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Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro settimo/Capo quarto

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CAPO QUARTO

(Dall’anno 1648 al 1678)

I. Morte di Masaniello. Don Giovanni d’Austria. Il Duca di Guisa. Partigiani del Duca Antonio Oliva in Calabria. Restituzione del dominio spagnolo. II. Pestilenza nel Regno. Reggio, che n’è preservata, fa il voto del Cereo a Santa Maria della Consolazione. Morte di Filippo IV. Pace tra Spagna e Francia. Precauzioni contro i Turchi. Carestia. Subugli di Messina. I Merli ed i Malvezzi. Messina si dà a’ Francesi. Giovanni Alfonso Borelli. III. I Francesi vengono in Messina; la quale è poi assediata dagli Spagnuoli. Una squadra francese penetra nello stretto e libera Messina dall’assedio. IV. Battaglia navale tra Spagnuoli e Francesi. V. Reggio divien piazza d’armi, ed è fortificata. Angustie di Messina. VI. Pace tra Spagna e Francia. Messina è abbandonata da’ Francesi. Disperazione de’ Messinesi. L’autorità del Re di Spagna è restituita in Messina ed è chiamato ivi a riconfermarla il Conte Barbò, Governatore militare di Reggio. Mitezza del Gonzaga vicerè di Sicilia. Vendette Spagnuole.


I. Frattanto in Napoli Masaniello (1648) era stato ucciso a tradimento nel Convento del Carmine, nè per questo la rivoluzione scemava; ma anzi s’ingagliardiva in sommo grado, quando vi giungeva con numerosa fanteria spagnuola l’Arciduca Don Gio[p. 32 modifica]vanni d’Austria. I Napolitani ciononostante combatterono contro di lui con ardore ed energia massima; ma non lasciandosi reggere nè dal senno de’ migliori, nè da disciplina, nè da ordine, ed indeboliti dalle dissensioni intestine, credettero di sostenersi coll’appoggio straniero. Ed invitarono Arrigo di Lorena duca di Guisa, il quale era allora in Roma, che venisse a reggere la novella repubblica napolitana, ed a difenderla contro la potenza di Spagna. Alla lusinga di tanto invito il duca si lasciò prendere assai agevolmente; e mossosi ardito con poche feluche, speditegli a questo effetto da’ Napolitani, superò gli aguati dell’armata spagnuola, e pigliò porto in Napoli a’ quindici di novembre del 1647, dove fu accolto con quelle acclamazioni ed applausi, che suggeriva la stima della persona, ed il bisogno della città. Avendo spedito il duca nelle provincie suoi commissarii, inviò in Calabria Marcello Trussard a sostener la sollevazione contro gli Spagnuoli, e questi ebbe aiutatori all’impresa un Ireneo Paride giovine vigoroso e risoluto, ed il Signor della Serra. Uno de’ capi de’ sollevati di Reggio fu Antonio Oliva, il quale stando a Roma quando seppe le perturbazioni del Regno ritornò in Reggio sua patria. E giovine svegliato com’egli era, e cupido di fama, molta parte di popolo confortò a secondar le parti del duca. Ma intanto che a’ popoli si affacciavano le più liete speranze, intanto che il Guisa prometteva speciosi soccorsi, e protezione di Francia, era disposto ne’ fati che dovesse andare a male ogni più risoluto proponimento. Imperciocchè nè il duca seppe o far volle quello che e’ divisava, e che da lui speravano le genti; nè la Francia attenne le sue larghe promesse; nè Napoli potette per virtù propria rimutarsi di provincia in nazione. Le divisioni popolari, le esigenze del Lorena che anelava già di usurparsi il poter supremo, il sospetto del popolo contro di lui, la stanchezza di tutti per uno stato di cose disordinatissimo, agitato, e senza certo avvenire, tutte queste cose fecero sì che gli animi tornassero a piegarsi al governo spagnuolo, e che Napoli ricadesse nella primiera obbedienza. Ed il duca di Guisa, ch’era allora fuori Napoli, come seppe l’avvenimento prese via per gli Abruzzi, ma inseguito strettamente dagli Spagnuoli fu fatto prigioniero e condotto a Gaeta.

Ritornato il governo spagnuolo interissimo, ogni cosa fu piena d’imprigionamenti, di proscrizioni, di supplizii. L’Oliva fu tra coloro che campati, come per miracolo dalla pena della testa, soffersero durissima prigionia. Chiuso nel castello di Reggio, non ne fu liberato che nel 1652, a patto che uscisse immantinente degli stati spagnuoli, e non più vi rientrasse. Egli in tutta la rimanente sua vita [p. 33 modifica]non cessò mai di portare il picciolo cordone verde, che contrassegnato aveva i partigiani del Duca. L’esempio di Napoli fu tosto seguito nelle provincie, sì che sedati per tutto gli umori concitati del popolo, potè don Giovanni d’Austria a’ ventidue di settembre del 1648 partirsi da Napoli, e venir coll’armata a Messina a confermare al dominio di Spagna i Siciliani, ch’erano anch’essi tornati a ragione.

A questo termine venne la rivoluzione napolitana dopo tante speranze concepite, tanto sangue sparso, tanti sagrifizii fatti. Nè poteva esser durevole; chè la minuta plebe, la quale ebbe la più gran parte in tali moti, li rendette spaventevoli anche agli onesti patriotti, che desideravano, con mezzi morali, volte in meglio le condizioni dei paese loro. Tanto che i cittadini migliori disertarono volentieri da un’impresa, che vedevano contaminata da’ tristi, e travolta in tanti delitti. Tra l’oppressione, male grave, e l’anarchia, male gravissimo, non sapevano a che partito appigliarsi; ma si accorsero alfine che se l’oppressione travaglia ed accora i popoli, l’anarchia li logora e distrugge.

II. Perchè nulla mancasse al colmo delle pubbliche calamità, ivi a pochi anni venne a travagliare il Reame una crudele e mortifera pestilenza, che durò dal 1656 al seguente. Dalla Sardegna, ove il morbo infieriva terribilmente, era venuta in Napoli una nave spagnuola carica di soldatesche, delle quali il Vicerè avea pressante bisogno; ed a queste, per ordine speciale di lui, fu data libera pratica. In un baleno il contagio si appiccò alla città, e con tal violenza si spaziò, che rese vani tutti i salutari provvedimenti dati per arrestarlo o mitigarlo. La gran città diventò fetido ed orribil cimitero di circa quattrocento mila persone. Nè meno della metropoli era grande e paurosa la morìa nelle provincie; perocchè, tranne la Terra d’Otranto, e questa ulterior Calabria, tutte le altre rimasero miseramente desolate. Solo in Santa Cristina si manifestò qualche caso di peste, e mandò il gelo nelle ossa de’ Reggini, ma non vi fu altro seguito, ed ebbesi per cosa prodigiosa. Laonde la città nostra, che se ne vide preservata a così buon mercato, fece voto di recare ogni anno a’ ventuno di novembre in processione al Convento dei Cappuccini un grosso cereo, e celebrarvi una festa in onore e rendimento di grazie alla Santa Vergine della Consolazione. E fu preso in pubblico Parlamento d’incidere in marmo nella casa della città i passati e presenti favori della Vergine, e di trasferirsi al sopradetto giorno la festa solenne del ventisei di aprile.

L’anno 1665 terminò la sua vita Filippo IV, e gli fu successore Carlo II suo figliuolo di soli anni quattro di età, sotto la tutela e [p. 34 modifica]reggenza di Marianna d’Austria sua madre. Pareva che la tenerissima età del nuovo monarca, il governo di una donna, e lo stato tuttavia mal fermo delle relazioni politiche colla Francia dovessero mandare a male le cose di Spagna, ma così non avvenne. Nè nuovi rumori, nè nuovi commovimenti turbarono la pubblica quiete; ed il Regno si conservò in uno stato abbastanza tranquillo, e prossimo alla prosperità. La pace tra Spagna e Francia fu poi uffizialmente confermata col trattato di Aquisgrana, conchiuso a premura di papa Clemente IX. In quel tempo medesimo i Veneziani, dopo ventiquattro anni di guerra, e ventotto mesi di strettissimo assedio fatto da’ Turchi, si videro costretti di render a patti l’isola di Candia. Questa perdita, che fu sensibile a tutta l’Italia, fu gravissima al Regno, per rispetto del poco mare che era da capo d’Otranto al dominio de’ Turchi. Onde il Vicerè, considerando l’importanza del pericolo, non solamente fece porre in buon assetto tutte le piazze forti del Regno; ma spedì varie compagnie di cavalli per custodire le spiagge dell’Adriatico, ed esser preste a qualunque bisogno.

Poi dall’anno 1671 al seguente un’estrema carestia condusse a dolorose prove ed angustie il Reame. La fame fu gravissima in Reggio, e questa accresciuta due cotanti dal procedimento de’ vicini Messinesi. La cui città, per far riparo alla gran penuria che soffriva, fece disegno di armare una nave in corso, a fine d’impadronirsi de’ legni mercantili, che carichi di grani, o altri comestibili passassero per lo Stretto. Una volta fra le altre fu ghermita dalla nave messinese una tartana carica di grano, che il provvido magistrato di Reggio si aveva procacciato a grande stento. Erano sindaci Giovanni Melissari, Francescantonio Plutino, e Giulio Cesare Dattola, i quali si condussero a bella posta in Messina per far rimostranze del fatto. Ma con tutto il loro sforzo non potettero ottenere che una picciolissima quota del loro frumento. La nave corsara de’ Messinesi chiamavasi il Majorchino, e stava all’imboccatura del porto a fiutar le sue prede.

Tra il 1673 Spagna e Francia tornarono alle armi; e fu pubblicato bando che dentro un termine posto tutti i Francesi dovessero uscir del Regno. Così le cose nostre ricominciarono ad intorbidarsi, e gli uomini ad agitarsi. I Messinesi, irritati contro il Vicerè d’Ayala che avesse dati ordini pregiudizievoli a’ lor privilegi, e soffiati da emissarii francesi, insorsero contro di lui con violente ingiurie, le quali a poco a poco trasmodarono a violenti fatti, e divisero la città in due nemiche fazioni: quella dei Merli che alla Spagna si atteneva, e quella de’ Malvezzi che parteggiava per Francia. Mentre si cele[p. 35 modifica]brava in Messina la festa di Santa Maria della Lettera, un sartore espose nella sua bottega alcune allegoriche figure a beffe de Merli. Lo Strategò Diego di Soria marchese di Crispano procurò di calmare gli animi, che per quel tratto del sartore erano già venuti alle brutte. E n’aveva già ottenuto l’effetto; ma poi colla presura del sartore distrusse l’opera sua. Al tocco di una campana si trovarono sulle armi, e riunite presso a ventimila persone. I Malvezzi si scagliarono su’ Merli, e li spennacchiarono per bello e per buono. Le truppe spagnuole, a quel subito parapiglia, fuggironsi nel palagio reale; ed i Senatori si chiarirono amici a’ Malvezzi. Allora la rivoluzione fu compiuta, e Messina gittossi in braccio a’ Francesi. Tra i sollevati di quella città contro Spagna si noverarono parecchi uomini chiarissimi, come il celebre scienziato Giovanni Alfonso Borelli, nativo della nostra Santagata, ed i pittori Domenico Maroli, Onofrio Gabriello, ed Agostino Scilla; de’ quali il Maroli lasciò la vita in quella rivoluzione, e gli altri due errarono lungamente fuori della patria loro.

III. Non sì tosto volò in Francia la nuova degli avvenimenti di Messina, che per ordine di Lodovico XIV una flotta di sei vascelli di guerra e di molti altri legni da carico usciva a tutta fretta da Tolone, e comandata da Valbelle giungeva a soccorso di Messina nel settembre del 1674. A tal vista risonò vivissimo ed unanime per tutta la città il grido di Viva la Francia. I cittadini ajutati dall’armata francese cacciarono gli Spagnuoli dal forte San Salvatore che tuttavia occupavano, e del quale non seppe impedir la resa Melchiorre la Cueva, che da Reggio ove stanziava si era approssimato a Messina con ventitrè vascelli spagnuoli.

Quando poi Valbelle partì per Francia a condurre nuovi ajuti in Messina, gli Spagnuoli, traendo profitto della sua assenza, assediarono la città per mare e per terra, e togliendole i viveri la misero in poco tempo alle strette. Ma all’entrar del 1675 si seppe che sei vascelli di guerra francesi, e tre navi incendiarie venivano a Messina, e che lo stesso Valbelle li comandava. Eravi sopra il marchese di Vallavoire, che veniva in Messina come Luogotenente del re di Francia. Valbelle si avvide che una flotta spagnuola di ventidue vascelli, e ventiquattro galee gli era a fronte a contrastargli il passaggio; e questa era guidata da Melchiorre la Cueva, Capitan generale delle armate di Spagna. Ma il capitano francese, confidando nella sua buona fortuna, non fece ragione dello scarso numero delle sue navi, e prese l’ardita risoluzione di aprirsi alla dimane la via colla forza, e soccorrer la città. Per suo ordine il capitano Lafa[p. 36 modifica]vette, comandante di vascello, entrò il primo nello Stretto, e fece sì gran fuoco contro la Torre di Cavallo in Calabria, e contro quella del Faro in Sicilia, che li forzò a desistere da’ loro colpi incrociati, co’ quali volevano vietargli l’entrata nello Stretto. Altri cinque vascelli, che seguirono il primo, fecero egualmente sì bene il lor dovere, che al fremito del cannone francese gli Spagnuoli abbandonarono tutti i posti che occupavano sulle rive, e si ritrassero alle vicine colline. Intanto la flotta spagnuola, attonita dell’inudita audacia della francese, si teneva da canto inerte e dubbiosa, non mostrando la menoma voglia di voler contendere il passo agli avversarii. Il capitano Lafayette, che primo era entrato nello Stretto, primo ancora imboccò nel porto di Messina; ed in quel punto medesimo una palla nemica fracassava il posto della nave, dove egli sedea per governar le mosse della sua squadra. Così Messina era per la seconda volta soccorsa dai Francesi. Ma per colpa del marchese di Vallavoire, che quanto era valoroso in armi, tanto si dimostrava inetto al civil governo, i Messinesi cominciarono a svogliarsi della signoria di Francia, e stavano di malissimo umore. E dall’altra parte i Francesi, troppo leggiermente dimentichi delle loro antiche traversie nella Sicilia e nel Regno, non dismettevano le vecchie tracotanze, e gittavano il tempo nelle insolenze, e nelle più laide scostumatezze. Onde il re di Francia prese avviso di mandare in Messina il duca di Vivonne in luogo del Vallavoire; il qual Duca era assai innanzi all’altro e per autorità, e per sapienza governativa. Vivonne con otto vascelli di guerra giunse in vista della Sicilia nel febbrajo dello stesso anno.

IV. Questa volla Melchior la Cueva, che comandava venti vascelli e diciassette galee spagnuole, fece proposito di svilupparsi dalla vergogna di aver due volte lasciato libero il transito alle picciole squadre francesi, che portavano ajuti a Messina. Commettendo ogni sua speranza al numero assai superiore delle sue navi, fecesi a fronte dell’armata di Vivonne, e si atteggiò alla battaglia. Non menava che poco vento, e questo era agli Spagnuoli favorevole, i cui vascelli correvano a piene vele sull’armata nemica. Ma questa dal suo lato, non ostante la forte disuguaglianza del numero, poggiava a mezzogiorno e levante, e si maneggiava di prender vantaggio, e di appressarsi a’ suoi avversarii. E siccome questi ultimi, allungandosi nella lor linea, avrebber potuto attaccare ad un tempo le navi francesi, ed allacciarle, così Vivonne, per consiglio di Duquesne, ad evitare tal contrattempo, prese modo di lasciar grandi intervalli tra le sue tre picciole divisioni, appoggiandosi tutto al valore ed alla [p. 37 modifica]perizia degli uffiziali che le comandavano. Duquesne alla testa dell’avanguardo ebbe da prima a sostenere tutto solo il fervor della pugna; poichè a parecchi Spagnuoli premeva tanto di vincer questo vecchio marino, che gli fecero col loro numero ed ardore correre un momento di grandissimo pericolo. Nondimeno egli seppe star saldo al combattimento quasi senza alcuna perdita, sino a che Vivonne col suo corpo di battaglia colse il tempo di venirgli in soccorso. Erano già quattro ore che il fuoco durava da entrambe le parti vivissimo, quando Vivonne si accorse che le galee Spagnuole cominciavano a perder lena, e giudicò opportuno l’istante di riunire i suoi vascelli, e far che la terza divisione, comandata dal marchese de Preuilly d’Humières, che non si era ancor mossa, potesse assicurar la vittoria.

Dato il segnale della congiunzione, i vascelli di Vivonne e di Duquesne andarono all’improvviso al dinanzi del retroguardo di Preuilly, il quale dal suo lato si svoltò verso di loro in un attimo. Gli Spagnuoli, vedendo che i Francesi andavano a guadagnare il vento, prontamente si rivolsero per impedirneli, ed il combattimento ricominciò allora con massimo ardore; e la congiunzione de’ vascelli francesi non dava alcuna posa alle nemiche navi. Duquesne continuava ad esser fatto segno a tutti i colpi dell’avversario; ma impassibile a fronte di questa ricrudescenza di foga castigliana, tirava gagliarde bordate contro que’ vascelli, che si provavano di approssimarglisi, e li respingeva l’un dopo l’altro. La vittoria pertanto pendeva ancora incerta tra il numero e l’abilità, quando Valbelle, avvertito dal tuono dell’artiglieria di ciò che avveniva sul mare, uscì rapido del porto di Messina, menando in rinforzo a Vivonne i suoi sei vascelli. Egli giunse inaspettato sopra gli Spagnuoli, e quando le navi francesi impegnate nella zuffa si accorsero dell’ajuto che lor veniva in buon punto, si governarono in maniera che il nemico restasse bersaglio a due fuochi. Da quell’istante trentasette legni di Melchior la Cueva non in altro speraron salute che nella fuga. Parte della flotta spagnuola uscì dello Stretto, e si affrettò verso Napoli, parte si gittò a tutta prescia sulla marina di Reggio, sotto la protezione de’ forti di questa città, mentre la squadra francese entrava trionfalmente nel porto di Messina.

I Messinesi soccorsi per la terza volta salutarono Vivonne (ora Vicerè in mezzo alle frenetiche grida di Viva Maria, Viva la Francia. Ma per mala fortuna il governo del duca di Vivonne non rispose alle concepite speranze. Non seppe egli farsi amare da’ Siciliani; ed in vece di assodare e proseguir la conquista in Sicilia, [p. 38 modifica]consumava il tempo a cautelar se medesimo contro congiure più immaginarie che vere. Ma della sua inerzia non si facevano esempio i capitani della flotta francese, i quali sapevano segnalarsi con continue bravure. Ci basti il narrare che il capitano Tourville incendiò di bel giorno sotto il cannone de’ forti di Reggio una fregata francese, che scompagnatasi dalle altre era caduta in potere di dieci galee spagnuole. Il capitano de Leri, e Serpaut capitano di nave incendiaria assistevano Tourville in questo tratto arditissimo. Intanto il celebre Ruyter co’ suoi Olandesi alleati degli Spagnuoli entrava nel Mediterraneo (1676), con cui poi Duquesne ebbe l’anno appresso una famosa battaglia navale presso Milazzo, e la vinse gloriosamente.

V. Reggio al principio della sollevazione messinese era stata dichiarata piazza d’armi, dove il Vicerè di Napoli marchese d’Astorga aveva fatto andare buona parte del battaglione del Regno sotto il comando del generale Marcantonio di Gennaro, con istruzione di passare nell’isola tostochè ne fosse chiamato al bisogno da quel Vicerè marchese di Bajona. Ma avuto cattivo esito le cose degli Spagnuoli in Messina, la corte di Spagna ne fu irritatissima, e sfogò il suo sdegno contro i suoi uffiziali, accagionandoli della perdita di quella città così importante. Il Vicerè di Napoli costituì Governatore militare nella piazza di Reggio il General d’artiglieria Giovanni Battista Brancaccio in luogo del Marchese del Tufo, che dalla nostra città si era tramutato in Otranto collo stesso uffizio. Le milizie del battaglione del Regno, e quattromila cinquecento soldati fatti venir dall’Alemagna fecero la massa in Reggio, donde poscia come portava il bisogno, andavan passando in Sicilia. Nel Regno furon provveduti in gran parte tutti i soccorsi e le spese per la guerra di Messina; nel Regno si fecero nuove levate di fanti e di cavalli per il servizio di Spagna. Si provvidero in abbondanza di munizioni e di viveri le piazze di Reggio, di Milazzo, e della Scaletta. In Reggio principalmente nuove opere esterne di fortificazioni furono aggiunte al castello. Ingenti somme di denaro somministraronsi tanto per mantener le truppe che guardavano le frontiere della Calabria, quanto quelle che campeggiavano in Sicilia, o stavano a presidiarne le piazze. A dirlo in somma, tutto il pondo della guerra si aggravava sulle nostre popolazioni con nuovi ed intollerabili balzelli.

Messina intanto tornava ad esser gagliardamente investita dall’armata spagnuola; ed i Messinesi già si accorgevano che, malgrado tanti sforzi incredibili, e tanta perseveranza, non avrebbero potuto durarla più a lungo. Lamentavasi intanto apertamente il popolo Mes[p. 39 modifica]sinese che i Francesi non proseguissero colla medesima energia la guerra; ed uscì anzi voce che il re di Francia non avesse pensiero di conservar Messina al suo dominio, ma solo di far diversione alle forze di Spagna, colla quale era alle prese ne’ Paesi Bassi. Non pareva quindi sperabile che Messina fosse con un tratto vigoroso e deciso liberata da quelle angustie, nelle quali la tenevano le milizie spagnuole. In questa critica situazione i soldati francesi insolentivano nella travagliata città, ed in vece di gratuirsi il popolo lo inasprivano colle loro arroganze e col mal costume. Per la qual cosa cominciavan tutti a sfiduciarsi di quello stato così violento, e senza certo avvenire.

VI. Lodovico XIV intanto, che vedeva costargli tanti sagrifizii l’impresa di Messina, nè potersi fare alcun fondamento sull’intera rivoluzione dell’isola, che la Francia avea sperato, e che i Messinesi avean dato ad intender facilissima, cominciò seriamente a pensare di abbandonar quella piazza. Tanto più che l’Inghilterra guardava in cagnesco quell’impresa, ed accennava di congiungersi co’ nemici di Francia. E già da più tempo l’abbandono di Messina si era deliberato nel consiglio di Lodovico XIV; ed a’ diciassette settembre del 1678 fu tra Francia e Spagna sottoscritta la pace in Nimega. Allora il Maresciallo de la Feuillade fu mandato dal re di Francia a notificare a’ Messinesi che la città loro doveva esser riconsegnata alla Spagna. Quanta rabbia, dolore, e disperazione abbia messo negli animi di que’ cittadini la tremenda notizia, che fu sentenza di morte, ognuno di leggieri il comprenderà. Non sapevano gl’infelici Messinesi a che partito gittarsi; scongiuravano il Maresciallo che almeno tanto dimorasse tra loro, che avessero spazio di dar sesto alle lor cose, e salvezza alle persone. Ma ciò fu negato crudelmente, e moltissimi, disperando del perdono di Spagna, si assentarono dalla patria per fuggirsi a quella Francia, che fattili prima ribelli, li aveva poscia traditi. Ottomila tra nobili e popolani furono gli sventurati che le avite sedi abbandonarono; e l’armata francese che seco li portava, consegnava la patria loro alla vendetta spagnuola. Come subito i Francesi andaron via di Messina, ne fu dato avviso al conte Barbò governatore dell’armi della piazza di Reggio; il quale accorsovi incontanente col Vescovo di Squillace, e con alcuni uffiziali militari, introdusse in Messina il ritratto del re Cattolico Carlo II, alla cui vista tutti que’ cittadini fecero non ordinarie dimostrazioni di applauso. Vennevi indi a non molto il Gonzaga Vicerè di Sicilia, il quale concedette loro un ampio perdono colla restituzione di tutti i beni già confiscati, eccettuandone solo tutti quelli che colla fuga se [p. 40 modifica]n’erano resi immeritevoli. Impose a que’ cittadini che ogni fatto della passata ribellione dovesse porsi in dimenticanza, affinchè tutti d’un animo si adoperassero a far che allo scompiglio della cosa pubblica succedesse il ristoro della pace e della concordia. Mandò via tutte le soldatesche che sopravanzavano al presidio della città, e le milizie, che copiose stanziavano in Reggio, furono a Napoli richiamate.

Ma l’indulgenza del Gonzaga non andò grata alla corte di Spagna (1679); questi fu richiamato da quell’uffizio, e messo in suo luogo il conte di San Stefano Francesco Benavides. Il quale, secondando i desiderii rigorosi del governo Spagnuolo, tolse a Messina il Senato; di tutti i privilegi e franchigie la privò; fece demolire il palagio della città; e sparso di sale il suolo, fecevi ergere la statua del Re, fusa col metallo di quella stessa campana, che prima era servita a chiamare i cittadini a consiglio. E per porre un durevol freno al popolo Siciliano, vi fondò quella fortissima cittadella, che fu poi sempre propugnacolo nelle guerre e sollevazioni posteriori. Essa fu fabbricata sotto la direzione del colonnello di Grumbergh, e vi si spesero seicento settantatrè mila novecento trentasette scudi, ricavali dalla vendita de’ beni di quelli ch’eran fuggiti in Francia; oltre il servigio degli schiavi, delle navi, e de’ soldati. La sollevazione di Messina costò quasi sette milioni di scudi, emunti dal nostro reame che ne rimase impoverito; costò a’ Messinesi sterminati sagrifizii, e la perdita totale de’ lor privilegi. Furono questi i frutti che a Messina provennero dalla straniera ingerenza; dalla protezione francese; dal trattato di Nimega. Dalla qual pace sperava l’Europa lungo e stabil riposo (1678), per il maritaggio ch’indi segui tra il Re di Spagna e la principessa Maria Lodovica Borbone, nipote del Re di Francia. Ma così non fu; perchè nelle cose di stato le influenze de’ matrimonii mai non prevalgono alle vedute politiche, la cui potente ragione fa tacere i parentadi, e spegne gli affetti più intimi.