Tiranni minimi/II

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I III
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II.

La piccola Agnese non aveva mai avuto fortuna. Prima che nascesse, il babbo suo, già carico di famiglia, bestemmiava come un turco per quel nuovo peso che gli cascava addosso; i figliuoli ne tenevano il broncio alla madre, e mormoravano tra’ denti, ch’era una vecchia senza giudizio; e dopo, appena fu messa al mondo, continuarono i musi e i litigi perchè invece di una femmina avrebbero voluto un maschio. La povera mamma tremava di continuo a cagione della creaturina sua, e dovea tenerla nascosta, e per allattarla scappava lontana, o correva a rifugiarsi in qualche angolo buio della catapecchia, temendo sempre che gli uomini non gliela inghebbiassero, come minacciavano di fare, col sugo di bosco.

Poi, quando più tardi la piccina fu divezzata, non vollero che la donna se la portasse dietro [p. 191 modifica] mentre andavano a lavorare: era una seccatura e un perditempo. Invece la tenevano chiusa in casa, senz’altra compagnia all’infuori di un gattaccio nero e di una gallina vecchia.

Gli spaccalegna abitavano una specie di tana: due buche basse, l’una dietro l’altra, colle pareti annerite dal fumo e dall’umido. Nella prima, un gran tavolone roso da’ tarli, e tutt’intorno una panca sgangherata, serviva di desco; nella stanzaccia appresso dormiva la famiglia; uomini, donne, e il ciuco insieme. Lì non c’era nemmeno una finestra; ma l’aria e la luce penetravano dagli spacchi del tetto e delle pareti. Sullo sterrato del suolo colava il sudiciume della bestia insieme con quello de’ cristiani e spandeva entro il misero tugurio un fetore malsano.

La bimba abbandonata rufolava l’intero giorno in quel sudiciume. Essa teneva stretta fra le manine grasse un pezzo di polenta nera che biascicava di mala voglia. La gallina, cheta, silenziosa, veniva di tratto in tratto a beccargliela furtivamente, e poi subito scappava via [p. 192 modifica] strillando, colle ali aperte, seguita sempre dall’occhio giallo, fisso del gatto, aggomitolato sulla panca.

La bimba, così sola, rideva, piangeva, si arrabbiava, si spaventava, poi, sola sola, tornava a confortarsi. Ma quando si faceva buio e Agnese non vedeva nella stanzaccia altro che gli occhi lucenti del gatto, essa cominciava a disperarsi e si metteva a piangere, a strillare e non si acquietava fino a tanto che un calcio del babbo e il fiato caldo di Parigi, il cane volpino, che veniva a leccarle il viso, non l’avvertivano del ritorno della famiglia. Allora essa correva a rifugiarsi accanto al camino e non si sentiva più neanche respirare.

La mamma non osava difenderla, perchè gliela avrebbero maltrattata peggio che mai; ma la cercava sempre con gli occhi pieni di tenerezza paurosa.

Era una donna alta e scarna, dal cui viso smunto traspariva una bellezza guasta ancor più dai patimenti che dagli anni; gli occhi esprimevano quella mestizia dolce e affettuosa, [p. 193 modifica] che indica come l’anima sia rassegnata, ma non abituata al dolore. Sempre sottomessa e umile soffocava persino i sospiri; soltanto quando proprio non poteva reggere allo strazio, osava dire appena qualche parola per difendere l’Agnese.

— «Finite di tormentarla... Già non è colpa sua s’è venuta al mondo!»

E quando scodellava, lasciava per ultima la ciotola della bambina; nè la metteva in mostra sul desco, ma la teneva in un angolo del focolare, così gliela empiva sino all’orlo, senza che gli uomini avessero a brontolare per quello spreco.

Agnese, seduta in terra, colla ciotola tra le gambette, afferrava il cucchiaio di legno e cominciava a mangiare; ma coi movimenti ancora incerti delle manine non imboccava bene la cucchiaiata e più di mezza le colava giù dalla bocca a imbrodolare il vestituccio. Intanto il gatto nero le si avvicinava piano piano, e veniva a ficcare il muso nel piatto. Agnese, subito, lo minacciava col cucchiaio, non arrischiandosi a picchiarlo, [p. 194 modifica] e non osando gridare. Invece si guardava intorno smarrita, cercando la mamma sua; ma la mamma era l’unica donna della casa, e dopo aver lavorato «cogli uomini,» mentre essi cenavano, usciva a raccogliere l’erba pel somarello... E il gattaccio continuava sempre a leccare, e leccava finchè Parigi, vedendolo, gli si avventava contro ringhiando... L’altro faceva le fusa, drizzava il pelo, soffiava, poi, via come di volo verso una tana sotto il tetto, e spariva... Parigi dietro, abbaiando, rovesciando la scodella di Agnese.

— «Parigi!... qua!... To'!... canaglia...» e giù parolacce e bestemmie.

Parigi, colla coda tra le gambe, tornava lentamente sotto la tavola: il gatto adagio adagio rientrava in cucina per un altro buco, e la bimba, ancora tremante, raccoglieva col cucchiaio la broda colata in terra.

Ma per altro, in mezzo a que’ cattivi, c’era di buono, oltre la mamma e Parigi, anche il cugino Menico: un ragazzetto di pochi anni più grande di Agnese. Ed anzi, qualche tempo dopo, [p. 195 modifica] quando il piccolo spaccalegna si ruppe una gamba cadendo da un abete, restando egli pure tutto il giorno rinchiuso insieme colla bimba, cominciò proprio a volerle bene.

Chiacchieravano tra loro soli, a voce bassa, ridendo, canticchiando, giocando e infilando coccole rosse di pugnitopo, e ghiande verdi e gialle colle quali l’ambiziosetta si faceva collane e orecchini. Menico intanto si godeva quel riposo insperato, e la bimba, tutta gaia, faceva la donnina, attorno al piccolo infermo; o gli stava accoccolata vicino, sul saccone, deliziandosi al molle calduccio. Poi, quando Menico potè cominciare ad alzarsi, i due ragazzi passavano intere le loro giornate nel praticello dietro la casa, a declivio sopra un torrente che scorreva chiuso in una villetta tutta verde. La bimba girellava raccogliendo fiori, e belle foglie larghe e striate, che ammucchiava sulle ginocchia di Menico. Poi anch’essa gli si sedeva vicino sull’erba e si divertivano insieme a intrecciare ghirlande e a far mazzolini.

Nelle ore calde del meriggio Agnese scendeva [p. 196 modifica] sotto l’ombra folta della riva per dar la caccia alle farfalline dai vivi colori, agli scarabei dorati e alle damigelle graziose, colle alette azzurre splendenti al sole. E gridi e risa di gioia annunciavano a Menico il ritorno della bimba, che egli vedeva comparire rossa e trafelata sull’erba, coll’insetto chiuso fra le mani.

Ma presto riprincipiarono i patimenti della piccola Agnese. Appena ebbe dieci anni il babbo e i fratelli suoi vollero che si mettesse a lavorare, e le furono tutti addosso coll’accanimento di chi intende rifarsi di un danno patito.

— «Aveva campato a ufo per tanto tempo!... Era ormai tempo che il suo pane lo guadagnasse!»

La mamma cercava di risparmiarla; ma gli uomini montavano in furia anche contro di lei e la facevano morir di fatica perchè non avesse da star dietro alla figliuola. Tutte le mattine era l’Agnese che doveva portare al bosco l’acqua e la merenda degli spaccalegna... — C’erano due, tre, alle volte anche quattro miglia da fare per una viottolina ripida e sassosa. La bimba teneva [p. 197 modifica] la sporta della polenta in una mano, coll’altra il secchio dell’acqua, e saliva su su, adagio adagio, traballando, e lacerandosi i piedini nudi sul sentiero. Menico, quando poteva scappare, le veniva incontro un buon tratto di strada per aiutarla; ma se gli altri se ne accorgevano, guai! lo picchiavano come un asino ed anche più forte, perchè la pelle dell’asino costa quattrini.

Finalmente, un giorno, uno degli uomini si risolse di pigliar moglie. La mamma s’era fatta vecchia e rifinita e Agnese sola non bastava a far le sue veci. Ma per altro, quando sarebbe entrata in casa una donna giovane e forte da metter sotto a sfacchinare, l’Agnese sarebbe tornata a essere un soprappiù. Perciò la mamma, prevedendo nuovi tormenti e sperando così di formare la felicità della figliuola, si rassegnò a distaccarsene e trovò modo di mandarla in città a servire.

Il babbo aveva dato il suo consenso non solo, ma si stimava molto fortunato: gli pagavano la bimba cinque lire al mese: non aveva mai sperato di cavarne tanto profitto!