Tigre reale/XVII
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XVII.
Erminia non avea dormito neppur essa; si levò abbattuta e disfatta in viso; sembrava inquieta anche lei, le sue mani tremavano sul ricamo. Verso il tocco si udì una scampanellata; ella, senza muoversi, col capo chino sul telaio, avvampò ad un tratto in viso, e istantaneamente si fece ancor più smorta di prima.
Dopo il primo saluto, i due cugini rimasero zitti alcuni momenti, come subissero un inesplicabile imbarazzo; ella punzecchiava il suo canovaccio più febbrilmente che mai. — Carlo, gli disse infine senza distogliere gli occhi dal disegno, cosa hai risoluto di fare? Il giovanetto sentì la vibrazione sonora che c’era nella voce pacata di lei.
— Nol so... rispose esitando e sottovoce come lei.
— Bisogna che tu parta... La mamma, vedi, parla così... perchè certe cose noi altre donne non le possiamo sapere... Se dai retta a noi altre donne, ti rovinerai nella carriera e sarebbe un gran danno... Bisogna partire.
— Tu lo vuoi?... diss’egli così piano che appena si sentiva.
— Bisogna che tu faccia il tuo dovere...» balbettò più pallida che mai e cogli occhi gonfi... Bisogna fare il nostro dovere, Carlo...
— Partirò, rispose il giovanetto chinando il capo.
Non dissero più nulla.
— Partirò col treno di stasera; ripetè infine Carlo.
Ella ricamava sempre, col capo basso, anzi più basso di prima, e delle lagrime calde le cadevano ad una ad una sulle mani. Ad un tratto gli stese quelle mani tutte bagnate, convulse e tremanti, e così rimasero faccia a faccia, senza dire una parola.
— Addio! diss’egli, addio! farò il mio dovere...
— Anch’io! mormorò Erminia ricadendo sul canapè.
Il dottore era stato chiamato in tutta fretta. La signora Ruscaglia, che veniva dall’accompagnare il nipote colle sue querimonie sino alla stazione, era accorsa tutta scalmanata. Erminia avea una febbre violenta con delirio, e il male mostravasi tanto più pericoloso quanto più era stato trascurato, e sembrava irrompere tutt’a un tratto, con una veemenza che non dava tempo a combatterlo. Rendona avea messo tutta la casa sossopra in un batter d’occhio, ed erano anche stati chiamati due altri medici per fare un consulto. La Ferlita andava e veniva come un sonnambolo; ascoltava quello che dicevano i medici, seguiva cogli occhi le persone che si affaccendavano per le stanze; di tanto in tanto si passava una mano sulla fronte.
— Che te ne pare? domandò a Rendona mentre costui rientrava in sala. L’altro si strinse nelle spalle: — Cosa vuoi che ti dica?... vedremo domani al cedere della febbre...
Giorgio sedette di botto come se le gambe gli mancassero.
Verso mezzanotte era arrivato un dispaccio urgente da Acireale per Rendona.
— Dite che non posso, rispose costui dopo averlo letto. Telegrafate.
Giorgio ascoltava istupidito; tutta la notte la passò al capezzale dell’inferma senza muoversi; sembrava fosse stato colpito più mortalmente della moglie.
L’indomani la febbre rimesse un poco, il delirio cessò, ma il male si mantenne ancora gravissimo. Tornarono gli altri due medici a consulto.
— Cosa dicono? domandò nuovamente La Ferlita appena se ne furono andati.
— Nulla di nuovo; non abbiamo peggiorato», rispose Rendona.
— È salva! esclamò Giorgio.
— No... non ho detto questo... Vedremo.
Tutto il giorno fu un va e vieni di medici, di amici che s’informavano alla porta, di amiche che venivano un momento a bisbigliare sottovoce in sala fra di loro, e a strascinarvi il fruscìo delle loro vesti. La sera calò lenta e triste, una sera d’estate, calda, pesante; i lumi cominciavano ad accendersi; il rumore delle carrozze si udiva più forte e vicino adesso che era cessato il frastuono del giorno; dalle finestre aperte, fra le grandi tende immobili, le stelle cominciavano a tremolare in fondo ad un cielo grigiastro; a poco a poco la luce rossigna del gas si disegnò qua e là sulle muraglie delle case di faccia, vincendo il chiarore incerto del crepuscolo; passavano per la via tutti i consueti rumori della sera; nella gran camera silenziosa e quasi oscura arrivava l’eco di quei passi discreti che si erano uditi tutto il giorno e non osavano avvicinarsi all’uscio; si udiva frequente, sommesso e timido il tintinnìo del campanello in anticamera, e di quando in quando la vocina del povero Giannino che strillava fra le braccia della balia nella camera accanto, come se sapesse la sciagura che lo minacciava... Le ore dal tramonto sino alla mezzanotte durarono eterne. L’ammalata non delirava più, non si lagnava più, stava immobile, rivolta verso la finestra, col viso nell’ombra, gli occhi chiusi penosamente; di quando in quando li riapriva a stento; si udiva la sua respirazione irregolare e a scosse.
Verso mezzanotte Rendona, affranto dalla fatica, disse che andava a riposare un poco, poichè lo stato dell’inferma in quel momento lo permetteva. La signora Ruscaglia era più morta che viva.
— Va a dormire anche tu una mezz’ora, disse il medico a Giorgio posandogli una mano sulla spalla. Devi esser rifinito anche tu.
Giorgio scosse il capo, e non si mosse dalla poltrona ai piedi del letto.
— Ma Giulietta farà quanto te, e meglio di te; alle due o alle tre poi verrai a rilevarla.
— No, disse Giorgio con la voce rauca che aveva dalla mattina. Non ho sonno.
E rispondeva sempre: — È inutile, non ho sonno. Infine Rendona lo lasciò stringendosi nelle spalle.
La Ferlita non avea sonno, ma era affranto. I suoi nervi si contraevano penosamente, e sentivasi le tempia prese in una morsa gigantesca; gli si ripercuoteva penosamente dentro il cervello il rumore delle ultime carrozze e i passi rari che si udivano sotto le finestre; il caldo di quella notte di giugno lo spossava. In mezzo al grande stordimento della sua mente c’era un guazzabuglio confuso, doloroso, il passato, il presente, le vicende turbolenti della giovinezza, i ricordi più lontani e insignificanti, Nata, suo figlio, Firenze, Erminia, la chiesuola di Tremestieri, il viso che avea Rendona quando gli avea detto vedremo, Carlo che solcava il mare, il treno che sbuffava alla stazione di Acireale, tutte queste cose che si urtavano, che si arruffavano, che si confondevano insieme. In mezzo a quel turbinìo c’era sempre la figura di quell’inferma su cui teneva gli occhi fisi, tal quale la vedeva in quel momento, rivolta verso la finestra e col viso nell’ombra. Il suo pensiero rifaceva continuamente lo stesso camino, dal viale Principe Amedeo alla chiesuola di Tremestieri, e andava a finire a quel letto bianco su cui l’ombra del paralume disegnava un gran cerchio scuro. Poi ricominciava da capo. A poco a poco in quel gran cerchio scuro si rilevava il corpo di Erminia con contorni indecisi, che si perdevano e sfumavano nelle larghe pieghe della coperta, e a forza di fissarvi lo sguardo quel corpo si vestiva di quella tal veste scura a pieghe molli che cadevano sul tappeto ai piedi dal canapè, com’egli soleva vederla di tanto in tanto, vicino al medesimo lume che dorava quella nuca bianca, screziata dalle ombre leggiadre dei ricci più fini... e Carlo veniva a mettersi là, fra lui ed Erminia, chetamente, senza far rumore. Allora si ricordava di quell’altra donna lontana, gli pareva di vederla in quella camera d’albergo, colle braccia tese, gli occhi da fantasma — il suo spettro sorgeva ad ogni tratto dall’ombra, inaspettato, minaccioso e severo, e sembravagli che egli stesse a guardarlo stupidamente, senza sentir nulla in fondo al cuore; poi sentivasi invaso da una gran paura del fantasma immobile e muto; allora girava gli occhi smarriti per le note pareti che l’attorniavano, li riposava su tutti gli angoli, su tutti i mobili che conosceva minutamente e che sembravano circondarlo da tutte le parti come se lo abbracciassero mollemente, per mezzo della tappezzeria a gran fiori, delle tende immobili a larghe strisce orientali, del canapè trapunto e imbottito. L’orologio della camera suonava lentamente le ore una dopo l’altra, con rintocchi netti e sonori, come uno squillo che gli era famigliare anch’esso; poi rispondeva l’orologio della chiesa vicina, poi, ad uno ad uno, nel silenzio della notte, spesso confondendo insieme i rintocchi, tutti gli altri che conosceva, che gli rammentavano delle altre ore passate in quella stessa camera, che gli presentavano con una singolare chiarezza di contorni e di circostanze le immagini di altri avvenimenti, di altri particolari domestici che non credeva di ricordare più, che erano passati forse inosservati e che ora, sfumati così nella lontananza, avevano una idealità dolce, malinconica ed amara nel tempo istesso: erano le ore passate accanto a quel canapè, mentre Erminia ricamava — quella sera in cui non erano andati al ballo, ed ella riempiva tutta la poltrona colle balzane leggiere e rigonfie della sua veste — i dolci colloquj, semplici, affettuosi, intimi d’allora, quando si dicevano tutto, in cui non avevano negli occhi dell’imbarazzo, in cui non ci avevano delle febbri, dei turbamenti, degli altri fantasmi lontani, assorbenti, gelosi, implacabili, quando la pace di quella camera era ancora inalterata, e facevano dei progetti, e parlavano insieme dell’indomani, di Giannino, della campagna con fiducia. Allora quel tempo passato rivestivasi di tutte le iridi dell’ideale. Giorgio v’immergeva il suo pensiero affaticato con l’energia di chi sente il bisogno di riposo. Il presente lo sorprendeva sempre, inesorabile, all’improvviso, con l’immagine di Erminia che era là, rivolta verso la finestra, col viso nell’ombra. Mentre teneva gli occhi fisi su di lei cercava di indovinare per quali lotte fosse passata ella pure prima di allontanarsi da lui, cercava di leggere su quei lineamenti, che nell’ombra sembravano cangiare di aspetto ad ogni istante, al pari di quelli di una sfinge, quali passioni si svolgessero mostruosamente in mezzo ai vaneggiamenti del delirio. Le ore continuarono a suonare, monotone, impassibili, l’una dietro l’altra, con lunghi intervalli.
Verso l’alba l’inferma cominciò ad essere agitata. Giorgio seguiva i movimenti di lei con sguardo ansioso, senza osar di fiatare. Ad un tratto si accorse che gli occhi di Erminia erano spalancati, e che da alcuni istanti li teneva fissi su di lui con una singolare tenacità. Ei si levò, e stette ritto dinanzi a lei. Gli occhi di Erminia erano attaccati su di lui con tale insistenza, con tale espressione che gli strapparono la prima parola:
— Cosa vuoi?
Ella non rispondeva, guardandolo sempre a quel modo; brancolava col braccio fuori dalle coperte, quasi cercasse qualche cosa, poi gli afferrò la mano.
— Voglio parlarti, gli disse con voce appena intelligibile. A lui parve che quella mano gli stringesse il cuore.
— Ho amato Carlo!... riprese Erminia vincendo un gran turbamento.
Egli mosse le labbra più volte, senza che alcun suono ne potesse uscire.
— Perdonami... singhiozzava l’inferma dopo un silenzio più lungo. «Ho bisogno che tu mi perdoni... Giorgio!... Non sono colpevole, sai!... Non sapevo d’amarlo... non me n’ero accorta... ho pianto tanto tanto... ho tanto sofferto!... gli ho detto d’andarsene... ed egli se n’è andato... Non è mia colpa se è stato più forte di me... se mi è parso di morire... Ma lui non ne sa niente... ti giuro!... nessuno sa quello che ho sofferto... Non dirlo a Giannino... non dirlo nemmeno alla mamma... dimmi che mi perdoni... dimmi che non mi lasci in collera!:...
Giorgio non rispondeva, piangeva silenziosamente, col viso nascosto nell’ombra della ventola. Ad un tratto volse il lume su di lei, temendo che fosse delirante; allora scorse quell’espressione d’angoscia indicibile e le vide il viso tutto bagnato di lagrime. Non le disse una sola parola, si chinò sul letto, la abbracciò stretta, colla fronte su quella di lei, e confusero insieme le loro lagrime.
— Oh! come mi fa bene!... Come mi fa bene sentirmi bagnata dalle tue lagrime!... Come mi fa bene vedere che tu piangi!... Perchè non hai pianto?... da tanto tempo!... da tanto!... Come mi fa bene!... Mi sembra che facciami rinascere... Mi sembra che guarirò...
Egli non osava dirgli come fosse colpevole, sentiva che ella lo sapeva, non osava domandarle quel perdono che gli era anticipato generosamente. Singhiozzava forte, a scosse, senza staccarsi da lei; l’alba entrava dolcemente dalla finestra — come in quell’albergo — e imbiancava quell’altro viso trafelato d’inferma.
— Tu guarirai!... balbettava alfine Giorgio con voce rotta — senti cosa ti dico, tu guarirai!... e saremo felici un’altra volta... partiremo per la campagna... Là staremo insieme... Sempre insieme!... e nessuno!... nessuno!...
— Come mi fa bene sentirti parlare così!... Come mi sembra bella l’alba!... Mi sento meglio, sì, mi pare di star meglio... Fa venire Giannino... Povero bimbo! Fammelo vedere...
Giorgio andò a prendere il bambino, in punta di piedi, e la madre l’avvinse in un lungo e muto abbraccio, colle lagrime impietrate nell’orbita; poi passò quel povero braccio debole e stanco anche sul collo di Giorgio, ed entrambi si tennero stretti su quel piccino roseo e fresco, che li guardava con i suoi grandi occhioni ancora imbambolati dal sonno.
— Un miglioramento infatti c’è, e sensibilissimo, disse Rendona ch’era venuto per tempissimo. Un vero miglioramento sul quale si può contare. Alla buon’ora!... forse la scapperemo bella anche quest’altra volta, borbottò fra i denti.