Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro primo/Capo quinto

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CAPO QUINTO

(Dall’Olimp. XCVIII, 2 alla CVIII, 2.)

I. Tirannide di Dionisio. Scoraggimento degl’Italioti. Suoi fatti nella Magna Grecia. II. I Pitagorici sono perseguitati da Dionisio. Teeteto pitagorico. Morte di Dionisio. III. Dionisio il giovine restaura Reggio, e la chiama Febea. Restituisce Caulonia. Congiura de’ Siracusani contro di lui. IV. Dione in Siracusa. V. Dionisio fugge in Locri. Tumulti in Sicilia. Morte di Dione. VI. Calippo libera Reggio dalla tirannide. Morte di Calippo. Dionisio fa ritorno in Siracusa. VII. Dionisio ed i Locresi. Sterminio della famiglia di Dionisio.


I. La caduta di Reggio mise in arbitrio di Dionisio la sorte delle rimanenti repubbliche della Magna Grecia, le quali scorate e discordi, offerivano nuova materia alla sua cupidità. Ed egli, ansioso di farsele soggette l’una appresso dell’altra, disegnò di assalirle separatamente e con avveduta lentezza; acciocché meno di lui si guardassero. E l’incauta confidenza nella quale gl’Italioti si riposavano facilitò al tiranno i mezzi di studiare il loro tracollo, e di rendere impossibile tra sè stessi una nuova colleganza, quando si fossero accorti de’ suoi astuti consigli. Con arti così fatte fu tradita a Dionisio la rocca inespugnabile di Crotone, e messo nelle costui mani il destino di questa illustre repubblica; e si arricchì delle dovizie ond’era copioso il tempio di Giunone Lacinia, il cui prezioso peplo vendette per centoventi talenti a’ Cartaginesi. L’improvvida Turio fu pure assalita e stretta da Dionisio, e si teneva spacciata; ma un subito e gagliardo vento di tramontana fece così aspro governo delle navi siracusane, che i Turini riconoscenti eressero un tempio a Borea. Quella repubblica di Locri, che accesa di odio inveterato contro i Reggini, si era con tanto giubilo imparentata col tiranno di Siracusa, seppe anch’ella, ma tardi, come sapesse di sale la dimestichezza di costui. Poichè ne fu rimeritata collo spoglio del ricco tempio di Proserpina, ch’era in tanta venerazione appo quel popolo. II. Dopo l’eccidio di Reggio, Dionisio, prima che ogni altra co[p. 38 modifica]sa, intese a perseguitare i Pitagorici, tra i quali era allora egregio il reggino Teeteto, che dettò varie leggi alla patria. Sapeva il tiranno che questi filosofi, predicando l’unione fra gl’Italioti, davano impaccio a’ suoi proponimenti, ed a quella tendenza oclocratica, che egli ed i suoi alleati Lucani avevano innestata negli ordini governativi. Nè gli usciva di mente che pitagorico era stato Pitone, il quale aveva così eroicamente propugnata la libertà de’ Reggini. Suscitò per questo contro i seguaci della scuola italica, che quasi in tutte le città tenevano i primi gradi dello stato, violenti tumulti; e massime infierì contro Eufemo, ch’era uno dei più risentiti, e principava il sinedrio di Metaponto. E se non lo avessero distratto le tribolazioni che i Cartaginesi tornavano a dargli continue in Sicilia, ed obbligavanlo a tenervi per difesa grosse schiere di armati, Dionisio avrebbe tuttaquanta signoreggiata la Magna Grecia.

Non neglesse però di promuovere varie pubbliche opere nelle contrade da lui dominate, e si conta che avesse disegnato di tagliar l’istmo da Terina a Scillacco, a far che il Tirreno comunicasse coll’Ionio. Ma in sul meglio de’ suoi sanguinosi trionfi, e de’ suoi tripudii domestici, gli si affacciò, non aspettata, la morte. Essendo stato egli proclamato vincitore nelle feste Lenee in Atene, per una sua tragedia (la Litra di Ettore), che vi aveva fatto rappresentare, come n’ebbe il grato annunzio, rese merito agli Dei dell’ottenuto successo, e fatto sagrifizio, ordinò grande e lautissimo banchetto. Ove, mentre ch’egli tra la corona de’ suoi cortigiani crapulava senza misura, fu preso da indigestione così fatta, che infermatosi, indi ne morì. (Olimp. 103, av. Cr. 368.). Era durata la sua tirannide in Siracusa trentotto anni, e diciannove in Reggio.

III. Morto Dionisio, scadde lo stato ad un suo figliuolo dello stesso nome, natogli dalla locresce Doride. Il quale poco pratico vedendosi nelle fastidiose faccende del governo, ne accollò il carico a’ suoi confidenti, e si dimostrò voglioso di un viver tranquillo e disoccupato. Sicchè quantunque avesse dovuto tenere come ereditaria la guerra co’ Cartaginesi per cacciarli di Sicilia, preferì di venire a conchiusione di pace. Lasciandosi correre a vita molle ed effeminata, cominciò da trascurare la disciplina delle milizie; e comechè fosse signore di uno stato, che avea fondamento, come diceva il vecchio Dionisio, sull’adamante, perdette in breve tratto tutto quanto aveva quegli conquistato con tanta astuzia, forza e perseveranza. Di che giovaronsi i Sicilioti e gl’Italioti, a’ quali chiaro appariva che il giovine Dionisio, nulla ritraendo dalla vigorosa e proterva indole del padre, il vinceva però ne’ vizii. Laonde si diedero a congiurare [p. 39 modifica]in occulto, per trovar tempo e modo di racquistare quella libertà, della quale li aveva spogliati il vecchio Dionisio.

E’ sembra che la mente del giovine Dionisio, all’esordio del suo governo, fosse soprattutto preoccupata delle cose della vicina Italia; perciocchè fu suo primo proposito di trasferirsi egli stesso in Reggio con ottanta triremi. (Olimp. 103, 3. av. Cr. 366.). E volle che per sua residenza vi fosse costruito un sontuoso palagio, cui ordinò che facessero leggiadro contorno due filiere di platani, albero introdotto allora per la prima volta nella Magna Grecia. E la città così nobilmente restaurò, che a’ Reggini fu mitigata la dolorosa rimembranza delle patite avversità. Certo è pure che ne’ primi anni della sua signoria nessuna cosa operò presso gl’Italioti, onde gliene seguisse rimprovero; anzi pose ogni studio a rimarginare le ferite che suo padre avea lasciate ancora aperte e sanguinanti. Conciossiachè dopo di aver rifatta e rabbellita Reggio in molte guise, e chiamatala Febea, quasi città del Sole, ebbe l’animo a far risorgere la distrutta Caulonia, ove volle inoltre che fosse fondato un edifizio a sua dimora.

Reggio, Caulonia, e Locri erano divenute l’ordinaria stanza di Dionisio, e radamente e’ passava in Siracusa, ove teneva le sue veci Timocrate. Ma le congiure de’ Sicilioti, che si maturavano di soppiatto, non tardarono a scoppiare in repentina e violenta sollevazione contro Dionisio; dalla quale mal sapendo guardarsi, fu rovesciato con tal precipizio, che fece meraviglia a que’ medesimi che avevano posto mano a ruinarlo. Della qual cosa dirò brevemente i principii, perchè non manchi chiarezza al mio racconto.

IV. Fra i cittadini di Siracusa che avevano grande stato, e per nobiltà ed altezza d’animo soprastavano altrui, era primo Dione, il quale aveva per moglie una sorella di Dionisio, detta Arete. Questo Dione mal tollerava che la patria sua gemesse sotto il peso della tirannide; nè il taceva a persona. Ciò non andava a sangue a Dionisio, il quale temeva che la popolarità del cognato potesse preparargli qualche mal giuoco. Quindi erasi messo nell’animo di farlo morire; ma Dione come prima n’ebbe sentore, si stette per più dì mucciato presso i suoi parenti: poi dileguatosi dalla Sicilia, fuggì a Corinto con Megacle suo germano, e con Eraclide, capitano delle guardie di Dionisio. Il quale allora saputane la fuga, per fargli villania forzò sua sorella a romper fede al fuggitivo, ed a passare a novelle sponsalizie con Timocrate ch’era suo favorito. Nel suo esilio Dione andò rivolgendo daddovero nella mente il proposito di mutare in fatto quel che prima non era forse che una generosa [p. 40 modifica]aspirazione, e studiò il mezzo di liberar Siracusa dalla servitù. Le sue pratiche cogl’Italioti e Sicilioti divennero calde e perseveranti; nè gli fu difficile volgere i Corintii ad ajutarlo come più potevano, ed apprestò armi e soldati. Condusse ivi a prezzo due navi onerarie, e fattavi montar sopra quanta gente vi capiva, con quelle sole da Zacinto veleggiò per la Sicilia. Alcune triremi ed altre navi onerarie dovevano essergli condotte fra non guari da Eraclide.

Giunto sulle rive siciliane, (Olimp. 105, 4. av. Cr. 357.) non affidato in altro che nelle promesse de suoi concittadini e nel suo ardire, Dione sbarcò senza esitazione a Minoa, picciola città del territorio agrigentino, sotto la signoria de’ Cartaginesi. Ristoratosi quivi alquanto, prese via per Siracusa. Nel suo viaggio, in cui ebbe a fido compagno l’ateniese Calippo, che tennegli mano all’impresa, e partecipò del trionfo, ingrossarono meravigliosamente il suo seguito quanti Agrigentini, Gelesi, Camarinesi, Modicesi ed altri Siciiioti fossero atti alle armi. E loro si congiunse molta parte dei Sicani e de’ Siculi, discesi a bella posta dalle contrade mediterranee. A tutti Dione dava cuore ed incitamento, tutti esortava alla grand’opera di francar la Sicilia. Come fu a Siracusa vi entrò tra le meravigliose feste della cittadinanza, quale persona aspettata con gran desiderio.

V. Mentre queste cose seguivano con inesprimibile rapidità, Dionisio inconsapevole dimorava in Caulonia, e suo cognato Timocrate governava per lui in Siracusa. Questi non sì tosto fu avvisato che Dione era sbarcato in Sicilia, spedì sollecitamente un messo in Caulonia a Dionisio, perchè a tutta fretta corresse in Siracusa a sedare colla sua autorità il già cominciato tumulto. Il messo senza indugio passò sul territorio di Reggio, e s’avviò per Caulonia; ma non vi giunse per un curioso caso avvenutogli, del quale non voglio passarmi tacitamente. Cammin facendo il messo si abbattè in uno di sua conoscenza, che tornando da un recente sagrifizio, seco recava un tocco di carne della fresca vittima; e com’ era uso tra i Greci, fecene parte al siracusano, che la ripose nella sacca, e riprese il cammino. Venuta la notte, cercando riposo alle stanche membra, si stese in un bosco presso la strada, e si addormì. In questa, un lupo, tratto dall’odor della carne, prese carne e sacca in una volta e se le portò via fuggendo. Nella sacca erano le lettere che Timocrate scriveva a Dionisio; e quando il messo, svegliatosi, non si vide allato la roba sua, non sapeva che farsi. Pure accorgendosi di quel ch’era dalle peste della bestia, cercò per ogni canto a raggiungerla, o almeno a trovar le lettere che potevano esser cadute per [p. 41 modifica]via. Ma quando gli tornò vana ogni sua fatica, era per darsi la testa alle mura; e non osando andare più a Dionisio, così senza lettere, si dileguò; nè per molto tempo fece ritorno a Siracusa. Per la qual cosa a Dionisio pervenne assai tardi e per indiretto la notizia della ribellione siracusana; e sebbene divorasse la via, egli non potè, essere a Siracusa che dopo sette giorni dell’arrivo di Dione, e quando alcun rimedio non valeva a domarla. Dionisio non trovando alcuna parte di Siracusani a lui favorevole, mandò tostamente Filisto a varie città della Magna Grecia con commissione di accattarne pronti soccorsi, ma non ne ottenne che scarsissimi; nè potette condurre da Reggio, ov’era ito a bella posta, altro che cento cavalli. E pervenuto in Siracusa, dopo un breve conflitto ne fu cacciato insieme a Dionisio. Il quale messo alle ultime necessità nella rocca ove si era chiuso, deliberò di fuggirsene; ed imbarcati di nascoso i suoi tesori e la roba, diede il tergo alla Sicilia, e si ricoverò in Locri.

Così Dione con mezzi tenuissimi ridusse a niente il dominio di Dionisio, che a que’ tempi era tra i più potenti stati dell’Europa conosciuta. Approdato con soli due legni in Sicilia, fu tanto secondato dalla fortuna, che tolse lo stato ad un principe, a’ cui cenni stavano ordinati centomila fanti, diecimila cavalli, quattrocento navi, arsenali a sufficienza, rocche munitissime, e potenti alleati. Ma doloroso premio conseguitò a Dione da’ suoi nobili fatti; e quel Calippo che gli era stato compagno di fortuna e di gloria, unitosi ai nemici del virtuoso uomo, tenne mano a levargli la vita. Imperciocchè una setta di sediziosi Siracusani, intolleranti di ogni freno, e del ragionevole e temperato governo, che Dione vi aveva intromesso, trassero Calippo ad unirsi loro, e spegnere il liberatore di Siracusa. L’ateniese, accecato dalla cupidità del comando, si lasciò persuadere all’infame misfatto; e Dione fu miseramente scannato a tradimento nella propria casa da taluni famigli Zantiotti, con un pugnale che Licone, uno de’ consapevoli, aveva loro somministrato. (Olimp. 106, 3. av. Cr. 354.). Ogni cosa allora in Siracusa fu piena di tumulti, uccisioni e sterminio; rabbiosi demagoghi contrastavansi con pravi modi il potere; e nessuna autorità più valeva, nessuna legge, nessun civile costume. In mezzo a tanti scandali gli amici del morto Dione suscitarono una sedizione contro Calippo, ma ne furono dispersi e costretti ad uscir di Siracusa. Questi però ne fu poscia scacciato da Ipparino (nato a Dionisio il vecchio da Andromaca) il quale venuto in questa città con forze bastevoli, (Olimp. 106, 4. av. Cr. 353.) se ne prese il supremo dominio, e lo [p. 42 modifica]tenne per due anni. Dopo de’ quali venne a mano di Niseo suo fratello; sinchè quest’ultimo non ne fu spogliato da Dionisio, che da Locri tornò a Siracusa; e vinta l’opposizione d’Iceta, tiranno dei Leontini, occupò quella parte della città che dicevano Isola; mentre Iceta rimaneva padrone delle altre due parti Neapoli ed Acradina.

VI. Calippo fuggito da Siracusa, e non avuto asilo in alcuna città di Sicilia, unissi a Leptine, ed entrambi si trasferirono in Reggio, la quale tuttavia, contenuta da un grosso presidio, durava obbediente a Dionisio. Un considerevole partito di Reggini, che non sapeva comporre l’animo a supportare la servitù della patria, era in pratiche di tornarla alla sua antica autonomia; e la venuta di Calippo e di Leptine affrettò l’attuazione dei generoso proposito. Il presidio di Dionisio fu scacciato da Reggio; (Olimp. 107, 2. av. Cr. 351.) e Calippo forse meditava di voltare ogni cosa a’ suoi versi, e ridurre a sè il dominio della città; ma in sul buono fu giunto dai siracusano Poliperconte che gli teneva le poste, ed ivi ucciso con quel pugnale medesimo, di cui per trafigger Dione si erano valuti gli Zantiotti. Reggio allora ritemperata allo stato popolare, in abbominio alla tirannide di Dionisio, ed a cancellarne la memoria tediosa, convertì le costui case in ginnasio, ed i platani che facevanvi ombra furono destinati e disposti ad abbellimento del Sisto.

VII. In tutto il tempo che Dionisio, esule da Siracusa, fece dimora in Locri, i cittadini sperimentarono la feroce indole del figliuolo della loro Doride. Non sì tosto egli fu accolto dai Locresi che intruse nella loro città un forte presidio, come a guardia della sua persona, ed ogni sua industria applicò a trovar nella libidine e ne’ soprusi un refrigerio alla sua sventura. Togliendo con bestial talento il fior verginale alle più leggiadre e nobili fanciulle locresi, si cattivò da’ cittadini un odio indicibile; i quali allora cominciarono a gustare l’amarissimo frutto del tanto festeggiato parentado. Ed alla ritornata in Sicilia del tiranno, i Locresi fatti liberi della sua presenza e ricordevoli delle vecchie e nuove vergogne, trucidarono i suoi soldati, imprigionarono la sua famiglia, e si dichiararono indipendenti (Olimp. 108, 2. av. Cr. 347.). Dionisio a tali novità mandò a persuadere i Locresi colle buone che liberassero i suoi; ma non avendo ottenuto cosa alcuna a niun patto, e’ li minacciò che sarebbe passato a distrugger Locri, ed a conseguir colla forza quel che non aveva potuto altrimenti. De’ nuovi minacci vendicaronsi brutalmente i Locresi; poichè dopo aver fatto perire in mezzo agli strazii la moglie ed i figliuoli di lui, delle costoro carni cibaronsi, le ossa nel frumento ne macinarono, ed in mare gittarono le squar[p. 43 modifica]ciate interiora. Così operando i Locresi mostravano di essersi accorti pur troppo quanto sia loro tornato funesto il dispetto contro i Reggini, che prima condusse alla rovina la repubblica di questi ultimi, ed ora riduceva essi stessi al disperato passo di avventarsi come belve all’odiata progenie del primo Dionisio. Era fatale adunque che i Locresi, collo sterminio della famiglia del secondo Dionisio vendicar dovessero la venerata ombra del reggino Pitone, la cui famiglia era stata disfatta dal vecchio tiranno.

Come sapesse di agrume a Dionisio la rabbia locrese, e la novella che Reggio si era sottratta al suo impero, lascio altrui imaginarlo. Egli si apprestava a lavare nel sangue le offese fattegli da que’ popoli, ma le fondate apprensioni della prossima venuta di Timoleone in Sicilia non gli concessero tempo, nè allora nè poi, di dare effetto alla meditata vendetta.

Affaticati i Siracusani dall’oppressione di Dionisio e d'Iceta, e gli altri Sicilioti dalle guerre civili, nelle quali non allentavano di soffiare i demagoghi che si eran fatti tiranni delle più cospicue città dell’isola, invitarono Timoleone, liberissimo uomo, a venir da Corinto per metter fine all’ambizione de’ tristi. I quali, mentre nelle popolari concioni si mostravano sviscerati della libertà colle studiate orazioni, non covavano altro disegno che farsene signori; e con tali arti Ippone era divenuto tiranno di Messene; Mamerco, di Catana; Iceta, de’ Leontini; Leptine, di Apollonia e d’Engiò; Nicodemo, dei Centuripini; Apolloniade, d’Agirio, e così altrettali di altre città; da’ quali erano continuamente assassinate e mangiate le pubbliche e private pecunie.