Tiranni minimi/I

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I

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Tiranni minimi II
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I.

— «Sta ferma, brutta saetta!» strillò la contessa Orsolina alzando con una mano, in aria di minaccia, un pettine d’osso giallo e sdentato, e coll’altra dando una tirata rabbiosa alla grossa coda di capelli castagni della piccola Agnese.

La fanciulletta in piedi, dritta dinanzi alla padrona che la pettinava, non si era mossa fino allora, ma traballò per quella strappata forte, improvvisa, e le si empirono di lacrime gli occhioni grandi, infossati nel visino smorto. Tuttavia rimase sbalordita, senza mettere un grido: era tanta la soggezione e la paura, che non osava fiatare.

— «Sta ferma, brutta saetta!» ripetè la [p. 164 modifica]Contessa, e questa volta, dopo avere scaraventato il pettine sulla seggiola vicina, accompagnò la tirata con uno scappellotto.

— «Le fo anche da serva, a quella monella... E lei, invece di essermene grata, le inventa tutte per farmi scappar la pazienza!»

La sera, prima che la famiglia uscisse in gala per recarsi al Caffè d’Europa, la piccola Agnese, che serviva in casa da sguattera, da cuoca, da cameriera e da bambinaia, veniva sempre lisciata e vestita di tutto punto dalle mani stesse della contessa Orsolina, che si assoggettava, non senza dispetto, a quella disgustosa operazione, pur di tener alto il decoro della casa. È da sapersi poi che la Contessa la chiamavano tutti Orsolina, col diminutivo, soltanto perchè ciò le faceva piacere; ma, in verità, era invece un pezzo di donna alta e tarchiata, coi capelli rossicci arruffati che pareano un enorme parruccone, e colla faccia tonda, colorita, tutta sparsa di lentiggini e di bitorzoli giallognoli, che la Contessa chiamava nei, reputandoli una delle sue tante bellezze. [p. 165 modifica]

La bimba, nel frattempo, sotto le sfuriate della padrona aveva sempre taciuto, e per non muoversi punto, non si asciugava nemmeno le lacrime che le colavano chete giù dalle guance pallide e smunte, sul grembiule bianco.

— «Piange, quella smorfiosa. Piange!» continuò a brontolare la signora, che aveva incominciato a far la treccia, movendo in fretta le dita grosse, coperte dagli anelli d’oro, con un moto che pareva meccanico. «Piange, povera vittima!» e per ischernire Agnese prese a farle il verso, sforzando la voce aspra, fessa, a una cantilena piagnucolosa. Ma poi, quel dolore muto, quel pianto silenzioso finì per irritarla maggiormente e «Bada» tornò a gridare infuriata, «bada che se non ismetti di frignare, ti concio io pel dì delle feste».

La bimba, allora, si sforzò di trattenere le lacrime e si asciugò gli occhi colle manine ruvide e annerite, già sformate dalle fatiche grossolane e screpolate dal rigovernare.

La Contessa, terminata la treccia, la legò in [p. 166 modifica]fondo stretta stretta coi capelli che tolse via dal pettine; prese le forcine che aveva preparate sulla seggiola (era in cucina, dove abbigliava l’Agnese), le riunì tutte in un mazzetto e se le mise fra le labbra per averle più sotto mano; poi levandosele ad una ad una appuntò con esse la treccia che rigirò intorno al cocuzzolo, aggiustandovela in fine con un colpo secco della palma della mano.

— «Ecco fatto: adesso voltati marmotta!»

La bimba ubbidì subito; si voltò, tenendo la testa bassa; ma sul grembiulino bianco, inamidato, si vedevano qua e là le tracce delle lacrime cadute.

La Contessa, a quella vista, strillò come una indemoniata, agitandosi, smaniando, che pareva presa dalle convulsioni: buttò fuori improperi e parolacce, e siccome la piccina spaventata proruppe in singhiozzi, le allungò un manrovescio così forte che le fe’ rossa tutta una guancia.

In quel punto, mentre lo strepito era maggiore, si aprì adagio adagio l’uscio interno della [p. 167 modifica]cucina, che metteva in una stanza attigua; poi fece capolino fuori dell’uscio una faccia pallida, magra, sparuta, con una barbettina rada e una gran zazzera di capelli neri; e rimase là esitante, a guardare, senza muoversi punto.

— «Se i vicini ci sentono» disse infine una vocina sottile e sommessa, «si fa la figura di tanti matti!»

Quel personaggio che non osava inoltrarsi era il marito della terribile Contessa: il conte e cavaliere Venceslao Portomanero, professore a duemila e duecento lire nel regio Ginnasio di Verona.

— «Sì, facciamo una figura da cani» continuò a strillare la signora, «ma è questa sciagurata che ci fa scomparire! E tu che sei un uomo, se non ti muovi per darle una buona lezione, mi farà crepar arrabbiata... e sarete tutti contenti!»

Il signor Conte guardò allora la bambina e sul volto spaurito gli passò come un’ombra di pietà; poi con una durezza che si sentiva forzata, «Andiamo, animo, da brava», disse ad Agnese, [p. 168 modifica]sempre colla sua vocina da pecora, «cercate, santa pazienza, di metter giudizio!» Ma dette queste parole sparì subito dietro l’uscio, che si richiuse con grande sgomento della fanciulletta, che si vedeva nuovamente abbandonata sotto le granfie della padrona.

Eppure Agnese, o la bambinaia, come la chiamava la contessa Orsolina, aveva avuto in casa Portomanero i suoi giorni buoni di felicità e di gloria; ed erano stati i primi appunto, in cui, dopo aver lasciato il verde paesello del Tirolo, i prati odorosi, le rocce bigie di granito, era scesa a Verona ed era venuta a servire e a stentare, in un quartierino privo d’aria e di luce, che sapeva di muffa.

La Contessa si faceva provvedere il personale di servizio da una sua amica che abitava Trento: e ciò perché le tirolesi sfacchinavano il doppio delle altre, e avevano minori pretese pel vitto e pel salario. Di più, essa voleva che non avessero mai servito, così non erano ancora ammalizzite e le poteva meglio governare. [p. 169 modifica]

Quando arrivò l’Agnese dal Trentino la Contessa in persona si recò a riceverla alla stazione; onore codesto ch’era toccato per altro, indistintamente, a tutte le bambinaie che l’avevano preceduta; e come la signora aveva fatto colle altre, abbracciò e baciò con grande effusione la nuova arrivata, ripetendole il solito discorsetto, che in quel momento di contentezza era veramente sentito:

— «Come ti chiami?»

— «Agnese, signora Contessa...»

— «Brava: è un nome che mi piace. Ricordati, che se sarai savia, non avrai in me una padrona dispotica, ma troverai invece una buona mamma».

Si avviarono a piedi verso Porta Nuova. La Contessa che dondolava tronfia e severa nella grassa maestà della sua persona, colle piume e i nastri svolazzanti del cappellone passato di moda, dono di una sua parente di Venezia; la bambina, che tratto tratto saltellava, non potendo tener dietro ai passi smisurati di quel donnone. [p. 170 modifica]

La signora Contessa non osava mai approfittare delle vetture di piazza: — «Non si è mai sicuri di quel che si porta a casa!»

La corsa era lunga: Agnese, stanca, cambiava da un braccio all’altro il suo piccolo fardelletto. La Contessa, rossa, accesa, col viso lustro pel sudore e una treccia di capelli che si snodava di sotto al cocuzzolo, sbatteva, ansante, il ventaglio, ma non rallentava il passo.

— «Hai fame, Agnese?» domandò dopo un poco.

La bimba, vergognosa, e con un affanno che le levava il fiato, rispose un monosillabo inintelligibile.

— «Oggi mangerai le papparelle al sugo: ti piacciono le papparelle?»

— «Sì, signora Contessa».

Allora cominciarono le prime istruzioni. Due cose, anzi tre, raccomandava la Contessa in modo particolare: l’ordine, la pulizia e il buon cuore. In quanto alla pulizia doveva proprio badarci assai, perchè il «signor Conte» su quel [p. 171 modifica]proposito era molto esigente; ma per contentar lei, bastava aver cuore. Sicuro, qualora si mostrasse affettuosa, affezionata, specialmente colla Rosalia, «la signora» avrebbe finito col chiudere un occhio e magari due, su tutto il resto. Già, in casa, non c’era molto da fare. Soltanto doveva abituarsi a essere ordinata per non affastellare le faccende! — Del resto non aveva altro che due persone sole da servire; chè la Rosalia, naturalmente, non contava. — La Rosalia sarebbe stata per Agnese uno svago, una delizia! Rubava il cuore quella ciocina!... Era un tesoretto. — E poi qualche volta, si sa bene, anch’essa «la padrona» le avrebbe data una mano. Preferiva lavorare un po’ piuttosto che vedersi attorno un’altra persona di servizio; un viso nuovo! Eran tutte viziose, sudice, ladre!... E anche l’Agnese doveva esser contenta di trovarsi sola: così almeno, nella sua cucina, la padrona dispotica era lei! Con due donne insieme sarebbe stato troppo difficile il buon accordo: invidie, gelosie, liti!... Una casa del diavolo!... E il signor Conte su [p. 172 modifica]questo tasto era inflessibile. Guai, se sentiva leticare!... E aveva ragione, perchè ne scapitava il decoro della famiglia.

Quando attraversarono la Piazza Brà, la Contessa indicò ad Agnese il Caffè d’Europa.

— «Guarda com’è bello, ti piace?»

La bimba guardò senza risponder nulla: pareva istupidita.

— «Tutte le sere, o suona la banda sulla piazza o c’è concerto dentro, nella sala del Caffè — Guarda com’è grande! — Noi ci veniamo sempre. E verrai anche tu, colla Rosalia. Vedrai, vedrai; un po’ di buona volontà, un po’ di buon cuore, e pulizia, e puoi star sicura di godere il papato!»

Giunte in fondo della piazza le fe’ ammirare anche l’Arena.

— «Lì dentro, una volta, ci stavano le bestie feroci, che mangiavano i Cristiani vivi». E con un suo ghignetto di compiacenza, continuò: «Di’ la verità, ti piace più Mori...» era il capoluogo del paesello di Agnese: «ti piace più Mori o Verona?» [p. 173 modifica]

La bimba alla domanda improvvisa si sentì stringere il cuore. Là, in mezzo a quella piazza così grande, fra tutte quelle casone bianche, con quella padrona al fianco, che vedeva per la prima volta e le metteva addosso tanta soggezione, volò col pensiero alla sua povera casetta, alla mamma, a Menico, e alzò timidamente gli occhi smarriti in volto alla signora, sospirando senza risponder nulla.

Alla poverina pareva di sognare. Difatti l’avevano destata di notte, bruscamente, per metterla in viaggio; l’avevano cacciata in una diligenza, tra una fitta di persone che la guardarono tutte di malumore e che si scomodarono appena per farle un po’ di posto. Uno sgomento, un affanno nuovo, profondo la travagliava... Pure, per la stanchezza, pisolava a ogni tratto; ma quando tornava a svegliarsi spaventata pel traballìo della grossa vettura, la riprendevano quello sgomento e quel dolore, e alla luce malinconica dell’aurora, si facevano sempre più vivi, sempre più angosciosi. Poi, trovavasi sola, abbandonata [p. 174 modifica]sotto l’ampia tettoia della stazione, credeva di perdersi; rimaneva immobile, confusa, vergognosa fra il trepestio della folla affaccendata; non sapeva che fare, dove andare, a chi rivolgersi. Alla fine un conduttore, con mal garbo, la fe’ correre quanto era lungo il treno, rossa, ansante, col suo fardello sotto il braccio, e la spinse su, strapazzandola, in un vagone di terza classe, sbacchiandole dietro lo sportello, mentre la macchina fischiava e il treno si metteva in movimento. E anche lì dentro, come prima nella diligenza, essa fu guardata di traverso da visacci arcigni, che l’accolsero con mal garbo... — Sì, sì; le pareva di sognare; sperava ancora che il suo non fosse altro che un brutto sogno. Ma poi, quando dovette convincersi d’essere desta davvero, allora lo sgomento di prima tornò a premerle sul cuore.

Buon per lei che la Contessa, in vena d’indulgenza, interpretava tutto benevolmente, anche la timidezza, anche la mestizia; tanto che appena giunta a casa, ancora scalmanata, contò subito [p. 175 modifica]al marito che la nuova bambinaia si mostrava molto intelligente e che sperava, alla fine, d’esser riuscita ad accomodarsi bene. E si mantenne in questa buona disposizione per tutta una settimana; durante la quale Agnese fu lodata, vezzeggiata, tenuta di conto, come una cosa rara. Le davano anche abbastanza da mangiare, e ogni poco la padrona tirava fuori da certe scatole di dolci stinte e sciupate, doni di nozze che contavano parecchi anni, talune chicche vecchie, indurite, che regalava alla fanciulla; la quale, non usa a simili finezze, le riceveva arrossendo, tutta confusa per la timidezza e la gioia; e dopo averle ammirate le metteva in serbo per la mamma e per Menico, in una scatola di mostarda senza il coperchio, che pure le era stata donata, perchè vi riponesse la sua roba.

La contessa Orsolina in quei primi giorni non era uscita mai; era rimasta tutto il tempo colla bambinaia per aiutarla, finchè non avesse imparato la pratica della casa.

Senza sottane, senza busto, la signora non [p. 176 modifica]indossava altro che una spolverina da viaggio di tela greggia, logora e unta, che faceva servire a uso veste da camera. In ciabatte, coi capelli rossastri che le uscivano spettinati di sotto a un foulard annodato attorno al capo, con un paio di guanti sudici, del marito, per non guastarsi le mani; trafelata, molle di sudore, col viso acceso, coi fianchi enormi e col petto opulento che le ciondolava, faceva ballare i vetri delle finestre andando e venendo, dalla camera al salotto, e dal salotto alla cucina; sempre armata dello spolveraccio e del pennarolo: sempre acciaccinata, sempre strillando. E «Bada, bimba, bada» ripeteva ogni minuto all’Agnese, «queste faccende devi poi imparare a farle da te. — Guai se mi vedesse il signor Conte in questo stato, guai! monterebbe in bestia!»

Ma la ragazzetta prometteva bene; e la padrona se ne mostrava sempre più soddisfatta, ritrovandole tutte le belle qualità di cui appunto difettava maggiormente «quella vipera, quella sudiciona, quella sciagurata dell’ultima [p. 177 modifica]bambinaia che aveva avuto e che» raccontava sempre la Contessa «era stata costretta a scacciare sui due piedi!» — La cosa, per altro, non era andata proprio a quel modo. Una bella mattina, svegliandosi arrabbiata perchè la serva non le apriva le imposte, si accorse che «quella briccona» era scappata di casa. Figurarsi il baccano! Si parlò di ricorrere alla questura... Ma poi, siccome per paura d’essere ripresa, la serva rinunciava tacitamente a quindici giorni di salario, così alla signora, dal canto suo, parve più conveniente, sbollita l’ira in chiacchiere, di non farle correr dietro il conte Venceslao!

Anche Rosalia, la piccola erede di casa Portomanero (un popone sformato di ciccia gialla e floscia, colle gambe corte, e le croste sul viso), doveva anch’essa in quei giorni di gaudio mostrarsi garbata. La contessa Orsolina le insegnava a dare i baci alla francese alla nuova bambinaia; e la sgridava se non le lasciava mangiare il pranzo in pace, ripetendo sempre che anche le altre donne se n’erano andate per via [p. 178 modifica]de’ suoi capricci. Poi voleva che non facesse la caparbia, che smettesse il viziaccio di farsi sempre portare in collo per istrada, e infine, quando erano la sera al Caffè d’Europa, perchè «si abituasse ad essere di buon cuore», l’obbligava a dividere con Agnese il biscottino che la bamberottola succiava adagio adagio, tuffandolo nella mezza marenata della mamma.

Ma in sul più bello di tanta serenità e di tanta pace, verso il settimo giorno, si addensarono le prime nubi, sotto forma di semplici ammonizioni: — «Bada, Agnese; ti ho già detto un’altra volta che mi consumi troppa legna! — Bada, Agnese; il signor Conte ha gridato con me perchè non gli hai smacchiato l’abito nero. — Agnese, devi star più attenta alle cose! — Agnese, diventi poltrona! — Agnese, non abusare della mia bontà!» Poi la Contessa cominciò a stringere le labbra, a scrollare il capo, segni forieri di tempesta, e a mormorare: «Non capisco... Avevi fatto tanto bene i primi giorni... Non capisco; ma ci sarà sotto la sua ragione!» Frase [p. 179 modifica]misteriosa, detta così misteriosamente da spaventare la poverina ignara del supposto arcano. — «Certo, certo; ci sarà sotto la sua ragione; lo crede anche il signor Conte!» E, finalmente, dopo il lungo brontolìo del tuono, scoppiò improvvisa la saetta quando la Contessa si mise a urlare disperata che «Agnese non aveva cuore, che era un’ingrata,» e le rinfacciò brutalmente le garbatezze prodigatele, le chicche, il mezzo biscottino di Rosalia e i concerti del Caffè d’Europa.

Agnese intanto si faceva sempre più smunta, sempre più magra e sbalordita. Sfacchinava dalla mattina alla sera; era sfinita, ma non riusciva mai a contentare la signora. In verità, la disgrazia della bambinaia era una sola, e pur troppo inevitabile: granata nuova spazza bene tre giorni; e n’erano passati più di sette!... Adesso la contessa Orsolina si seccava a restar tutto il giorno coll’Agnese per insegnarle «la pratica della casa» e «per darle una mano.» Adesso voleva alzarsi tardi, voleva uscire, [p. 180 modifica]voleva andare a far visite. Insomma «voleva tenere una donna non per far lei la serva, ma per essere servita!» Nella sua indolenza di donna grassa e nel suo egoismo di pitocca sfarzosa, non si capacitava che una bimba di dodici anni non avrebbe potuto sostenere sulle sue povere spallucce tutto il peso di casa Portomanero; ma invece, più era esigente e incrudeliva, e più perdeva la coscienza della propria ingiustizia, persuasa che era stata ben grulla nell’aiutare l’Agnese, perchè la sorniona, colla sua «furberia da montanara ne approfittava per oziare e per mangiare il pane a ufo!»

— «Alla fin fine il quartierino era piccolo, Agnese non aveva altro che due persone sole da contentare, e in ventiquattr’ore c’era tempo e n’avanzava per lavorare e per riposarsi! Bastava che avesse avuto un zinzino di buona volontà; ma invece era una ragazzaccia disordinata quanto mai, e poi d’una sciatterìa che faceva rabbia a guardarla!»

E, al solito, anche questa volta, a mano a [p. 181 modifica]mano che la nuova bambinaia scemava di pregio, tornava in ballo quella di prima, e nasceva nella padrona la smania di riagguantarla.

«Per la pulizia,» principiava a dire la signora al conte Venceslao, che l’ascoltava sempre muto e sempre rassegnato a darle ragione, «per la pulizia bisogna proprio convenire che quell’altra era una meraviglia. E poi ti ricordi com’era svelta? E com’era precisa in tutte le cose?... Basta...» e la Contessa sbuffava stizzita, «una come quella non la trovo più!» Poi, essendo in vena di sentimento, ne lodava la bontà del cuore. — «Sicuro; la Virginia» era questo il nome della serva che aveva preso il volo «era molto più affezionata alla casa; e lo aveva provato in varie occasioni! ed anche a lei voleva molto bene! — Si era disgustata soltanto per cagione di Rosalia. Quella monella pretendeva sempre di stare in collo!... Ma se si potesse trovar modo di riaver la Virginia, sarebbe pure una gran bella cosa!...» E la sera a letto, fra le coniugali tenerezze, ingiungeva al marito (anche in quei [p. 182 modifica]dolci momenti la Contessa conservava sempre il tono assoluto) di correre la mattina appresso, prima della lezione, dalla fruttaiola sotto i Portoni dei Borsari (una che trovava servizio alle ragazze) per cercare s’era possibile di riaccomodarsi.

Il Conte, volendo esimersi, tirava in ballo la dignità offesa per la fuga della serva; ma la moglie, subito gli chiudeva la bocca con un altro argomento, che non ammetteva repliche: l’economia.

— «La Virginia mangiava molto meno di questa ghiottona dell’Agnese!»

Proprio, per dire la verità, l’accusa d’ingordigia era la più ingiusta che mai si potesse fare in casa Portomanero, dove nessuno mangiava a sufficienza, compreso il conte Venceslao. Soltanto la Contessa, colla scusa dei languori, si faceva certe frittatine, mentre il professore era a scuola, che le permettevano poi, all’ora del pranzo, di moderare l’appetito del consorte, coll’esempio della propria sobrietà. [p. 183 modifica]

Ma i coniugi ne avevan pochini da spendere, e meno ancora ce n’erano per i gusti aristocratici della contessa Orsolina. Le loro rendite non toccavano mai le tremila lire, tutto compreso; quantunque il conte Venceslao, dopo la scuola, corresse in giro a dar lezioni private.

— «Il benedett’uomo si strugge se non sta a predicare il latinorum!» diceva la Contessa, colla sua voce sgarbata, ai professori, che la sera le facevano corona al Caffè d’Europa. — Essa voleva dare ad intendere che non ce ne fosse punto bisogno, che anzi avesse a noia quel lavoro soverchio del marito; poi, nel segreto delle pareti domestiche, lo stimolava, rimbrottandolo, a darsi moto per trovar lezioni.

Alla signora piaceva assai di stare sulle mode, sebbene non fosse molto lungi dalla quarantina. Ma si sentiva rifiorire con un ritorno di aspirazioncelle giovanili, grazie a quel marmocchio, che le era capitato, non sapeva come, dopo dieci anni di matrimonio. E poi si reputava sempre una bell’asta di donna, e si arricciava le [p. 184 modifica] ciocchine sulla fronte un po’ rugosa. Superba della sua pinguedine, de’ suoi bitorzoli e delle vesti appariscenti, non credeva scemata la propria avvenenza dai denti cariati, nè la propria eleganza dalle unghie nere, alle quali non badava mai, perchè già, fuori di casa, portava sempre i guanti. Del resto, e se ne vantava, curava molto la pulizia: una volta alla settimana andava a prendere il bagno a San Luca, e la sera dopo raccontava al Caffè quella sua raffinatezza respirando a ogni tratto per il piacere di sentirsi «bella fresca».

I colleghi del marito non la potevano soffrire, ma le erano soggetti per via del Provveditore agli studi, un omettino piccolo, gobbo, tisicuzzo, che coi suoi occhietti miopi, senza vedere i particolari, apprezzava soltanto la quantità della persona.

Con quei gusti della padrona e coi denari contati, si capisce che dovessero andare di sotto i piaceri della tavola.

«Quel che si mangia non c’è più» [p. 185 modifica] sentenziava la Contessa dopo pranzo, mentre il conte Venceslao faceva ancora la zuppa in un mezzo bicchier di vino, cogli avanzi del pane. — «La roba invece rimane sempre, e si fa buona figura. Già è la moglie che rappresenta l'emblema della famiglia. — Quando esce, se si mostra ben vestita, di tutto punto, mantiene il decoro della casa, mentre, invece, chi viene a ficcare il naso nella nostra pentola per vedere che cosa ci bolle? — Non ho ragione, Lao?»

Il Conte, per tutta risposta, abbassava gli occhi sul suo abito nero, liso e spelato. Ma, secondo l’opinione della Contessa, gli abiti del marito non conferivano nessuna dignità alla famiglia; tanto è vero che il Conte non possedeva, fin dai tempi remoti, altro che quel suo vestito voltato e rivoltato, così ch’era lucido di sotto come di sopra. E poi, anche in questo, la contessa Orsolina sapeva salvare le apparenze al solito, brontolando:

— «Pare impossibile: i letterati non vogliono mai badare alla loro toeletta. Io grido sempre [p. 186 modifica] con mio marito, ma non mi riesce di vederlo vestito bene; e anche quando gli fo fare per forza un abito nuovo, non c’è versi che lo voglia mettere e invecchia nell’armadio.»

Ci sono delle persone che fanno come i cani; si conoscono all’odore. Così era successo al conte Venceslao coll’Orsolina, che l’aveva incontrata a Vicenza, dove egli era professore in un istituto privato. E avevan potuto annusarsi a loro agio, chè l’Orsolina era figliuola appunto della padrona di casa, dove il professore era andato in pensione. Tutti e due vani, tutti e due pitocchi, tutti e due erano boriosi di quel titolo, che avrebbero potuto sbatacchiare sul muso «ai plebei arricchiti», e che li avrebbe compensati di tutti gli stenti della lor condizione.

Il conte Venceslao per altro aveva creduto che la sposa dovesse ereditare qualche soldo alla morte della mamma, e l’Orsolina aveva sperato in qualche aiuto dal nobile parentado, che sentiva tanto vantare. Così tutti e due, si erano presi a vicenda come si prende una medicina, [p. 187 modifica] che non gusta al palato, ma che si spera, abbia a recar vantaggio.

Invece le speranze furono presto deluse; la mamma era passata a seconde nozze, e il nobile parentado, dopo essersi adoperato perchè il conte Venceslao fosse nominato regio professore e creato cavaliere, faceva il sordo a tutte le altre sollecitazioni. Soltanto una parente di Venezia, che contava cinque dogi nella sua famiglia, regalava ogni tanto all’Orsolina gli abiti smessi, e a Santa Lucia mandava una cassetta di roba per la bimba.

Per tutto ciò eran rimasti delusi e malcontenti, non avendo altro che il titolo da sfoggiare e da godere. Ma l’Orsolina, di tempra più forte, si vendicava della disdetta patita, comandando a bacchetta in casa; il Conte invece, fiacco e disilluso, si lasciava dominare, per non aver di peggio, lamentandosi in cuor suo di non esser nato a buona luna.

Fossero stata gente come ce n’è tanta, con tremila lire potevano sbarcarsela benino. Ma per [p. 188 modifica] gli obblighi del nome si trovavano sempre col borsellino asciutto. La loro vita era stentata appunto perchè era tutta d’esteriore, perchè sacrificavano l’essere al parere. E il conte Venceslao, al quale ritornava un po’ di buon senso col crescere dei bisogni, sarebbe stato anche disposto, come diceva alla moglie «a molarghe un punto» coi fumi aristocratici; ma invece l’Orsolina, che per mezzo del Provveditore era stata ammessa ai ricevimenti della Prefettessa, teneva duro più che mai.

Con una servetta sola, che passava per bambinaia, essa andava parlando della sua «servitù», e dava ad intendere di tenere una cameriera e una cuoca, che poi «per caso», aveva allora allora licenziate, ogni qualvolta si vedeva in pericolo di esser colta in fallo. Nessuno era ancora riuscito a penetrare in casa Portomanero, nemmeno il signor Provveditore. Colla scusa di essere sempre in cerca di un quartierino conveniente, che non conveniva mai, la Contessa non riceveva nessuno; invece pretendeva che le [p. 189 modifica] visite le venissero fatte la sera, in Piazza Brà, al Caffè d’Europa, dove stava per ore intere come in trono, fra il marito stanco e assonnato, che scioglieva le sciarade della Nuova Arena, la bambinaia colla Rosalia sulle ginocchia, e la mezza marenata dinanzi, sul tavolino. E ogni tanto, quando c’era gente, domandava al marito perchè non voleva prendere un gelato, un’acqua o un caffè; e offriva una pasta alla bambinaia; ma il marito non beveva altro che l’acqua fresca della moglie, perchè le altre consumazioni gl’impedivano di dormire; e la serva doveva sempre rispondere con bella maniera: — «Grazie, signora Contessa, ma oggi a pranzo ho mangiato tanto, che non mi c’entra più niente!»