Storia d'Italia/Libro XII/Capitolo X
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X
A Luigi duodecimo succedette Francesco monsignore di Anguelem, piú prossimo a lui de’ maschi del sangue reale e della linea medesima de’ duchi di Orliens, preferito nella successione del regno alle figliuole del morto re per la disposizione della legge salica, legge antichissima del reame di Francia; per la quale, mentre che della medesima linea vi sono maschi, si escludono dalla degnitá reale le femmine. Delle virtú, della magnanimitá, dello ingegno e spirito generoso di costui s’aveva universalmente tanta speranza che ciascuno confessava non essere, giá per moltissimi anni, pervenuto alcuno con maggiore espettazione alla corona; perché gli conciliava somma grazia il fiore della etá, che era di ventidue anni, la bellezza egregia del corpo, liberalitá grandissima, umanitá somma con tutti e notizia piena di molte cose; e sopratutto grato alla nobiltá, alla quale dimostrava sommo favore. Assunse, insieme col titolo di re di Francia, il titolo di duca di Milano, come appartenente a sé non solo per le antiche ragioni de’ duchi di Orliens ma ancora come compreso nella investitura fatta da Cesare per la lega di Cambrai: avendo a recuperarlo la medesima inclinazione che aveva avuto l’antecessore. Alla qual cosa stimolava non solamente lui ma eziandio tutti i giovani della nobiltá franzese la gloria di Gastone di Fois, e la memoria di tante vittorie ottenute da’ prossimi re in Italia; benché, per non invitare innanzi al tempo gli altri a prepararsi per resistergli, la dissimulasse per consiglio de’ suoi, attendendo in questo mezzo a trattare, come si fa ne’ regni nuovi, amicizia con gli altri príncipi: di molti de’ quali concorsono a lui subito imbasciadori, ricevuti tutti con lieta fronte, ma piú che tutti gli altri quegli del re d’Inghilterra; il quale, essendo ancora fresca la ingiuria ricevuta dal re cattolico, desiderava continuare seco l’amicizia cominciata col re Luigi. Venne e nel tempo medesimo onorata imbasceria dello arciduca, della quale fu il principale monsignore di Nassau, e con dimostrazione di grande sommissione come a signore suo soprano, per essere possessore della contea di Fiandra, la quale riconosceva la superioritá della corona di Francia.
L’una e l’altra legazione ebbe presta e felice espedizione; perché col re d’Inghilterra fu riconfermata la confederazione fatta tra lui e il re morto, co’ medesimi capitoli e durante la vita di ciascuno di loro, riservato tempo di tre anni al re di Scozia di entrarvi; e con l’arciduca cessorono molte difficoltá che si giudicava per molti dovessino impedire la concordia. Perché l’arciduca, il quale, finita l’etá pupillare, aveva assunto nuovamente il governo degli stati suoi, movevano a questo molte cagioni: la instanza de’ popoli di Fiandra desiderosi di non avere guerra col reame di Francia, il desiderio di assicurarsi degli impedimenti che nella morte dell’avolo gli potessino essere dati da’ franzesi alla successione del regno di Spagna, e il parergli pericoloso rimanere senza legame di amicizia in mezzo del re dí Francia e del re d’Inghilterra congiunti insieme; e da altra parte nel re era desiderio grande di rimuovere tutte l’occasioni che lo potessino costrignere a reggersi con l’autoritá e consiglio dell’avolo paterno o materno. Fu adunque, nella cittá di Parigi, fatta tra loro pace e confederazione perpetua, riservando facoltá a Cesare e al re cattolico, senza l’autoritá de’ quali conveniva l’arciduca, di entrarvi fra tre mesi; promesso di fare lo sposalizio, trattato tante volte, tra l’arciduca e Renea figliuola del re Luigi, con dote di seicentomila scudi e del ducato di Berrí perpetuo per lei e per i figliuoli, la quale essendo allora di etá tenerissima gli avesse a essere consegnata subito pervenisse alla etá di nove anni, ma con patto rinunziasse a tutte le ragioni della ereditá paterna e materna, e nominatamente a quelle gli appartenessino in su il ducato di Milano e di Brettagna; obligato a dargli il re aiuto di genti e di navi per andare al regno di Spagna, dopo la morte del re cattolico. Fu nominato a richiesta del re il duca di Ghelleri; e affermano alcuni che, oltre alle cose predette, fu convenuto che in nome dell’uno e dell’altro di loro andassino, fra tre mesi, imbasciadori al re d’Aragona a ricercarlo che facesse giurare a’ popoli l’arciduca per principe di quegli reami (è questo il titolo di quello al quale aspetta la successione) restituisse il regno di Navarra e astenessesi da difendere il ducato di Milano. Né si dubita che ciascuno di questi due príncipi pensò piú, nel confederarsi, alla comoditá che si dimostrava di presente che alla osservanza del tempo futuro: perché, quale fondamento si poteva fare nello sposalizio che si prometteva, non essendo ancora la sposa pervenuta alla etá di [quattro] anni? e come poteva piacere al re di Francia che Renea divenisse moglie dello arciduca, alla quale, essendo la sorella maggiore moglie del re, era parata l’azione sopra il ducato di Brettagna? perché i brettoni, desiderosi d’avere qualche volta uno duca particolare, quando Anna duchessa loro passò al secondo matrimonio, convennono che al secondogenito de’ figliuoli e discendenti di lei, pervenendo il primogenito alla corona di Francia, pervenisse quel ducato.
Trattava medesimamente il re di Francia col prefato re di prorogare la tregua fatta col re morto, ma rimossa la condizione di non molestare durante la tregua il ducato di Milano; sperando dovergli poi essere facile il convenire con Cesare; per la quale cagione teneva sospesi i viniziani che offerivano di rinnovare la lega fatta con l’antecessore, volendo essere libero a obligarsi a Cesare contro a loro. Ma il re cattolico, con tutto che in lui potesse come sempre il desiderio di non avere guerra propinqua a’ confini di Spagna, pure considerando quanto sospetto darebbe la prorogazione della tregua a svizzeri, e che questo, non essendo piú né credute le sue parole né uditi i consigli suoi, sarebbe cagione che il pontefice, ambiguo insino a quel dí, si rivolgerebbe alla amicizia franzese, ricusò finalmente di prolungare la tregua se non con le medesime condizioni con le quali l’aveva rinnovata col re passato. Onde il re Francesco, escluso da questa speranza, e meno sperando che Cesare contro alla volontá e consigli di quel re avesse a convenire seco, riconfermò col senato viniziano la lega nella forma medesima che era stata fatta coll’antecessore. Rimanevano il pontefice e i svizzeri. A questi dimandò che ammettessino i suoi imbasciadori; ma essi, perseverando nella medesima durezza, ricusorno concedere il salvocondotto: col pontefice, dalla volontá del quale dipendevano interamente i fiorentini, non procedette per allora piú oltre che a confortarlo a conservarsi libero da qualunque obligazione, acciocché, quando i progressi delle cose lo consigliassino a risolversi, fusse in sua potestá l’eleggere la parte migliore: ricordandogli che mai da niuno piú che da sé arebbe, per sé e per la casa sua, né piú sincera benivolenza né piú intera fede né maggiori condizioni.
Gittati il re questi fondamenti alle cose sue, cominciò a fare studiosamente provedimenti grandissimi di danari, e ad accrescere insino al numero di quattromila l’ordinanza delle sue lancie; divulgando fare queste cose non perché avesse pensieri di molestare, per questo anno, altri ma per opporsi a’ svizzeri, i quali minacciavano, in caso che egli non adempiesse le convenzioni fatte, in nome del re morto, a Digiuno, di assaltare o la Borgogna o il Dalfinato: la quale simulazione aveva appresso a molti fede di veritá, per l’esempio de’ prossimi re i quali aveano sempre fuggito lo implicarsi in nuove guerre nel primo anno del regno loro. Nondimeno, non si imprimeva il medesimo negli animi di Cesare e del re d’Aragona; a’ quali era sospetta la gioventú del re, la facilitá che aveva, sopra il consueto degli altri re, di valersi di tutte le forze del regno di Francia, nel quale aveva tanta grazia con tanta estimazione: ed erano note le preparazioni grandi che aveva lasciate il re Luigi, per le quali, poi che era assicurato del re di Inghilterra, non pareva che di nuovo deliberasse la guerra ma piú tosto che continuasse la deliberazione giá fatta; perciò, per non essere oppressi allo improviso, facevano instanza di confederarsi col pontefice e co’ svizzeri. Ma il pontefice, usando con ciascuna delle parti benigne parole e ingegnandosi di nutrire tutti con varie speranze, differiva per ancora il fare alcuna certa dichiarazione. Ne’ svizzeri non solo continuava ma accresceva continuamente l’ardore di prima; essendosi le cagioni cominciate da’ dolori publici, per lo augumento delle pensioni negato, per l’avere il re Luigi chiamato agli stipendi suoi i fanti tedeschi, per le parole ingiuriose e piene di dispregio usate contro alla nazione, augumentate da’ dolori dispiaceri e cupiditá private, per l’invidia che aveva la moltitudine a molti privati, i quali ricevevano doni e pensioni dal re di Francia, e perché quegli che piú ardentemente si erano opposti a’ principali di coloro che seguitavano l’amicizia franzese, chiamati allora volgarmente i gallizzanti, saliti per questo col favore della plebe in riputazione e grandezza, temevano si diminuisse la loro autoritá se di nuovo la republica si ricongiugnesse co’ franzesi: di maniera che, non si consultando e disputando col zelo publico ma con l’ambizione e dissensioni civili, questi, prevalendo di credito a’ gallizzanti, ottenevano che si recusassino l’offerte grandissime, anzi smisurate, del re di Francia. In questa disposizione adunque degli animi e delle cose, gli imbasciadori di Cesare del re d’Aragona e del duca di Milano, congregati appresso a’ svizzeri, contrassono con loro, in nome de’ suoi príncipi, confederazione per la difesa d’ ltalia, riservato al pontefice luogo di entrarvi insino alla domenica che si dice letare, della prossima quadragesima: nella quale fu convenuto che, per costrignere il re di Francia a cedere le ragioni del ducato di Milano, i svizzeri, ricevendo ciascuno mese dagli altri confederati trentamila ducati, assaltassino o la Borgogna o il Dalfinato; e che il re cattolico movesse con potente esercito la guerra dalla parte o di Perpignano o di Fonterabia nel reame di Francia, acciò che il re, costretto a difendere il reame proprio, non potesse, se pure avesse nell’animo altrimenti, molestare il ducato di Milano.