Storia d'Italia/Libro XII/Capitolo XI
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XI
Stette occulta insino al mese di giugno la deliberazione del re; ma finalmente, per la grandezza e sollecitudine degli apparecchi, non era piú possibile tanto movimento dissimulare. Perché erano immoderati i provedimenti de’ danari, soldava numero grandissimo di fanti tedeschi, faceva condurre molte artiglierie verso Lione, e ultimamente aveva mandato in Ghienna, per soldare ne’ confini di Navarra diecimila fanti, Pietro Navarra, condotto nuovamente agli stipendi suoi: perché non avendo il re d’Aragona, sdegnato contro a lui perché in gran parte se gli attribuiva l’infelice successo del fatto d’arme, voluto mai pagare per la sua liberazione la taglia postagli di ventimila ducati, la quale il re morto avea donato al marchese del Rotellino per ricompensarlo in qualche parte della taglia de’ centomila ducati pagati in Inghilterra, il nuovo re, deliberando usare l’opera sua, aveva, quando pervenne alla corona, pagato la taglia per lui, e dipoi condottolo agli stipendi suoi; avendo prima il Navarra, per scarico dell’onore suo, mandato al re d’Aragona a scusarsi se abbandonato da lui cedeva alla necessitá, e a rinunziare uno stato il quale possedeva per sua donazione nel regno di Napoli.
Essendo adunque manifesto a ciascuno che la guerra si preparava contro a Milano e che il re deliberava d’andarvi personalmente, cominciò il re a ricercare apertamente il pontefice che si unisse seco; usando a questo, oltre a molte persuasioni e instrumenti, il mezzo di Giuliano suo fratello, il quale nuovamente aveva presa per moglie [Filiberta] sorella di Carlo duca di Savoia e zia materna del re, dotandola co’ danari del pontefice in centomila ducati: la qual cosa gli avea data speranza che il pontefice fusse inclinato alla amicizia sua, avendo contratto seco sí stretto parentado; e tanto piú che, avendo prima trattato col re cattolico di congiugnere Giuliano con una parente sua della famiglia di Cardona, pareva che piú per rispetto suo che per altra cagione avesse preposto questo matrimonio a quello. Né dubitava, Giuliano dovere cupidamente favorire questa inclinazione per desiderio di acquistare col mezzo suo qualche stato, col quale potesse sostentare le spese convenienti a tanto matrimonio e per stabilire meglio il governo perpetuo, datogli dal pontefice nuovamente, delle cittá di Modona, Reggio, Parma e Piacenza; il quale, non sostenuto da favore di príncipi potenti, era di poca speranza che avesse a durare dopo la morte del fratello. Ma era cominciata presto a turbarsi la speranza del re: perché il pontefice aveva conceduto al re d’Aragona le crociate del regno di Spagna per due anni, delle quali si credeva che avesse a trarre piú di uno milione di ducati; e perché udiva con tanta inclinazione Alberto da Carpi e Ieronimo Vich oratori di Cesare e del re cattolico, che erano molto assidui appresso a lui, che parevano partecipi di tutti i consigli suoi. Nutriva questa ambiguitá il pontefice, dando parole grate e dimostrando ottima intenzione a quegli che intercedevano per il re, ma senza effetto di alcuna conclusione, come quello nel quale prevaleva a tutti gli altri rispetti il desiderio che il ducato di Milano non fusse piú posseduto da príncipi forestieri. Però il re, desiderando di certificarsi della sua mente, mandò a lui nuovi imbasciadori; tra’ quali fu Guglielmo Budeo parigino, uomo nelle lettere umane, cosí greche come latine, di somma e forse unica erudizione tra tutti gli uomini de’ tempi nostri. Dopo i quali mandò Antonio Maria Palavicino, uomo grato al pontefice. Ma erano vane queste fatiche, perché giá innanzi alla venuta sua aveva occultissimamente, insino del mese di luglio, convenuto cogli altri alla difesa dello stato di Milano: ma volendo che questa deliberazione stesse secretissima insino a tanto che la necessitá delle cose lo costrignesse a dichiararsi, e desiderando oltre a questo publicarla con qualche scusa, ora dimandava che il re consentisse che la Chiesa si ritenesse Parma e Piacenza, ora faceva altre petizioni acciò che, essendogli negata qualcuna delle cose dimandate, paresse che la necessitá piú che la volontá lo inducesse a unirsi con gli inimici del re, ora, diffidandosi che il re gli negasse cosa alcuna di quelle che non al tutto senza colore d’onestá poteva proporre, faceva risposte varie, ambigue e irresolute.
Ma erano usate seco da altri delle medesime arti e astuzie. Perché Ottaviano Fregoso doge di Genova, temendo degli apparati potentissimi del re di Francia e avendo da altra parte sospetta la vittoria de’ confederati per l’inclinazione del duca di Milano e de’ svizzeri agli avversari suoi, si era per mezzo del duca di Borbone convenuto secretissimamente col re di Francia, avendo, e mentre trattava e poi che convenne, affermato sempre costantissimamente il contrario al pontefice; il quale, per essere Ottaviano congiuntissimo di antica benivolenza a lui e a Giuliano suo fratello, e stato favorito da loro nel farsi doge di Genova, gliene prestò tale fede che, avendo il duca di Milano insospettito da questa fama disposto di assaltarlo con quattromila svizzeri, che giá erano condotti a Novara, e con gli Adorni e Fieschi, il pontefice fu operatore che non si procedesse piú oltre. Convenne il Fregoso in questa forma: che al re si restituisse il dominio di Genova insieme col Castelletto; Ottaviano, deposto il nome del doge, fusse governatore perpetuo del re, con potestá di concedere gli offici di Genova; avesse dal re la condotta di cento lancie, l’ordine di San Michele, provisione annua durante la sua vita; non rifacesse il re la fortezza di Codifá molto odiosa a’ genovesi, e concedesse a quella cittá tutti i capitoli e privilegi che erano stati annullati e abbruciati dal re Luigi; desse certa quantitá di entrate ecclesiastiche a Federico arcivescovo di Salerno fratello di Ottaviano, e a lui, se mai accadesse fusse cacciato di Genova, alcune castella nella Provenza. Le quali cose quando poi furno publicate non fu difficile a Ottaviano, perché ciascuno sapeva che meritamente temeva del duca di Milano e de’ svizzeri, giustificare la sua deliberazione. Solamente gli dava qualche nota lo avere negato la veritá tante volte al pontefice da cui avea ricevuti tanti benefici, né osservata la promessa fatta di non convenire senza suo consentimento; e nondimeno, in una lunga lettera che dipoi gli scrisse in sua giustificazione, riandate accuratamente tutte le cagioni che lo avevano mosso e tutte le scuse con le quali appresso a lui poteva difendere l’onore e il procedere suo, e il non avere disprezzato la divozione che, come a pontefice e come a suo benefattore, gli aveva, conchiuse che gli sarebbe piú difficile la giustificazione se scrivesse a uomini privati o a principe che misurasse le cose degli stati secondo i rispetti privati, ma che scrivendo a uno principe savio quanto in quella etá fusse alcuno altro, e che per la sapienza sua conosceva che e’ non poteva salvare lo stato suo in altro modo, era superfluo lo scusarsi con chi conosceva e sapeva quel che fusse lecito, o almanco consueto, a príncipi di fare, non solo quando erano ridotti in caso tale ma eziandio per migliorare o accrescere le condizioni dello stato loro.
Ma giá le cose dalle parole e da’ consigli procedevano a’ fatti e alle esecuzioni: il re venuto a Lione, accompagnato da tutta la nobiltá di Francia e da’ duchi del Loreno e di Ghelleri, moveva verso i monti l’esercito maggiore e piú fiorito che giá grandissimo tempo fusse passato di Francia in Italia; sicuro di tutte le perturbazioni di lá da’ monti, perché il re d’Aragona (il quale, temendo prima che tanti provedimenti non si volgessino contro a sé, aveva armato i suoi confini, e acciò che i popoli fussino piú pronti alla difesa della Navarra l’aveva unita in perpetuo al reame di Castiglia), subito come intese la guerra procedere manifestamente in Italia, licenziò tutte le genti che aveva raccolte, non tenendo piú conto della promessa fatta quell’anno a’ confederati di muovere la guerra nella Francia che avesse tenuto delle promesse fatte a’ medesimi negli anni precedenti.