Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera LXIV

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Lettera LXIV

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LETTERA LXIV

E potei, Odoardo, accendermi, consumarmi d’un amore... Oh, quanto fui ingrato verso di te! Io te ne chiedo umilmente perdono; ma cessa di albergare la minim’ombra di sospetto. E noi conosci tu bene quell’angelo di bellezza, di onestá, di virtú? Il mio cuore è il reo; e ne punisco a quest’ora gli errori. Io moro, amico. Ah! permetti che sull’orlo della tomba io ti chiami con sí dolce nome: «amico». Rendi felici i giorni della tua sposa... Addio. [p. 182 modifica]

In tutto il corso della giornata si mostrò dolce e tranquillo: beneficò molti poveri montanari, e si trattenne con essi in una placida conversazione. Andò poi alla chiesa, e fu osservato che per lo spazio quasi d’un’ora si stette sempre colla faccia coperta dalle sue mani. Volle ch’io gli leggessi alcuni canti d’Ossian ed il Trionfo della morte di messer Petrarca. Amava egli fino all’entusiasmo la poesia, ed avea giá composti leggiadri versi e rime eleganti. Per lo che niuno si prenda maraviglia se le sue lettere sono sparse di alcuni pezzi eccellenti de’ grandi ingegni. Negli estremi suoi giorni non gli era rimasto che questo solo virtuoso sollievo!

Pranzò anche di buona voglia: parlò poco, e tratto tratto s’arrestava, come in atto di contemplar fissamente alcuna cosa. Terminata la mensa, partí; e piú nol vidi che a tarda sera.

Allorché ritornò a casa, mi parve di travedere nel suo volto non so qual tristezza ed orrore, che pur tentava d’ascondermi. — E dove foste in quest’oggi, o amico, ad onta dell’orribile vento che fischiava? Molti pastori hanno cercato di voi: quella buona gente volea ringraziarvi. — Egli nulla rispose; ma, dopo breve silenzio, disse che si sentiva poco bene. Si fece portar nella sua camera un bicchiero di vino; ed, a me rivolto, mestamente soggiunse: — Ho bisogno di riposo, sí, ma di lungo riposo! —

Misero! ch’io non compresi abbastanza il funesto senso di quelle parole! Mi abbracciò e mi baciò, con un sospiro cosí lugubre, con una smania cosí affettuosa, che piansi di tenerezza e palpitai di timore. Giunto nel limitare della sua stanza, tornò addietro ad abbracciarmi, e — Addio! — dicendomi, — addio! — con una languida occhiata, si rinserrò nella stanza. Io rimasi costernato ed attonito.

Iacopo scrisse le seguenti memorie:


Ore 10.

È deciso per me: debbo e voglio morire! Le mie sciagure sono arrivate all’ultimo grado. La passione è al colmo. Gioventú, brio, sensibilitá, dove siete?... dove?...

Dunque fra poche ore io non sarò piú?... io non amerò piú?... O Teresa, perché non vieni a vedermi spirarti a’ tuoi piedi?... Oimè! quella bara, quella gelida mano, quegli sguardi mi stanno qui fitti nel cervello: spalanco gli occhi, e non miro che orrendi fantasmi, tenebrosa notte, spaventevole caos! Se mai, ombra [p. 183 modifica] dolente, qui t’aggirassi, o Teresa... — Barbaro! e posso sostenere la sola idea..., e non trucidarmi..., scannarmi?

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Amico bosco, voi, lugubri cipressi, vi ho pur veduti... e per l’ultima volta! E non sembrava che all’insolito mugghiar del torrente, a l’orrendo fischio degli aquiloni, al lontano rombo del tuono la gemebonda natura mi dasse l’estremo addio? Ululavano dentro le folte macchie l’ombre de’ morti, e dal vicino cimiterio s’alzavano lunghe e ferali per salutarmi. Io vengo! io scendo nel sepolcro!

Astro di Venere! la tua scintillante luce è spenta a’ miei guardi per sempre. Ah! tu manda un tremulo e queto tuo raggio all’infelice Teresa, che piange e ti stende le braccia. Qualor passerai sovra il mio sasso, le mie ceneri forse agitate si scuoteranno, e chi sa che il tuo celeste influsso non le faccia sentire un rapido moto di amore?

O rupi selvagge, voi, monti orrendi, e tu, benefico sole, e tu, pietosa natura, addio!