Storia d'Italia/Libro XIII/Capitolo IV
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IV
Le castella di Orciano e Sorbolungo, poste in luogo eminente, sono distanti l’uno dall’altro poco piú di due miglia; nel mezzo sono tutte colline e monticelli, e uno castello chiamato Barti, dove era alloggiata parte della gente di Francesco Maria: nella quale propinquitá degli eserciti si attese tutto il dí seguente a scaramucciare. Vari erano i consigli tra i capitani dell’esercito di Lorenzo: perché alcuni, e quegli massime dalla sentenza de’ quali non pendeva la deliberazione, confortavano che si andasse ad assaltare gli inimici, parendo forse loro, senza mettere né sé né altri a pericolo, col proporre vanamente consigli arditi acquistare nome di coraggiosi; ma Renzo e Vitello, il parere de’ quali era sempre seguitato da Lorenzo, dissuaseno questo consiglio, perché gli inimici erano alloggiati in sito forte, avevano il castello a ridosso dove non poteva andarsi se non per cammino difficile: dannando ancora il soprasedere in quegli luoghi come cosa inutile e da non partorire l’effetto per il quale si erano mossi da Pesero; perché essendo Sorbolungo in potestá di Francesco Maria, era molto difficile impedire le vettovaglie del Vicariato. Con le quali ragioni, avendo dannata ogn’altra deliberazione, ottenevano per necessitá che si dovesse ritornare indietro. E perché la ritirata non avesse similitudine di fuga, proponevano non che l’esercito ritornasse agli alloggiamenti di prima ma che si andasse a occupare Montebaroccio e i luoghi da’ quali si erano partiti gli inimici, donde si poteva procedere inverso Urbino. Con la quale deliberazione partí lo esercito la mattina seguente al fare del dí, ma si credeva questa essere non ritirata ma fuga. Dalla quale opinione, divulgata per tutto il campo, procedette che due uomini d’arme fuggiti a Francesco Maria gli riferirono gli inimici pieni di spavento levarsi quasi fuggendo. Però parendogli d’avere la vittoria quasi certa, mosse subito l’esercito per il cammino a traverso de’ monti, sperando di pervenire a loro come fussino calati nella pianura; i quali credeva dovessino andare per la via piú breve e piú facile: per la quale se andavano, non poteva né l’una parte né l’altra fuggire il combattere. Ma la fortuna volle che per salvare un cannone, rimasto indietro il dí dinanzi perché alla carretta si era rotta una ruota, l’esercito di Lorenzo andasse a ripassare il Metro al medesimo Mulino di Madonna, luogo piú basso piú di quattro miglia che quello al quale lo conduceva la strada piú facile e piú breve. Da cause e da accidenti tanto piccoli si variano nelle guerre eventi di grandissimo momento! Passorono tutti i cavalli e i fanti a guazzo ma con grandissima tarditá, e quegli che erano passati si voltavano subito in ordinanza per il piano verso Fossombrone. Era giá passata tutta la fanteria; e dovendo passare le genti d’arme e i cavalli leggieri che camminavano nell’ultima parte del campo, cominciorono i cavalli leggieri degli inimici, che erano molti ed eletti, a scaramucciare con loro: nella quale scaramuccia fu preso Gostantino, figliuolo, anzi non manco nipote che figliuolo, di Giampaolo Baglione, perché era nato di lui e d’una sorella sua. Però Giampaolo, il quale venuto non molti dí prima all’esercito conduceva l’avanguardia, attendendo a fare ogni sforzo per recuperarlo, tardò tanto che di avanguardia diventò retroguardo, succedendo nel primo luogo Lorenzo che menava la battaglia, e nel luogo della battaglia Troilo Savello che menava il retroguardo; perché Renzo e Vitello andavano innanzi co’ fanti. Ma come Francesco Maria e i suoi capitani veddono che gli inimici, secondo che avevano passato il fiume, si voltavano verso Fossombrone, si accorsono non essersi mossi per fuggire ma per occupare il Monte Baroccio: però cessando la cupiditá prima del combattere, fondata in sul terrore immaginato degli inimici, lasciate le bagaglie, corseno subito con somma celeritá, senza ordine alcuno e con le bandiere in su le spalle, per occupare uno passo forte del fiume chiamato le Tavernelle, dove la natura ha fatto uno fossato dirupato che piglia tutto il traverso d’uno piano insino al monte, né si può passare se non a uno passo che è fatto per la strada; al quale se gli inimici, che secondo passavano si voltavano a quella parte, fussino prevenuti, si riducevano in manifestissimo pericolo. E benché Lodovico figliuolo di Liverotto da Fermo il quale il dí medesimo era con mille fanti venuto nell’esercito di Lorenzo, e uno sergente spagnuolo, pratichi del paese, ne avvertissino Lorenzo e i suoi capitani, non feciono frutto alcuno; perché con tutto che i fanti tedeschi e guasconi si dimostrassino prontissimi a combattere, il medesimo si gridasse per tutto il campo, e apparisse Lorenzo non ne essere alieno, nondimeno Renzo da Ceri e Vitello consigliorno non essere bene farsi incontro agli inimici ma doversi ritirare a uno colle vicino, donde senza sottoporsi ad alcuno pericolo farebbono loro, nel passare il fiume, co’ cavalli espediti, danno gravissimo. Cosí, lasciato quel passo forte, Renzo si voltò verso il monte, e gli spagnuoli, come ebbono occupato quel passo, salutati con gli archibusi i tedeschi a’ quali erano piú propinqui, significorno con allegrissimo grido di conoscere di essere di manifesto pericolo ridotti alla salute quasi certa. Cosí, o per imprudenza o per viltá (se giá la malignitá non vi ebbe parte), perdé Lorenzo quello dí, a giudicio di tutti, l’occasione della vittoria. Alloggiò la notte l’esercito suo a uno castello vicino detto Saltara; ma l’esercito di Francesco Maria, continuando con grandissima celeritá il cammino insino a non piccola parte della notte, si condusse all’alloggiamento di Montebaroccio, prevenendo duemila fanti mandativi da Lorenzo per occuparlo: il quale andò, il dí seguente, ad alloggiare due miglia piú alto da Saltara verso il monte, luogo volto verso Montebaroccio, ma piú basso e dalla parte del mare. Stettono in questi luoghi amendue gli eserciti, vicini circa a uno miglio; ma con incomoditá maggiore quello di Lorenzo, il quale pativa spesso di vettovaglie: perché, portandosi da Pesero a Fano per mare, bisognava, quando i venti contrari impedivano la navicazione, condurle per terra, e a questo davano molti impedimenti i cavalli leggieri di Francesco Maria; i quali avvertiti da’ paesani di ogni andamento, benché minimo, degli inimici correvano continuamente per tutto.
Nel qual tempo mandò Francesco Maria uno trombetto a mostrare a’ fanti guasconi certe lettere trovate nelle scritture de’ secretari di Lorenzo, le quali, il dí che e’ si partí dal castello di Saltara, erano state insieme con una parte de’ suoi carriaggi tolte da’ cavalli degli inimici; per le quali lettere si comprendeva che il pontefice, infastidito delle disoneste taglie de’ guasconi, a’ quali era stato necessario accrescere ciascuno mese immoderatissimamente i pagamenti, desiderava si facesse ogni opera per indurgli a tornarsene di lá da’ monti: per le quali lettere era pericolo che il dí medesimo non facessino qualche tumulto se Carbone guascone loro capitano e Lorenzo de’ Medici, ingegnandosi di persuadere essere lettere finte e inganni degli inimici, non gli avessino raffrenati. Nondimeno il sospetto di questa cosa, la difficoltá delle vettovaglie, e lo essere alloggiati in luogo dove senza comparazione si mostrava maggiore il pericolo di perdere che la speranza di acquistare, fece deliberare di levarsi (ancorché non paresse senza vergogna il discostarsi tanto spesso dagli inimici) ed entrare nel Vicariato da quella parte che è piú vicina al mare, e procedere insino al fine verso Fossombrone: deliberazione approvata da tutto il campo, ma non senza infamia grande di Renzo e di Vitello; perché le voci di tutti i soldati risonavano che se da principio avessino deliberato questo medesimo arebbeno messo gli inimici in grande difficoltá di vettovaglie. Anzi Lorenzo medesimo gli riprendeva piú che gli altri; lamentandosi che, o per allungare per utilitá propria la guerra o per impedire a lui il farsi famoso nell’armi, forse temendo dalla grandezza sua effetti simili a quegli i quali aveva contro alle case loro prodotta la grandezza del duca Valentino avessino condotto in tante difficoltá e in tanti pericoli uno esercito sí potente e tanto superiore di numero e di forze agli inimici.
Andò adunque l’esercito a campo a San Gostanzo, castello del Vicariato; gli uomini del quale benché cercassino, battendosi giá le mura con l’artiglierie, di arrendersi, nondimeno, conoscendosi la facilitá dello sforzarlo e desiderando di mitigare gli animi gonfiati de’ guasconi, ritirati tutti gli altri soldati dalla muraglia, fu lasciata la facoltá di assaltarlo a’ guasconi soli, acciò che soli lo saccheggiassino. Preso San Gostanzo, andò il dí medesimo il campo a Mondolfo distante due miglia, castello piú forte e migliore del Vicariato, situato in su una collina in luogo eminente, cinto da fossi e di muraglia da non disprezzare, alla quale il sito del luogo fa terrapieno, e dove erano a guardia dugento fanti spagnuoli. Piantoronsi la notte medesima l’artiglierie dalla parte di verso mezzodí, ma o per negligenza o per inconsiderazione di Renzo da Ceri, il quale ebbe questa cura, furono piantate in luogo scoperto e senza ripari; in modo che, innanzi che il sole fusse stato una ora sopra la terra, furono dall’artiglierie di dentro ammazzati otto bombardieri e molti guastatori, e ferito Antonio Santa Croce capitano della artiglieria. Per il che commosso molto di animo Lorenzo, ancora che sconfortato da tutti i capitani, che quello che poteva commettere ad altri non volesse eseguire da se stesso con tanto pericolo, andò in persona a fare fare i ripari; dove essendosi affaticato insino a mezzodí, avendo proveduto opportunamente, si tirò indietro per andare a riposarsi sotto certi alberi, parendogli essere coperto dalla sommitá del monte: ma nello andare, mancando l’altezza del colle, scoperse la rocca per fianco situata dalla parte di ponente, né prima l’ebbe scoperta che vidde dare fuoco a uno archibuso; il colpo del quale per schifare gittandosi in terra bocconi, innanzi che arrivasse a terra, il colpo, che altrimenti gli arebbe dato nel corpo, gli percosse nella sommitá del capo, toccando l’osso e riuscendo lungo la cotenna verso la nuca. Ferito Lorenzo, i capitani accorgendosi che, ancora che fusse battuto il muro, restava troppa altezza del terrapieno, cominciorono a fare una mina, con la quale entrati sotto uno torrione che era contiguo al muro battuto gli dettono il quinto dí il fuoco; il quale avendo con grande impeto gittato in terra a mezzodí il torrione e uno pezzo grande della muraglia congiunta a quello, si cominciò subito a dare la battaglia, ma con poco ordine e quasi a caso, la quale non partorí altro frutto che quello che sogliono comunemente partorire gli assalti male ordinati: nondimeno, essendo venuta la notte, i soldati non sperando soccorso, perché Francesco Maria, o per non perdere quello sito o per altra cagione, non si era partito dallo alloggiamento di Montebaroccio, si arrenderono salvo l’avere e le persone, lasciando in preda bruttamente gli uomini della terra.