere vivere in servitú, non arte o industria di sapersi umiliare ai tiranni; né temevano, venendo in potestá loro, tanto di cruciati o tormenti che per questo volessino prevenire, né erano tanto inesperti delle cose umane, massime avendo veduto nella etá loro tante e sí spesse mutazione nella republica sua, che e’ non conoscessino potere essere che questi mali non fussino perpetui, e che vivendo vedrebbono forse uno giorno tornare la patria in libertá. Ma considerando che e’ non era in potestá di alcuno conservarsi sempre la vita, ma lo onore e la gloria sí, e parendo loro che e’ fussi suo grandissimo vituperio ubidire, servire e stare sudditi, per iniquitá della fortuna, a chi secondo le legge della natura e civile, loro erano pari, vollono conservarsi la gloria col tôrsi la vita; non perché mancassi loro lo animo di potere sostenere la servitú, ma perché stimorono piú el mantenersi per sempre la gloria e lo onore, che la vita per poco tempo.

Potrebbesi in questo, forse disputare se e’ mancò loro giudicio a stimare suo vituperio o ignominia lo ubidire sanza loro colpa alla necessitá della fortuna; ma presupposto che a loro sarebbe stato vituperoso el vivere cosí, non si può al parere mio mettere in dubio se e’ mancassi loro lo animo; anzi attribuire a una somma generositá lo stimare piú la gloria e reputazione sua che la vita, sendo quella perpetua, questa temporale; quella procedendo da virtú propria, questa da regola della natura. E quanto la morte è maggiore male e piú terribile, tanto piú è da laudare ed ammirare la constanzia e grandezza loro, che per conservare la gloria sua non la temessino; né è da essere in considerazione el potere sperare che qualche volta si recupererebbe la libertá, perché questo non toglieva che vivendo una volta in servitú e stando sotto al tiranno, la gloria loro non fussi maculata, la quale non tornava colla recuperazione della libertá, sendo giá scoperta la bassezza dello animo loro di potere soportare di avere ubidito e vivuto sotto el tiranno. [p. 238 modifica]

Queste ragione mi occorrono per la una parte e per l’altra, ed a giudicio mio non si può negare, posposta eziandio la autoritá di tanti uomini, che la non fussi grandissima generositá di animo; se bene si potessi forse disputare se tale generositá era bene moderata o no.