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Timoleone (Alfieri, 1946)/Atto primo

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Atto primo

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Personaggi Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Timofane, Echilo.

Timof. Echilo, no; se al fianco mio la spada

tinta di sangue vedi, a usar la forza
non sono io tratto da superbe voglie:
ma il ben di tutti a ciò mi spinge, e il lustro
di Corinto, che in sua possa affida.
Echilo Sa il ciel, s’io t’amo! Dai primi anni nostri
stretti s’eran fra noi tenaci nodi
d’amistade, a cui poscia altri piú santi
ne aggiungevam, di sangue. A me non sorse
piú lieto dí, che quello ov’io ti diedi
l’unica amata mia germana in sposa.
Oltre all’amor, di maraviglia forte
preso m’hai poi, quando inaudite prove
del tuo valor contro Pleóne ed Argo
mirai, pugnando al fianco tuo. — Non puoi,
né dei tu star privatamente oscuro:
ma, di Corinto le piú illustri teste
veggio da te troncarsi; e orribil taccia
tu riportarne di tiranno. Io tale
non ti estimo finor; ma immensa doglia
in udir ciò mi accora.
Timof.   E duol men grave
forse, in ciò far, me non accora? Eppure,

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se a raffermar nella cittá la pace,

forza è tai mezzi usar, ch’altro poss’io?
Gli stessi miei concittadini han fermo
che pendessero ognor sol dal mio cenno
ben quattro cento brandi. Alcune io mieto
illustri, è ver, ma scellerate teste:
teste, che a giusta pubblica vendetta
eran dovute giá; del lor rio seme
gente assai resta, che gran tempo avvezza
a vender se, la sua cittá, i suoi voti,
va di me mormorando. Ostacol troppo
a lor pratiche infide è il poter mio;
quindi ogni astio, ogni grido, ogni querela.
Echilo Confusíon, discordia, amor di parte,
e prepotenza di ottimati, or quasi
a fin ci han tratti, è vero. Omai qual forma
di reggimento a noi piú giovi, io forse
mal dir saprei: ma dico, e il dicon tutti;
che mai soffrir, mai non vogliam tal forma,
che non sia liberissima. I tuoi mezzi
a raffermar la interna pace, assai
piú grati avrei, se men costasser sangue.
Timof. Per risparmiarne, anco talor sen versa.
Da infetto corpo le giá guaste membra
s’io non recido, rinsanir pon l’altre?
De’ piú corrotti magistrati ho sgombra
giá in parte la cittá: tempo è, che al fonte
di tanto mal si vada, e con piú senno
a repubblica inferma or si soccorra
d’ottime leggi. Se tiranno è detto
chi le leggi rinnova, io son tiranno;
ma se, a ragion, chi le conculca tale
si appella, io tal non sono. Ogni opra mia,
esecutrice è del voler dei molti:
dolgonsi i pochi; e che rileva?
Echilo   E pochi
saran, se il fratel tuo, quel senza pari

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giust’uom, Timoleon, fra lor tu conti?

Piú che se stesso ei t’ama; e assai pur biasma
altamente i tuoi modi. Io creder voglio
santo il tuo fin; ma, impetuoso troppo
tu forse, oprare anco a buon fin potresti
mezzi efficaci troppo: in man recarsi
il poter sommo, a qual sia l’uso, è cosa,
credilo a me Timofane, di gravi
perigli ognora; e il piú terribil parmi;
poter mal far; grande al mal fare invito.
Timof. Savio tu parli: ma se ardir bollente
alle imprese difficili non spinge,
saviezza al certo non vi spinge. In Sparta
vedi Licurgo, che sua regia possa
suddita fare al comun ben volea;
per annullar la tirannía, non gli era
da pria mestier farsi tiranno? Ah! sola
può la forza al ben far l’uom guasto trarre.
Echilo E forza hai tu. Deh, voglia il ciel, che a schietto
fin virtuoso ognor fra noi l’adopri!


SCENA SECONDA

Demarista, Timofane, Echilo.

Demar. Figlio, del nome tuo Corinto suona

diversamente tutta. Al cor lusinga
dolce pur m’è l’esserti madre. Il prode
giá della patria fosti: udir mi duole,
per altra parte, in te suppor non dritte
mire private: duolmi che in Corinto,
anco a torto, abborrire un uom ti possa.
Ansia, pur troppo, io per te vivo.
Timof.   O madre
men mi ameresti, se tu men temessi.
Incontro a gloria perigliosa io corro:
ma tale è pur l’ufficio in noi discorde;

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temer tu donna, e imprender io.

Demar.   Mi è grata
questa tua audace militar fierezza;
né me privata cittadina io tengo;
me, di due grandi madre, onde sol uno
piú che bastante fora a me far grande
sovra ogni greca madre. Altro non bramo
che a te veder Timoleone al fianco
d’accordo oprar col tuo valor suo senno.
Timof. Timoleon forse in suo cor finora
non dissente da me; ma il passeggero
odio, che a nuove cose ognor tien dietro,
niega addossarsi; e me frattanto ei lascia
solo sudar nel periglioso aringo.
Echilo T’inganni in ciò, giá tel diss’io: non lauda
egli il tuo oprar; se il fesse, avresti meno
nimici, assai.
Demar.   Ben parli; ed a ciò vengo.
Timoleone a te minor sol d’anni,
puoi tu sdegnarlo in ogni impresa tua
secondo a te? Dolcezza è in lui ben atta
a temprar tuo bollore. In me giá veggo
bieco volger lo sguardo orbate madri,
orfani figli, e vedove dolenti;
in me, cagion del giusto pianger loro.
Molti han morte da te: se a dritto uccidi,
perché ten biasma il fratel tuo? se a torto,
perché il fai tu? Loco a noi dia quí primo,
non la piú forza, la piú gran virtude.
De’ figli miei sulle terribili orme
si pianga, sí, ma dai nemici in campo;
di gioja esulti il cittadin sui vostri
amati passi; e benedir me s’oda
d’esservi madre.
Timof.   In campo, ove dá loco
solo il valore, il loco a noi primiero

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demmo noi stessi: infra ozíose mura

di partita cittade, invidia armata
di calunnie e di fraudi il loco primo,
a chi si aspetta, niega. A spegner questo
mortifer’angue ognor, pur troppo! è forza,
che breve pianto a piú durevol gioja
preceda; e gloria con incarco mista
n’abbia chi ’l fa. Mi duol, che il fratel mio,
piú merco io gloria, meno amor mi porti.
Demar. Invido vil pensiero in lui?...
Timof.   Nol credo;
ma pur...
Echilo   Ma pur, niun’alta impresa a fine
condur tu puoi, se caldamente ei teco
senno e man non v’adopra.
Timof.   Or, chi gliel vieta?
Mille fíate io nel pregai: ma sempre
ritroso ei fu. Secondator, nol sdegno;
ma sturbator, nol soffro.
Demar.   E fia, ch’io soffra,
ch’ei d’un periglio tuo non entri a parte;
o che palma tu colga ov’ei non sia?
Echilo, a lui, deh, vanne; e a queste case,
ch’ei piú non stima or da gran tempo stanza
di fratello e di madre, a noi lo traggi.
Convinceremlo, od egli noi; pur ch’oggi
solo un pensiero, un fine, un voler solo,
a Demarista e a’ figli suoi, sia norma.


SCENA TERZA

Demarista, Timofane.

Timof. Forse ei verrá a’ tuoi preghi; ai replicati

miei, da gran pezza, è sordo: ei qual nemico
me sfugge. Udrai, come maligno adombri

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ogni disegno mio d’atri colori.

Demar. Timoleon la virtú viva è sempre.
Giá tu non odi in biasmo tuo tal laude:
madre a figliuol può d’altro figlio farla.
Ne giovi udir, perch’ei ti sfugga. Ei t’ama;
e ben tu il sai: col prematuro suo
senno talora ei ricopria gli eccessi
de’ tuoi bollenti troppo anni primieri;
ei stesso elegger capitan ti fea
de’ Corintj cavalli: e ben rimembri
quella fatal giornata, ove il tuo cieco
valor t’avea tropp’oltre co’ tuoi spinto,
ed intricato fra le argive lance:
chi ti sottrasse da rovina certa
quel fatal dí? Con suo periglio grave,
non serbò forse ei solo, a’ tuoi l’onore,
la vittoria a Corinto, a te la vita?
Timof. Madre, ingrato non son; tutto rammento.
Sí, la mia vita è sua; per lui la serbo:
amo il fratel quanto la gloria: affronto
alti perigli io solo; egli goderne
potrá poi meco il dolce frutto in pace;
se il pur vorrá. Ma, che dich’io? lo stesso
ei non è piú per me, da assai gran tempo.
I piú mortali miei nemici ei pone
tra i piú diletti suoi. Quel prepotente
Archida, iniquo giudice, che regge
a suo arbitrio del tutto or questo avanzo
di magistrati; ei, che gridando vammi
di morte degno, in suon d’invidia, e d’ira;
egli è compagno indivisibil, norma,
scorta al fratello mio. — Perché la vita
crudel serbarmi, se m’insidia ei poscia
piú preziosa cosa assai; la fama?
Demar. Non creder pure che a malizia, o a caso,
egli opri. Udiamlo pria.

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Timof.   Madre, lo udremo.

Deh, non sia questo il dí, che a creder abbi
me sconoscente, o mal fratello lui!
Sai, che il poter ch’ei giá mi ottenne, or vuole
tormi ei stesso; e che il dice?
Demar.   Assai fia meglio,
ch’ei teco il parta: egual valore è in voi;
maggior, soffri ch’io ’l dica, è in lui prudenza:
che non farete, uniti? E qual mai tempra
di governo, eccellente esser può tanto?
E qual di me piú fortunata madre,
se d’una gloria, e d’un poter splendenti,
fratelli, eroi, duci vi veggio, e amici?
Timof. Madre, per me non resterá, tel giuro.