Storia di Torino (vol 1)/Libro I/Capo VII

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Capo Settimo


Cagioni della decadenza dell’impero Romano. — Facilità che ebbero i barbari ad occuparlo, non a conquistarlo. — Vicende di Torino in quel tempo. — S. Vittore vescovo di Torino, compagno di S. Epi­fanio, vescovo di Pavia, nella sua legazione a Gondebaldo, re dei Borgognoni.


È noto per quali cause Roma venisse da tanta grandezza a tanta ruina, che i barbari che l’occupa­rono non ebbero quasi che a stender la mano, e non si trovarono in man che un cadavere. Prima causa era ir difetto di nazionalità che lega le varie genti tra loro, e può legarle tutte ad un centro co­mune. Nell’imperio romano non v’era che Roma; Roma che tutto assorbiva, e i riti, le leggi, le arti, le usanze de’ vinti o distruggeva o si assimilava. Corpo d’un’estensione smisurata, e capo per soverchia con­centrazione pletorico e poi apopletico. Le principali altre cause poi sono: l’antica religione derisa, la nuova perseguitata; la dissolutezza pressoché gene­rale de’ costumi; il lavoro dispregiato; abbandonate [p. 62 modifica]ai servi ed ai liberti anche le arti ed i magisteri di cui dovrebbero onorarsi i più grandi cittadini; l’usurpazione dei pubblici poteri, che prima per conservar la libertà eran divisi tra molti temporanei magistrati, e che un uomo solo trasferì nella propria persona, facendosi scala del popolo che in tutti i tempi uguale a se stesso grida libertà, e porta sulle spalle i tiranni; quest’uomo solo, talora virtuoso e di gran cuore, ma più spesso dappoco, lascivo, falso, crudele e talora bestialmente scellerato ed obbrobrio­samente ridicolo, eletto dai soldati, costretto per evitare non la perdita sola dell’impero, ma le scale gemonie a sviscerare il popolo per satollare l’avidità soldatesca. Il tesoro esausto, e per la negletta agri­coltura niun modo di ristorarlo. E quindi, dopo il secolo ii, massimamente, rapacità fiscale, aspre pene a chi non coltivasse o coltivasse male: agricoltori fatti servi del campo che coltivavano, essi e la loro po­sterità in perpetuo; decurioni considerati come obbli­gati in proprio pe’ debitori del fisco fuggitivi od im­potenti; e quindi l’onore convertito in onere, anzi in ruina; e a quell’onore preferita la milizia, preferita la servitù, senza poterle ottenere; e non per questo meglio coltivati; anzi appunto per questo sempre più incolti e squallidi i campi; i mestieri anch’essi trascurati e perciò nel medesimo assurdo sistema divenuti forzatamente ereditarli; e quindi ergastoli e galere. Mancando gli armati a difendere sì estesi [p. 63 modifica]confini quali erano que’ dell’impero, ammessi i bar­bari a servir co’ Romani; prima semi barbari sola­mente, poi barbarissimi dal Caucaso, dalla Mongolia, selvaggi, schifosi; ma non più schifosi del lezzo im­mondo in cui s’immersero tanti Augusti sollevati al trono da’ pretoriani, fatti a pezzi dai pretoriani. Intanto i barbari ausiliarii, spettatori di quello sfa­celo, lo guardavano con occhio ingordo aspettando come veri avoltoi il momento di sfamarsi entro la vasta putredine. Roma avea giù ricevuto nel mori­bondo petto le percosse d’Alarico e de’ suoi Visigoti nel 410; poi giunse Attila, flagello di Dio, cogli Unni nel 452. Ma furono corse e non invasioni. Invasioni furono quelle d’Odoacre con Eruli ed altre genti raccogliticce, che fermò sua sede a Ravenna, e spense fino al nome dell’impero romano nel 476; di Teodorico cogli Ostrogoti, mezzo barbaro, e che potrebbe, in qualche contrada d’Europa anche al giorno d’oggi passar per civile, nel 493; finalmente Alboino co’ suoi barbarissimi Longobardi nel 568.

Ne’ tempi della decadenza dell’impero pochi fatti rammenta la storia che propriamente s’appartengano alla nostra città, che partecipò più o meno alle mi­serie italiane di que’ secoli tenebrosi. A’tempi di Vitellio, un artefice accusato qual frodatore da un soldato Batavo, protetto da un decumano Britanno, di cui era ospite, mise a rumor la città. I soldati decumani ed i Batavi s’impegnarono in quella rissa [p. 64 modifica]privata, e dalle ingiurie vennero ai colpi. Aspra battaglia he seguiva se le due coorti pretorie che vi stanziavano, minacciando i fiatavi, e mettendo loro paura, non li costringevano a posar l’arme. Poco stante tutte quelle genti levarono il campo, e par­tirono. Ma in sul partire lasciarono tanti fuochi ac­cesi, che s’appiccò la fiamma alle case, ed una parte della città andò in cenere. E Tacito che racconta il fatto non accenna, come si potrebbe supporre, che fosse quell’incendio un ricordo lasciatoci dai Batavi, ma si contenta di notare che quel danno, come per lo più i danni guerreschi, passò inosservato in mezzo al maggior scempio d’altre città.1

Morto nel 312 l’imperatore Costanzo Cloro in Inghilterra, i soldati che eran con lui gli diedero per successore Costantino, poi chiamato il Grande, mentre i pretoriani a Roma sollevarono al soglio Massenzio. Non volendo questi Costantino neppur per collega nell’imperio, lo provò nemico. Nel 312 dalle sponde del Reno Costantino si tragittò velo­cemente alle sponde della Dora, dove lo aspettava il primo esercito nemico. Paurosa cosa era a vedersi, dice il panegirista Nazario, quella sterminata mol­titudine, tutta vestita da capo a piedi di ferro, non l’uomo solo ma il cavallo, sicché alle punte ed al taglio mostravasi inaccessibile. Ma invece questi ca­tafratti, ne’ quali era il maggior nerbo della pugna, furono tutti da Costantino uccisi, sicché non ne [p. 65 modifica]scampò neppur uno, mentre de’ Costantiniani un solo non fu perduto.2 Così conta Nazario; ma se non è da fidarsi de’ panegiristi mascherati sotto al nome di storici, molto meno converrà fidarsi de’ panegiristi che fanno aperta profession d’esser tali. Il fatto è che Costantino visibilmente protetto da Dio e mu­nito del labaro miracoloso debellò e a Torino ed a Roma Massenzio, e rimase unico possessor dell’im­pero.

Nel 452 Attila, re degli Unni, era entrato in Italia, e già le sue bandiere sventolavano sul Ticino. I Torinesi attendeano a rinforzar le porte e le mura. S. Massimo, approvando quelle temporali difese, esor­tava il suo popolo a ricorrere all’armi più potenti della preghiera e del digiuno; proponea loro l’esempio di Ninive, che facendo penitenza de’ suoi peccati, fu salva, e lo esortava a non temere, e rialzava ne’ petti avviliti dal disastro d’Aquileja e dalla ferocia e cru­deltà degli Unni quelli spiriti confidenti e generosi, che soli danno cuore di guardar in faccia al pericolo senza smarrirsi, e viltà chiamava e quasi parricidio l’abbandonar in quel frangente la patria. E tale è appunto l’ufficio di chi regge popoli, cercar d’avvi­vare negli animi tepidi e paurosi la carità della patria, fonte de’ sentimenti più sublimi; insegnar come i primi doveri ed i primi affetti a lei debbono consecrarsi; mostrare come sappia e come senta altamente chi sa morire difendendola: « Rimanete a [p. 66 modifica]sua difesa, e Dio vi proteggerà; piangete le vostre colpe e pregate, e Torino non cadrà sotto le mani d’Attila ». Così diceva quasi profetizzando il santo Vescovo. Attila infatti non venne a Torino.3

Nel 488 Odoacre re dei Turcilingi e dei Rugi signoreggiava da tredici anni in Italia, quando Teo­dorico, principe dei Goti, otteneva da Zenone, impe­ratore d’Oriente, il permesso di conquistar per sè questa antica sede e centro dell’impero romano. Venuto con una sterminata moltitudine di genti (i barbari si moltiplicano agevolmente) vinse una prima volta Odoacre sulle rive del Lisonzo, poi altre volte in battaglie ordinate, finché strettolo lungamente d’assedio a Ravenna, l’ebbe a patti, e contra i patti l’uccise nel 493. Ma due anni prima, mentre ancor battagliavano, scese dall’Alpi re Gondebaldo co’ suoi Borgognoni, altri barbari che aveano occupata la provincia cui lasciarono il nome, la Francacontea, l’Elvezia, la Savoia. Da chi fosse chiamato dei due competitori non è nolo; forse da tutti e due; e pare che non potendo servirli ambedue, Gundebaldo pen­sasse a diservirli, poiché manomise da par suo queste contrade, le pose a ruba, e gran numero di genti condusse a piangere prigioniere sulle sponde dei Doubs e del Rodano.

Nel 494, rimasto Teodorico pacifico possessore dell’Italia, ebbe a sè S. Epifanio, vescovo di Pavia, e gli propose di recarsi a Gundebaldo e di trattar con [p. 67 modifica]lui del riscatto degli schiavi che avea fatti in Italia. Udì con letizia il pio vescovo quell’umanissima in­tenzione, e condiscendendo volonteroso alla pro­posta « Pregoti solamente, soggiunse, che tu voglia per concessione della tua clemenza darmi compagno nel viaggio e nella legazione Vittore, vescovo della città de’ Taurini, in cui si vede ad evidenza il com­pendio di tutte le virtù; poiché adoperando siffatto compagno, del Signor nostro con più fiducia confido, che niuna petizione ne verrà diniegata ». Alla qual domanda, dice Ennodio, l’eminentissimo re condi­scese, ed il tremendo pontefice salutatolo se ne partì.

I due santi vescovi, Epifanio e Vittore, nulla cu­rando i disagi, valicarono le Alpi nel mese perico­loso di marzo, e andarono a Lione, dove teneva corte il re Gundebaldo. L’alta fama di S. Epifanio e di S. Vittore l’avea già disposto a benignità. L’evan­gelica eloquenza d’Epifanio lo persuase e lo com­ mosse; onde liberò più di seimila schiavi, la maggior parte gratuitamente; con picciol riscatto quei soli ch’erano stati presi coll’armi alla mano.4

Con quella pompa più che regale, con sì splen­dido corteggio tornarono i due vescovi alle loro sedi, accolti con lagrime di gioia, con voci di giubilo, con mille benedizioni da tutti, ed in particolare da chi ricuperava un amico, un fratello, un marito, un padre.

Questi è quel S. Vittore che convertì l’oratorio [p. 68 modifica]in cui eran sepolte le ossa de’ martiri torinesi Solu­tore, Avventore ed Ottavio in degna ed onorata basilica con l’atrio di meravigliosa struttura e di rara celebrità.5

A’tempi di S. Vittore la basilica de’ nostri martiri era già un luogo famoso, segno di gran divozione e di frequenti pellegrinaggi: lo rammenta Ennodio nel suo itinerario di Brianzone:

Limina sanctorum praestat lustrasse trementem

Marlyribus lacrymas exhibuisse meas.
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
     .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Octavi meritis da Adventor redde Solutor

Candida ne pullis vita cadat maculis.

Ma nelle campagne rimaneva ancora qualche avanzo d’idolatria. I villici sempre tenaci delle an­tiche pratiche, tardarono assai più ad accettare il lume della fede; poi accettatolo, lo mescolarono lungo tempo con superstizioni pagane. Il regno de’ Goti finì in Italia colla morte del re Teja nel 553; non toccarono i Goti le magistrature romane, eser­citarono giustizia, si mostrarono in generale più tem­peranti che oggi non s’imagina chi è uso ad adom­brar col nome di Goto ogni maniera di colpa e di. barbarie. Ma se si lascino in disparte alcune azioni crudeli, Teodorico e Totila furono principi di gran mente e di gran cuore. E Giustiniano che guerreg­giando con Totila prima col mezzo di Belisario poi [p. 69 modifica]dell’eunuco Narsete, riuscì a spegnere la potenza de’ Goti, era assai men virtuoso di quelli, e i Greci di Romania, corrotti e corrompitori, crudelmente lascivi e lascivamente crudeli, spesso empi, facil­mente eretici, e sempre dialetticanti e teologizzanti, furono l’ultima rovina delle nostre contrade, che diè presto occasione all’altra maggior ruina, che fu l’invasione de’ Longohardi nel 568.

Certo se i Goti fossero stati cattolici e non ariani si sarebbero meglio italianizzati, non avrebbero ispi­ rato tanta ripugnanza ne’ popoli, ed avrebbero colla forza che hanno in sè le nature adolescenti e non evirate dai vizii e dalla mollezza potuto, piucchè niun’altra gente, ristorar le sorti d’Italia.


Note

  1. [p. 78 modifica]Lib. ii, cap. lxvi.
  2. [p. 78 modifica]Ad unum interfectis cataphractis omnibus tuis integris.
  3. [p. 78 modifica]Homil. xc, xci, xcii. Questo insigne pontefice e scrittore, disappro­vando, nell’esposizione del simbolo, gli intemperanti disputatori in materia di fede, scrivea: Esse Dei et posse non disculiendo assequimur sed cre­dendo.
  4. [p. 78 modifica]Ennod. In vita b. Epiphanii apud Sirmond.
  5. [p. 78 modifica]Atti de’ santi Solutore, Avventore ed Ottavio. Nel libro intitolato: Della passione e del culto de’ Ss. martiri Solutore, Avventore ed Ottavio. — Dissertazione del P. Zaccaria con note del dotto P. Carminati a pag. 184. Circa all’antichità di questi atti paionmi concludenti le ragioni per cui lo Zaccaria ed il Carminati li riferiscono al vi secolo.