Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera XVII

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Lettera XVII

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LETTERA XVII

Padova, 11 decembre.

Ho conosciuto la moglie del patrizio T., che abbandona i tumulti di Venezia e la casa dell’indolente marito per passare gran parte dell’anno a Padova. Peccato! la sua giovine bellezza ha giá perduto quella vereconda ingenuitá, che sola veracemente diffonde le grazie e l’amore. Dotta assai troppo nella moderna galanteria, cerca di piacere non per altro che per conquistare: così almeno giudico. Tuttavolta, chi sa?... ella sta con me volentieri, e mormora meco sottovoce sovente, e sorride quand’io [p. 102 modifica] la lodo; tanto piú ch’ella non si pasce, come le altre, di quell’ambrosia di freddure chiamate «bei motti» e «tratti di spirito», ch’io abborro come indizi d’un animo incapace di sentimento. Ora sappi che ier sera, accostando la sua sedia alla mia, mi parlò d’alcuni miei versi, e, innoltrandoci di mano in mano a ragionare di poesia, non so come, nominai certo libro, di cui ella mi richiese. Promisi di recarglielo io stesso questa mattina. Addio: s’avvicina giá l’ora.

Ore 2.

Il paggio m’additò un gabinetto, ove, innoltratomi appena, mi si fe’ incontro una donna di forse trentacinque anni leggiadramente vestita, e ch’io non avrei preso mai per la cameriera, se non mi s’avesse appalesata ella stessa, dicendomi: — La padrona è a letto ancora: a momenti uscirá. — Un campanello la fe’ correre nella stanza contigua, ov’era probabilmente il talamo della dea; ed io rimasi a scaldarmi al focolare, considerando ora una Danae dipinta sul soffitto, ora le stampe di cui le pareti erano tutte coperte, ed ora alcuni romanzi francesi che stavano aperti qua e lá. In questo le porte si schiusero, ed io sentiva l’aere d’improvviso odorato di mille quintessenze, e vedeva madama tutta molle e rugiadosa entrar presta presta e quasi intirizzita di freddo, e abbandonarsi sopra una sedia d’appoggio, che la cameriera le preparò presso al fuoco. Mi salutava con certe occhiate..., e mi chiedea, sorridendo, s’io m’era dimenticato della promessa. Io frattanto le porgeva il libro, osservando con meraviglia ch’ella non era vestita che di una lunga e rada camicia, la quale, non essendo allacciata, scendeva liberamente, lasciando ignude le spalle e il petto, ch’era per altro voluttuosamente difeso da una candida pelle, in cui stavasi involta. I suoi capelli, benché imprigionati da un pettine, accusavano il sonno recente, perché alcune ciocche posavano i loro ricci or sul collo, or fin dentro il seno, quasiché quelle piccole liste dorate dovessero servire all’occhio inesperto di guida, ed altre, calando giú dalla fronte, le ingombravano le pupille. Ella frattanto alzava le dita [p. 103 modifica] per diradarle, e talvolta per avvolgerle ed assettarle meglio nel pettine, mostrando in questo modo, forse sopra pensiero, un braccio bianchissimo e tondeggiante scoperto dalla camicia, che ne l’alzarsi della mano cascava fin oltre il gomito. Giacendo piegata alquanto indietro sopra un piccolo trono di guanciali, si volgeva con compiacenza al suo cagnuoletto, che le si accostava e fuggiva e correva, torcendo il dosso e scuotendo l’orecchie e la coda. Io mi posi a sedere sopra un angusto soffá, avvicinato dalla cameriera, la quale si era giá dileguata. Quell’adulatrice bestiuola schiattiva, e, mordendole e scompigliandole con le zampine l’estremitá della camicia, lasciava apparire una gentile pianella di seta rosa-languida, e poco dopo un piccolo piede scoperto fin sopra la noce; un piede, o Lorenzo, simile a quello che l’Albano dipingerebbe rappresentando una Grazia ch’esce dal bagno. O Senocrate, se tu non avessi, com’io, veduto Teresa nell’atteggiamento medesimo, presso un focolare, anch’ella appena balzata di letto, così negletta, così... Chiamandomi a mente quel fortunato mattino, mi ricordo che non avrei osato di respirar l’aria che la circondava, e tutti tutti i miei pensieri si univano riverenti e paurosi soltanto per adorarla... F. certo un genio benefico mi presentò l’immagine di Teresa, perch’io, non so come, ebbi l’arte di guardare con un rattenuto sorriso or la bella, poi il cagnuolino, e di bel nuovo il tappeto dove posava il bel piede; ma il bel piede era intanto sparito. M’alzai, chiedendole perdono se io aveva scelto un’ora importuna, e la lasciai quasi pentita, perché di gaia e ridente divenne dispettosa, e... del resto poi non so. Quando fui solo, la mia ragione1, ch’è in perpetua lite con questo mio cuore, mi andava dicendo: — Infelice! temi soltanto di quella beltá che partecipa del celeste: prendi dunque partito, e non ritrarre le labbra dall’antiveleno che la fortuna ti porge. — La ragione ebbe lode; ma il cuore avea giá fatto a suo modo. [p. 104 modifica]

Oh, la canzoncina di Saffo! Io vado canticchiandone l’aria scrivendo, passeggiando, leggendo: né così io vaneggiava, o Teresa, quando non mi era conteso di poterti vedere ed udire. Pazienza! undici miglia, ed eccomi a casa, e poi due miglia ancora; e poi?

Quante volte mi sarei fuggito da questo suolo, se il timore di non esser dalle mie disavventure strascinato troppo lontano da te non mi trattenesse in tanto pericolo! Qui siamo almeno sotto lo stesso cielo.

P. S. — Ricevo in questo momento tue lettere. E torna, o Lorenzo; questa è la quinta volta che tu mi tratti da innamorato: innamorato sì, e che per questo? Ho veduto di molti innamorarsi della Venere medicea, della Psiche, e perfin della luna o di qualche stella lor favorita. E tu stesso non eri talmente entusiasta di Saffo, che pretendevi di ravvisarne il ritratto nella piú bella donna che tu conoscessi, trattando di maligni e ignoranti coloro che la dipingono piccola, bruna e bruttina anzi che no?

Fuor di scherzo, io conosco d’essere un uom singolare, e stravagante fors’anche; ma dovrò perciò vergognarmi? Di che? Sono piú giorni che tu mi vuoi cacciar per la testa il grillo di arrossire; ma, con tua pace, io non so né posso né devo arrossire di cosa alcuna rispetto a Teresa, né pentirmi né dolermi...

Sta’ bene.

  1. Nell ’errata-corrige dell’edizione originale si pretenderebbe di correggere, sostituendo «ragione» con «passione». Giova il confronto con un passo della lettera 4 dicembre del secondo Ortis [Ed.].