Sovra carro funebre

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Federigo Meninni

XVII secolo Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu Sonetti Letteratura XI. Nel tempo della peste di Napoli Intestazione 12 agosto 2022 100% Da definire

Vivo, amico, a me stesso. A piè d'un fonte
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XI

NEL TEMPO DELLA PESTE DI NAPOLI

Al padre Niceforo Sebasto, agostiniano

     Sovra carro funebre
con tartareo flagello i draghi alati
furia di Flegetonte agita a volo.
De l’enfiate palpebre
ai guardi infetti e de la bocca ai fiati,
d’ossame imputridito ingombra il suolo.
Spettatrice di duolo
fassi l’Esperia, e di conforti esausto,
di tragedia fatal teatro infausto.

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     Indomito veleno
per le viscere altrui serpe baccante,
mentre qual idra il suo livor propaga;
sul margine tirreno
con pestifero stral parca anelante
di popolo infinito i petti impiaga;
con tante morti appaga
gli sdegni suoi, che di tristizia gonfi
erge in orride bighe i suoi trïonfi.
     Spopolate le ville
son di bifolchi e di guerrier le ròcche,
di toghe i fòri e di ministri i tèmpi;
di lacrimose stille
son aride le luci, e le altrui bocche
stanche di morte a detestar gli scempi;
perché di madre adempi
la terra i mesti uffici, ancorché vasta,
l’ossa insepolte a sepellir non basta.
     D’antidoti salubri
al contagio non è sicuro schermo
da l’arte d’Epidauro unqua prescritto;
su’ talami lugubri,
mentre s’adopra a sollevar l’infermo,
cade su l’egro il fisico trafitto;
il genitore afflitto,
di gelido pallore il volto tinto,
spira l’anima in braccio al figlio estinto.
     Attaliche ricchezze,
lacera povertá, rapido strugge
con assalti improvvisi il morbo infame;
fulminate bellezze,
deformitá spiranti il foco adugge,
di fiamme ingorde a sazïar la fame;
a recider lo stame
di tante vite, infra singulti e strida
stanca la falce sua Cloto omicida.

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     Fra sí tragiche scene
io vivo, amico, e provvido riparo
contra influsso maligno alzar m’ingegno;
or co’ fogli d’Atene
dal comun fato a riserbarmi imparo,
or animando armonïoso un legno;
degli Elisi nel regno,
se resta il mondo in fra le stragi absorto,
entro un mar di sudori io spero il porto.
     O di musici accenti
delfico re, che d’immortali e casti
lauri fregi il tuo crin sui gioghi ascrei,
se da languidi armenti
l’aure contaminate allor fugasti
quando l’ostie fumâr sui colli idei,
dagli aliti letei
tu preservami intatto; in roghi accensi
giá le vittime sveno, ardo gl’incensi.
     Sovra letto spiumato
ove d’Olanda e di Getulia a scorno
ricca pompa facean gli ostri e le tele,
pallido, addolorato
languia l’inclito Alfonso, a cui dintorno
di ministri assistea turba fedele;
al palpito crudele
del suo petto anelante in dare esiglio,
d’Esculapio non giova arte o consiglio.
     Tutto ciò che da l’erbe
e dai fiori stillò chimica mano,
de la vita real si sceglie a l’uso;
le dovizie superbe
di Cleopatra invan distempra, e ’nvano
altri il biondo metal rende diffuso;
ché al temerario fuso,
benché gli ori de l’Ermo in tazza ei mesce,
Cloto stami piú lunghi indarno accresce.

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     Gusta appena di Faso
l’ambito augel, che nauseante il rende
antipatia di congiurati umori;
da cruda sete invaso,
che d’incendio vorace il sen gli accende,
brama d’un fonte i gelidi liquori;
e fra notturni errori,
quand’altri le pupille aprir non ponno,
vien co’ fantasmi a funestarlo il sonno.
     Cosí languia, quand’ecco
le memorie erudite, espresse in fogli,
con occhio immoto a contemplar s’accinse.
Dal petto arido e secco
gli occulti, inconsolabili cordogli
tosto a fuggir con quelle note astrinse.
In mar d’inchiostri estinse
gli ardori esorbitanti, e gli diè scampo
sol di bella virtú sereno un lampo.