Teoria della relatività/La relatività generale/Conseguenze cosmologiche

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Conseguenze cosmologiche

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XV


CONSEGUENZE COSMOLOGICHE1


Tra le conclusioni che Einstein ha tratto dal suo cambiamento delle concezioni dello spazio e del tempo, nessuna ha prodotto tanta sensazione come quella che, riferendosi all’infinità del mondo, [p. 135 modifica]lo sostituisce con un universo illimitato, ma definito e chiuso. Se noi vogliamo approfondire questa questione è bene aiutarsi con una immagine che Helmholtz ha usato nel suo celebre trattato: Gli assiomi della geometria. In esso egli parla di esseri immaginari “superficiali”, i quali non possono vivere che in due dimensioni, per esempio in un piano, i quali non percepiscono sensazioni se non in quanto la loro causa è in questo piano, e non possono risentire alcuno dei fenomeni della terza dimensione: è cosí ch’essi non noterebbero un lancio di pietra scagliata contro di loro. Rinvio i curiosi di tali speculazioni allo scritto satirico di Fechner: “L’ombra è vivente” (vedere nota pag. 83).

Immaginiamo ancora che questi esseri non dispongano che di una piccola distesa, per esempio un giardino; in confronto alla terra è ancora molto superiore allo spazio che noi uomini possiamo raggiungere in rapporto al mondo delle stelle. Sorge una discussione tra di loro per decidere se essi si trovano veramente su di un piano o se sono invece sulla superficie di una sfera: la maggioranza si dichiara per la prima ipotesi, la minoranza, che comprende le menti piú sottili, per la seconda. Metterle d’accordo sarà molto difficile: noialtri, esseri a tre dimensioni, percepiamo subito la differenza di un piano e di una sfera, ma per ciò fare la terza dimensione ci è assolutamente necessaria. Rappresentiamoci un essere ad una dimensione, che non si sposti altro che linearmente, per allungamento e contrazione per esempio; esso non potrà [p. 136 modifica]evidentemente mai sentire la differenza tra una retta ed una curva. Poiché tutte le operazioni o definizioni che servono a distinguere la retta — piú corta distanza fra due punti, linea che se ripiegata, ricopre se stessa —, suppongono almeno un piano. Alla stessa maniera, in uno spazio a due dimensioni non si può sentire la differenza di un piano e di una superficie curva: sarebbe assolutamente necessario di collocarli nello spazio a tre dimensioni; il problema è dunque insolubile, anche con ragionamenti matematici; tutti e due sono dei concetti non contradittorî, essi quindi esistono matematicamente. Ammettendo che i movimenti dei nostri esseri a due dimensioni siano limitati sulla superficie sferica, essi non possono risolvere la questione.

Sopprimiamo questa restrizione; accordiamo ai nostri amici una notevole libertà: solo il giro della terra resta loro interdetto. Si vede allora che non sarà loro difficile di acquistare una certezza sulla natura matematica della loro patria; tuttavia noi sappiamo ch’essi non possono immaginarsi in maniera concreta la differenza delle due concezioni possibili; ma ciò nondimeno non deve essere loro diffícile di risolvere la questione: si metterà facilmente in evidenza la curvatura della superficie terrestre, anche senza far valere le ragioni conosciute, le quali suppongono l’esistenza della terza dimensione (gli alberi di una nave che si avvicina appaiono per i primi sull’orizzonte; l’orizzonte si allarga a mano a mano ci eleviamo su di un’altura). È sufficiente misurare gli angoli di un triangolo qualsiasi; si sa che, [p. 137 modifica]in un piano, la loro somma è sempre uguale a due retti: sulla sfera i lati degli angoli non sono delle rette nel senso ordinario, sono delle porzioni di cerchio, e la somma è sempre superiore a due retti; questa misura d’angoli non avendo bisogno di rappresentazione nella terza dimensione è ben possibile per i nostri esseri a due dimensioni.

Arriviamo all’essenziale. Il teorema fondamentale sull’eguaglianza a due retti della somma degli angoli di un triangolo, non è valevole altro che nella geometria euclidea; nella geometria non euclidea, assolutamente logica in sé, la loro somma ha un valore superiore. Se, quindi, i nostri esseri a due dimensioni, misurando gli angoli di un triangolo, trovano per essi una somma superiore a due retti, sono assolutamente liberi o di dire: “Finalmente è dimostrato che il vecchio padre Euclide si è sbagliato: noi vediamo che i tre angoli di un triangolo non fanno due retti, come ha voluto farci credere, ma di piú” o al contrario: “è evidente che Euclide ha ragione e noi sappiamo finalmente che abitiamo la superficie di una sfera.” Non vi è bisogno di aggiungere che nel primo caso si ammette un mondo infinito, nel secondo un mondo illimitato chiuso, ma finito.

Noi vediamo cosí, che la geometria è, per cosí dire, il regolo col quale uno fa la sua misura e secondo la scelta alla quale si ferma trova un mondo finito od infinito. La spiegazione seguente sarà forse piú chiara: noi siamo abituati a considerare i nostri regoli graduati come restanti invariabili, “rigidi” come diciamo. Non è meno [p. 138 modifica]vero che dal punto di vista della teoria della relatività ciò è un’ipotesi gratuita. Per noi le distanze PA, AB, BC, PD, DE, EF, FG, sono uguali, mentre che PA’, A’B’, B’C’, e PD’, D’E’, E’F’, F’G’, diventano di mano in mano piú grandi. Supponiamo ora che un uomo si sposti sulla retta con un regolo che s’ingrandisce costantemente a misura ch’esso si allontana da P, in modo che le lunghezze PA’, A’B’, B’C’ etc. gli appariranno uguali egli troverà dunque i risultati, che noi troviamo per il cerchio, egli prenderà la retta per una curva e il piano per una sfera. Immaginiamo invece un osservatore che si allontani da P sul cerchio con un regolo che diminuisce; le lunghezze uguali PA, AB, BC, etc. gli sembra si allunghino come a noi PA’, A’B’, B’C’, etc; egli s’immaginerà di camminare su di una retta e in conseguenza prenderà la superficie finita della sfera per un piano infinito.

Si vede dunque che io considererei la stessa superficie come un piano infinito o come una sfera finita, a seconda della geometria che avessi scelto e i principi di misura che ne dipendono. [p. 139 modifica]Abbandoniamo i nostri esseri a due dimensioni e ritorniamo al nostro problema a tre dimensioni. Qui ci è necessario rinunziare naturalmente a guardare nello spazio. Poiché se noi volessimo sentire la differenza dello spazio infinito euclideo e dello spazio finito chiuso, il quale in tre dimensioni corrisponde alla sfera in due, ci sarebbe necessario situarli nello spazio a quattro dimensioni, come ci è stato necessario situare il piano e la sfera nello spazio ordinario. Ora lo spazio a quattro dimensioni non ci è sensibile anche a titolo di rappresentazione ausiliaria.

È un fatto ben conosciuto dai matematici che vi sono, a seconda degli assiomi presi come base, differenti geometrie, matematicamente parlando equivalenti. La scelta della geometria decide, come abbiamo visto, intorno alla maniera secondo la quale noi concepiamo lo spazio. La relatività generale esige la geometria di Riemann e non quella di Euclide, essa deve quindi proclamare lo spazio finito e chiuso. Ci condurrebbe peraltro troppo per le lunghe il metterci d’accordo sul fatto che l’intima connessione tra lo spazio e il tempo non porta in alcun modo la conseguenza che il tempo sia finito, come talora erroneamente si afferma.

Si fa, è vero, un’obiezione; si potrebbe dire: io suppongo un mondo euclideo: in mezzo un sistema di assi rettangolari, poi mi metto a misurare in linea retta con un regolo chilometrico; che cosa mi può succedere? Non posso cadere su di una barriera che chiuda il mondo, la mia misurazione continuerà sempre e per conseguenza il [p. 140 modifica]mondo è infinito. A ciò si può rispondere: il punto di vista è matematicamente inconfutabile nessuno dubita dell’assenza di contraddizione geometrica nello spazio euclideo: la sola questione è di sapere se conviene fisicamente. Se, per esempio, le linee secondo le quali noi collochiamo i nostri regoli non fossero né quelle che segue la luce, né quelle che percorre un corpo abbandonato a se stesso, noi saremmo meravigliati e ci domanderemmo a qual diritto noi continueremmo a chiamarle rette e se non fosse piú da savi cambiare la geometria piuttosto che capovolgere la fisica intera.

Aggiungiamo ancora questo: il mondo non è continuo. Mostra al contrario dei corpi enormi e degli atomi infinitesimali. Supponiamo che il nostro osservatore euclideo sia stato inviato a misurarlo. Egli a tutta prima percorre i dintorni del sistema solare, qualche centinaio d’anni luce, per esempio. Egli determina in questa occasione una grandezza media delle stelle, poi si sposta in una direzione qualsiasi nell’universo. Se, continuando la sua corsa, astrazion fatta delle particolarità individuali, egli trova che in media le stelle s’ingrandiscono a mano a mano, il nostro uomo si dirà: “Qui c’è qualche cosa che non va piú. Perché mai nell’universo intero è proprio il mio punto di partenza che possiede questa bizzarra proprietà: i corpi celesti considerati a partire da questo posto pare s’ingrandiscano a misura che si allontanano. Ciò dipende certamente dal mio regolo; è chiaro ch’esso deve diminuire e crearmi la illusione di un ingrandimento crescente delle [p. 141 modifica]stelle e dell’infinità del mondo. Se io prendo, come nella figura precedente, la linea curva chiusa al posto della retta, tutte queste deformazioni, evidentemente anti-naturali, cesseranno.” E ciò che accade in grande per i corpi celesti, accade in piccolo per gli atomi: si può considerare come dimostrato dai risultati della spettroscopia che tutti gli astri posseggono degli atomi identici ai nostri. Quindi solo per mezzo di considerazioni fisiche, giammai puramente matematiche, potrà essere sciolta la questione della infinità o meno del mondo a seconda della geometria che si sceglie o dei principi che ne dipendono. Noi abbiamo un piú semplice criterio ancora di quello piú sopra citato: in un mondo finito vi è solo un numero finito di corpi celesti e quindi di atomi. “Il numero dei corpi celesti in grande e degli atomi in piccolo, è quindi quello che risolverà in via definitiva la questione se il mondo sia finito o infinito.” La teoria della relatività generale quindi deve accettare questi numeri come finiti ed in ciò appunto consiste la sua piú singolare conclusione.

Einstein ha dato una formula che permetterebbe di calcolare la grandezza del suo universo sferico, ma essa suppone la conoscenza della ripartizione media delle masse nell’universo, ripartizione sulla quale i dati sono molto imprecisi.

La concezione di Einstein sembra dover trarre l’astronomia da una posizione ben penosa. Se si ammette uno spazio infinito che presenti una ripartizione presso che regolare delle stelle — [p. 142 modifica]trascureremo le irregolarità locali — si cade in effetti in una difficoltà. Figuriamoci una sfera descritta attorno a noi, che ne costituiamo il centro, e così grande che delle piccole ineguaglianze non siano in essa percettibili; le stelle che vi si trovano, ci inviano una certa quantità di luce. Raddoppiamo il raggio della sfera: ogni stella si troverà in media due volte più lontano, e noi non percepiremo che il quarto della luce ch’essa ci inviava. Ma nello stesso tempo il volume della sfera, e con esso il numero delle stelle, se noi ammettiamo una ripartizione regolare, è stato moltiplicato per otto. E poiché noi possiamo naturalmente continuare cosí, raddoppiare il raggio della sfera, per quanto grande esso sia diventato, triplicarlo, quadruplicarlo, si dimostrerebbe che ogni punto di tutto il firmamento dovrebbe brillare in media di una luce pari a quella del sole.

Per evitare questa conclusione assurda, si dovrebbe ricorrere alle masse oscure o ad un assorbimento della luce da parte dello spazio, in ogni caso, ad un’ipotesi appositamente ideata. Rimarrebbe pur sempre invariata analoga difficoltà nei riguardi dell’azione di gravitazione delle stelle. In conseguenza l’astronomia deve prescindere dalla ipotesi di una eguale ripartizione di tutte le stelle sino all’infinito.

Certo tutte queste speculazioni non possono terminare se non con un punto interrogativo, che non può essere tolto per ragioni dipendenti da cognizioni generali teoriche. Esse sono valevoli solo per la ipotesi di un uguale empimento [p. 143 modifica]dello spazio con la materia, per un’ipotesi cioè che non può essere dimostrata astronomicamente e neppure ha la necessaria connessione con i principî base della Teoria della Relatività generale.

Se io, nonostante seri dubbi sulle questioni accennate, ho compilato questo capitolo, l’ho fatto non solo perché la sua mancanza nelle precedenti edizioni fu considerata da molte stimate voci un difetto, ma anche perché questi problemi in effetti hanno suscitato un generale interesse; il lettore dunque si aspetterà un capitolo che li riguardi. Inoltre in altri scritti di volgarizzazione riguardanti il nostro tema mi sembra che le questioni su accennate siano state trattate non sempre e da tutti con la necessaria e giusta precauzione.

Note

  1. Per questo capitolo grande incitamento ho ricevuto da molteplici conversazioni avute col Prof. Dr. Böhmer di Dresda.